Vizi e virtù della vaccinazione obbligatoria selettiva. Obiettare o lavorare? Questo è il dilemma (sbagliato)
Gianluca Gardini
Non è certo una novità che lo Stato intervenga per limitare le libertà dei singoli in funzione dell’interesse generale, obbligando gli individui a tenere comportamenti o subire trattamenti che essi non adotterebbero né accetterebbero spontaneamente. Come un padre attento che impone ai propri figli irresponsabili obblighi, divieti e punizioni, apparentemente con modi autoritari ma in realtà con animo protettivo, così lo Stato, indossando le vesti del pater familias, si preoccupa di garantire il benessere dei cittadini, tentando di conciliare le esigenze dell’individuo con quelle della comunità, l’autodeterminazione del singolo con i doveri di solidarietà costituzionali. È successo in passato con l’imposizione del divieto di fumo in pubblico, con l’obbligo di indossare le cinture di sicurezza alla guida di autoveicoli o il casco per le motociclette, succede ora con le restrizioni introdotte per decreto (e poi per dpcm) alla circolazione e ad altre libertà personali, finalizzate a contrastare la diffusione della pandemia da Covid-19 tra la popolazione.
L’obbligo di vaccinazione per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario, imposto dal recente d.l.1 aprile 2021, n. 44, non è altro che una delle tante manifestazioni del ruolo protettivo, e in fondo paternalistico, che lo Stato deve assumere al fine di tutelare la sicurezza e la salute dei propri cittadini, non sempre inclini al sacrificio personale e al rispetto delle regole comportamentali per permettere una pacifica e sicura convivenza della comunità.
Né l’obbligo vaccinale può considerarsi una novità occasionata dall’emergenza sanitaria. Da anni infatti il nostro ordinamento conosce la vaccinazione pediatrica obbligatoria per i minori di 16 anni: in particolare, la legge n. 119 del 2017 prevede 10 vaccinazioni obbligatorie ai fini dell’iscrizione e della frequenza a scuola per bambini/ragazzi da 0 a 16 anni, come strumento di prevenzione efficace nei confronti di altrettante malattie infettive (difterite, tetano, polio ed epatite B, pertosse, emofilo di tipo B, morbillo, rosolia, parotite e varicella).
Perché dunque questa nuova, ma in fondo antica espressione dello spirito protettivo con cui lo Stato corregge i comportamenti dei propri figli indisciplinati provoca tanti dubbi e resistenze? Cosa c’è di inedito, di anomalo nelle “Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19” adottate dal Governo Draghi, e in particolare nell’obbligo vaccinale selettivo stabilito per decreto legge al fine di prevenire il contagio da SARS-CoV-2?
Qualsiasi discorso giuridico intorno a questi temi, in cui diritti fondamentali della persona (libertà personale, salute, uguaglianza) fronteggiano interessi della collettività (sicurezza, benessere, solidarietà), non può che muovere dal testo della Costituzione.
Sul punto, l’art. 32 Cost. afferma con esemplare nitidezza che
«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
La Carta costituzionale indica con chiarezza che la dimensione individuale del diritto alla salute non può mai essere scissa da quella collettiva. Pertanto, la salute del singolo non deve mai porsi in conflitto con quella della comunità, e viceversa, come peraltro esige l’adempimento dei doveri inderogabili (e bilaterali) di solidarietà politica, economica e sociale, fissati all’art. 2 Cost.
Il diritto individuale alla salute, questo è il punto centrale del nostro tema, include il legittimo rifiuto di trattamenti sanitari, salvo che essi siano imposti per disposizione di legge. L’unica condizione posta dalla Costituzione per i trattamenti sanitari obbligatori è che, a causa di essi, non venga intaccato il rispetto della persona, sotto il profilo della dignità, della rispettabilità, della integrità fisica e morale. A rafforzare il principio di autodeterminazione dell’individuo rispetto alle cure sanitarie, l’art. 13 della Costituzione ci ricorda che «la libertà personale è inviolabile».
