Il contenzioso costituzionale Stato-Regioni: di chi è la “colpa”?

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di Claudia Tubertini

Chi avrà letto l’articolo di Sergio Rizzo (Le Regioni, Una guerra sulle leggi che stritola cittadini e imprese) pubblicato su “La Repubblica” del 15 febbraio 2021, sarà rimasto impressionato da quanto riportato dall’autore circa la crescente conflittualità tra Stato e Regioni dinanzi alla Corte costituzionale, ormai divenuta “un ingorgo spaventoso”.  Nell’ultimo decennio quasi una legge regionale su 13, si nota, è stata impugnata dal Governo, e la percentuale non è diminuita negli ultimi tre anni, anzi, è aumentata, impegnando la Corte per quasi un terzo della sua attività nell’esame di tali impugnative. Per alcune regioni (Molise, Liguria, Veneto) negli ultimi 5 anni le declaratorie di illegittimità hanno superato il 50 percento delle leggi impugnate. Ma non solo: l’autore riporta – citando un “rapporto riservato” consegnato in questi giorni dall’uscente Ministro per gli affari regionali alla Conferenza delle Regioni – che nonostante l’impegno a modificare le leggi regionali tenendo conto dei rilievi della Presidenza del Consiglio, addirittura nella metà dei casi i Presidenti di regione non hanno poi portato a termine l’impegno preso, facendo nel frattempo decorrere i termini per il ricorso da parte del Governo e far così “sfuggire alla tagliola una montagna di provvedimenti regionali potenzialmente illegittimi”. La conclusione che se ne trae – già annunciata in premessa –è impietosa per tutto il sistema regionale: il rapporto Stato-Regioni è ormai una guerra senza soluzione di continuità, di cui vittime sono soprattutto le attività economiche e le imprese”.

Il dovere di verità imporrebbe a chi utilizza dei documenti riservati a fini giornalistici di estrapolare da essi non solo i dati necessari a confermare le proprie teorie, ma di riportare anche a quelli che tali teorie potrebbero mettere in discussione. Il citato “rapporto riservato” – che è in realtà la Relazione sul contenzioso costituzionale in via principale relativo alle leggi delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano nel periodo dal 2015 al 2020  elaborata dal gruppo di lavoro all’uopo istituito dal Ministro Boccia – si concentra infatti non solo sulle ipotesi in cui l’iniziativa governativa si è conclusa con l’accoglimento del ricorso, ma anche su quelle in cui l’esito è stato a favore delle Regioni. Esaminando, infatti, gli esiti per capi di sentenza, dalla Relazione emerge la sostanziale soccombenza del Governo nel 39% dei casi (27% per infondatezza e 12% per inammissibilità); dato che porta il gruppo di lavoro a concludere che “la prospettazione delle questioni da parte dello Stato talvolta non è “centrata” o appare carente sul piano dei requisiti processuali” e che “le impugnazioni sono troppe e dovrebbero essere più chirurgiche”. Il “progressivo peggioramento, a partire soprattutto dal 2018, della qualità dei ricorsi del Governo” porta gli autori dell’analisi a suggerire di tentare sempre una interpretazione secundum constitutionem della disposizione che si intende impugnare, onde evitare la pronuncia di infondatezza; e, per evitare le pronunce di inammissibilità, a proporre l’adozione da parte del Ministro, o del Presidente del Consiglio, di indicazioni vincolanti sulle modalità di redazione delle richieste di impugnativa da parte degli Uffici legislativi dei Ministeri, in particolare specificando, per ciascuna questione sollevata, la necessità di precisare il parametro costituzionale violato e la norma interposta, in modo da creare, in sostanza un meccanismo di filtro e selezione più stringente delle questioni che realmente meritano l’avvio di un contenzioso costituzionale.

Già questi dati, da soli, forniscono una rappresentazione più completa e meno sbilanciata delle cause dell’esplosione del contenzioso costituzionale Stato-Regioni, tanto che verrebbe polemicamente da chiedersi di chi sia la colpa, se “lo scorso anno un provvedimento regionale ogni 88 ore e 32 minuti è stato spedito alla Corte costituzionale”. A ben vedere, non sono solo gli abusi legislativi e le illegittimità normative delle Regioni ad alimentare il contenzioso costituzionale, ma (anche) l’eccessivo ricorso dello Stato alla tecnica dell’impugnazione per contrastare tutti gli interventi del legislatore regionale, anche quelli legittimi. A tacer del fatto che l’aumento progressivo della produzione legislativa regionale – particolarmente evidente, e segnalato nella relazione, specie in alcune Regioni, molto meno in altre – è dato che non può trascurarsi in una analisi di questo tipo, che sui numeri complessivi dei ricorsi fonda l’intero ragionamento. 

Ma nella Relazione vi sono molti altri dati interessanti, non citati nell’articolo, che meriterebbero di essere approfonditi con ulteriori analisi: a partire dal rilevantissimo peso assunto, nel contenzioso costituzionale, dalla legislazione delle Regioni a Statuto speciale (la più frequentemente impugnata e, proporzionalmente, anche oggetto del maggior numero dei pronunce di inammissibilità ed infondatezza); alle materie su cui il contenzioso è più ricorrente (tutela dell’ambiente, comprensiva di caccia e pesca; tutela della salute, comprensiva delle controversie relative al personale sanitario); agli ambiti in cui a risultare soccombente è più spesso il Governo (coordinamento della finanza pubblica, tutela della concorrenza, ordinamento civile).  Si tratta di dati che confermano ampiamente le risultanze a cui la dottrina è da tempo pervenuta nell’individuare i punti più critici del sistema di ripartizione delle competenze Stato-Regioni.

Altrettanto interessanti sono i dati relativi alla sperimentazione, a partire dal 2013, della prassi dell’“impegno” formale assunto dal Presidente della Giunta regionale a modificare, sostituire o abrogare la norma oggetto di censura da parte delle Amministrazioni centrali. Sul punto, il gruppo di studio suggerisce la necessità che tale prassi venga resa più trasparente e che sia regolamentata, in modo da definire i contenuti specifici dell’impegno, ivi inclusa la data certa di sottoposizione delle modifiche al Consiglio regionale, in modo che all’impegno assunto si ottemperi nell’arco della legislatura regionale; promuovendo in tal modo il funzionamento di un istituto che si inquadra nella tanto auspicata “leale collaborazione”. Altrettanto condivisibile è la proposta di promuovere, se del caso in sede di Conferenza Stato-Regioni, un nuovo accordo sulla qualità della legislazione regionale, analogo alla c.d. circolare Amato degli anni ’80, al fine di migliorare la tecnica di redazione degli atti legislativi regionali e ridurre, conseguentemente, le occasioni di impugnativa.

In conclusione, se si concorda sul fatto che il nostro sistema istituzionale abbisogna, mai come ora, dell’azione coordinata di tutti i livelli di governo; che i rapporti Stato-Regioni (ma anche quelli Stato, Regioni ed autonomie locali) sono un punto dolente del sistema; che il miglioramento di questo rapporto è indispensabile per “cittadini e imprese” (endiadi, questa, sempre più spesso invocata, come se le imprese non fossero frutto dell’attività di cittadini..); la questione va affrontata con spirito critico, si, ma anche costruttivo. Altrimenti, il rischio è solo quello di provocare un aumento della sfiducia, o peggio, di spingere cittadini e imprese a invocare soluzioni centripete, davvero poco praticabili, e soprattutto dagli esiti incerti.

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