Un altro elemento di contesto da tenere presente per comprendere meglio le diverse posizioni in campo concernenti l’obbligo vaccinale, è l’indicazione del Consiglio d’Europa (Risoluzione 2361(2021), Covid-19 vaccines: ethical, legal and practical considerations, 27 gennaio 2021) con riguardo alla diffusione dei vaccini per prevenire il contagio da SARS-CoV-2. Secondo questa Risoluzione, gli Stati dovrebbero assicurare: «che i cittadini siano informati del fatto che la vaccinazione non è obbligatoria e che nessuno sia politicamente, socialmente o in altro modo condizionato a ricevere la vaccinazione contro la propria volontà» (§ 7.3.1); e «che nessuno venga discriminato per non aver ricevuto la vaccinazione, per motivi di salute o per non voler sottoporsi alla vaccinazione» (§ 7.3.2).
In realtà, questa indicazione non esprime un vero e proprio divieto giuridico, quanto una preoccupazione rispetto alla possibilità che gli Stati membri del Consiglio d’Europa rendano obbligatorio un vaccino su cui si hanno ancora poche informazioni, dal punto di vista scientifico: il rapporto preparatorio alla Raccomandazione (doc. 15212 dell’11 gennaio 2021) sembra collegare l’ indicazione fornita dal Consiglio d’Europa ai dubbi sull’efficacia dei vaccini, che riposa soprattutto sulla fiducia dei cittadini nei propri governi (§§ 61-62) più che su dati e informazioni certi. In ogni caso si tratta di una raccomandazione non vincolante per gli Stati, frutto di una valutazione etica e sociologica, prima che giuridica, sull’opportunità di introdurre l’obbligo vaccinale allo stato attuale delle conoscenze (in questo senso, v. M. Massa, Lavoro e vaccinazione contro il Covid-19. Note costituzionali su un dibattito di diritto del lavoro, in corso di pubblicazione su Quaderni costituzionali).
Da questo quadro d’insieme emergono alcune considerazioni, sia di natura generale che specifica.
In primo luogo, l’obbligo di vaccinazione per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario è supportato da una fonte legislativa che lo prevede espressamente (il d.l.1 aprile 2021, n. 44, appunto), in conformità a quanto richiesto dalla riserva di legge (assoluta) contenuta nell’art. 32 Cost. Dunque, il trattamento vaccinale è imposto dal Governo nel rispetto delle garanzie costituzionali, dal punto di vista formale. L’indicazione del Consiglio d’Europa non incide minimamente sulla legittimità del provvedimento governativo, dal momento che una raccomandazione non possiede il valore di norma costituzionale interposta, né essa nasce con finalità coercitive, ma esprime semmai una moral suasion circa l’opportunità sociale dell’obbligo vaccinale.
Rimane però aperta la questione della legittimità sostanziale dell’obbligo vaccinale, intesa come ragionevolezza, proporzionalità, necessità e idoneità della misura adottata per contenere il contagio da SARS-CoV-2. Qui si apre il confronto con le altre vaccinazioni obbligatorie in passato disposte dal nostro legislatore. Rispetto alle vaccinazioni pediatriche di cui abbiamo detto, l’obbligo vaccinale introdotto dal governo Draghi ha finalità molto diverse: mentre con la vaccinazione della popolazione under 16 il legislatore punta a ottenere la cd. immunità di gregge e prevenire così la diffusione di alcune malattie infettive in tutta la popolazione, mediante la graduale stratificazione di nuove generazioni integralmente immunizzate, l’obbligo vaccinale disposto con il d.l. 44/2021 è selettivo, poiché riguarda esclusivamente gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario, e mira a limitare la diffusione del virus Covid-19 a quei soggetti più fragili e vulnerabili, rappresentati dal popolo dei malati con cui i sanitari entrano abitualmente in contatto per ragioni professionali. Si tratta dunque di un trattamento sanitario imposto ad una specifica categoria di lavoratori, sia a tutela dei professionisti stessi (che rappresentano una risorsa scarsa e quindi preziosissima in tempi di pandemia), sia a tutela dei soggetti con cui essi entrano in contatto, i malati di ogni età, i quali più facilmente possono manifestare la sintomatologia grave dell’infezione, richiedendo cure ospedaliere e provocando perciò la saturazione della capacità recettiva delle strutture sanitarie. Da questo punto di vista, la diversa finalità (tutela del popolo dei malati, nonché degli stessi sanitari vs immunità di gregge) non rende meno giustificata e ragionevole la misura legislativa adottata dal governo Draghi per stabilire l’obbligo vaccinale. Sullo sfondo delle diverse campagne di vaccinazione obbligatoria varate nel nostro paese si scorge infatti una logica comune, legata ai doveri di solidarietà a cui i singoli sono tenuti nell’interesse della comunità nonché all’idea di salute come interesse della collettività, oltre che del singolo.
In secondo luogo, per poter apprezzare la legittimità dell’obbligo vaccinale in oggetto, una specificità da non sottovalutare riguarda lo stato delle conoscenze scientifiche relative ai vaccini anti Covid-19. Sotto questo profilo emerge appieno la diversità con le altre campagne vaccinali obbligatorie: nella storia dell’umanità non sono mai stati autorizzati dei vaccini in tempi così rapidi (10/11 mesi); al tempo stesso, l’emergenza sanitaria che ha reso possibile questo risultato eccezionale non riduce l’esigenza generale di disporre di molti più dati (e di più tempo) in modo da poter avere maggiori certezze rispetto all’efficacia, agli effetti e la sicurezza dei vaccini. Si tratta di un aspetto fondamentale per valutare la legittimità sostanziale dell’obbligo vaccinale imposto al personale medico e agli operatori di interesse sanitario e, eventualmente, bilanciarlo con la facoltà di rifiutare la vaccinazione spettante a questi ultimi.
I casi di infezione e decessi riportati dalle cronache giornalistiche a breve distanza dalla prima o seconda dose del trattamento, le oscillazioni dei governi sulle misure precauzionali da adottare, l’opacità dei dati complessivi, sono elementi da non sottostimare. Viene infatti imposta per decreto legge l’assunzione di farmaci che hanno ottenuto da poco un’approvazione condizionata, sulla base di dati di sicurezza osservati per pochi mesi (e non anni) emersi dai trial clinici pre-autorizzativi riferiti a un campione non rappresentativo del mondo reale. Non si tratta di avallare logiche negazioniste o pregiudizi no-vax, ma di distinguere tra vaccini lungamente sperimentati prima in fase di trial e quindi sulla popolazione, e vaccini di cui solamente ora, dopo l’avvio della campagna di somministrazione alle popolazioni di tutto il globo, in vivo, si stanno scoprendo i limiti di copertura, gli effetti collaterali, le potenziali criticità. Lo scorso 17 marzo l’Aspen Global Congress on Scientific Thinking and Action ha riunito online 100 leader di scienza di oltre 50 Paesi, i quali hanno dedicato un’attenzione particolare alle strategie di comunicazione in ambito scientifico su temi di carattere universale tra cui il negazionismo scientifico, il “populismo” scientifico, la sicurezza dei vaccini. Intervistato recentemente dagli organi di informazione italiani (Corriere della Sera, Innovazione/News, 10 aprile 2021), il prof. Lee McIntyre, Research Fellow al Center for Philosophy and History of Science della Boston University e scrittore di numerosi saggi sul negazionismo scientifico (tra cui How to talk with a science denier, ossia “Come parlare con un negazionista scientifico”, in uscita ad agosto), dinanzi allo scetticismo manifestato in Italia dalle persone comuni riguardo ai nuovi vaccini anti-Covid, afferma che «In questo caso parlare di negazionismo è troppo forte. Si tratta di persone che non hanno abbastanza elementi o sentono innumerevoli pareri contrastanti e non sanno cosa pensare. È molto facile essere preoccupati ed esitanti su qualcosa di nuovo e poco conosciuto come il vaccino contro il Coronavirus».
Questi aspetti, evidentemente, condizionano in maniera significativa la legittimità sostanziale di un provvedimento legislativo che, pur in assenza di dati certi, rende obbligatoria la vaccinazione anti-Covid per una specifica categoria professionale, finendo per alimentare comportamenti – per fortuna minoritari – di resistenza all’obbligo vaccinale. Uno strumento autoritativo di questo tipo (trattamento sanitario reso obbligatorio per legge) richiederebbe al contrario trasparenza (anche relativamente alla valutazione), tempestività e completezza di dati, disponibilità di open data. Solo in presenza di queste condizioni si può affermare che un trattamento sanitario venga ragionevolmente imposto per legge, che per espressa volontà costituzionale non deve mai «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana», tra cui sicuramente rientrano l’integrità della vita, la salute e la sicurezza personale.
In terzo luogo, sotto il profilo della ragionevolezza dell’obbligo vaccinale viene in luce la proporzionalità delle misure “precauzionali” conseguenti al rifiuto del trattamento. Mentre il rifiuto della vaccinazione pediatrica porta con sé una serie di misure amministrative, tra cui il divieto di iscrizione e frequenza a scuola, l’esclusione dai servizi educativi per l’infanzia per bambini/ragazzi da 0 a 16 anni, la “renitenza” alla vaccinazione obbligatoria per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario reca conseguenze ben più pesanti. Nel testo del d.l. 44/2021 si legge infatti che «La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati» (art. 4, comma 1), e «solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale, la vaccinazione di cui al comma 1 non è obbligatoria e può essere omessa o differita» (comma 2). Per quanto riguardo le misure precauzionali adottate dal legislatore, «l’inosservanza dell’obbligo vaccinale (…) determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2 »(comma 6). Accertata l’inosservanza dell’obbligo vaccinale, «il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6 (cioè che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, n.d.r.), con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio. Quando l’assegnazione a mansioni diverse non è possibile, per il periodo di sospensione di cui al comma 9, non è dovuta la retribuzione, altro compenso o emolumento, comunque denominato» (comma 8). Nel complesso «La sospensione di cui al comma 6 mantiene efficacia fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021» (comma 9).
Ora, non vi è dubbio che il decreto rispetti il principio di proporzionalità con riferimento alla durata dell’obbligo vaccinale (31 dicembre 2021) e alle modalità con cui esso viene attuato; alla possibilità di derogarvi in caso di specifiche condizioni di salute; alla specificità che caratterizza i lavoratori che sono sottoposti a quest’obbligo selettivo (in quanto a contatto con la popolazione dei malati, come si è detto); all’estensione generalizzata dell’obbligo ai lavoratori che operano alle dipendenze del servizio sanitario nazionale, di strutture private e ai liberi professionisti, in quanto accomunati dalle medesime funzioni di assistenza e cura dei malati; alle misure precauzionali adottate per gli inadempienti, consistenti nell’allontanamento da ruoli che comportino contatto con la popolazione dei malati e, eventualmente, alla perdita della parte di stipendio legata alle mansioni di assistenza e cura. Da questo punto di vista la misura adottata dal Governo sembra ben calibrata, e rispettosa delle garanzie sostanziali previste dalla Costituzione in riferimento a misure emergenziali di questo tipo.
Su un punto specifico, però, il vaglio basato sul criterio di proporzionalità non restituisce un risultato del tutto positivo, ed è quello concernente le misure precauzionali adottate per coloro che rifiutano di sottoporsi al vaccino obbligatorio. La luce che si accende all’esito del controllo di legittimità su questo profilo del provvedimento governativo è di colore rosso, forse arancione, non certo di un verde brillante. Si legge nel decreto, infatti, che se non è possibile allontanare l’operatore sanitario da ruoli a diretto contatto con il malato, eventualmente demansionandolo e decurtandogli lo stipendio, allora egli va sospeso precauzionalmente dal lavoro tout court, e quindi anche dalla retribuzione o altri compensi o emolumenti comunque denominati. In sostanza, l’operatore sanitario che rifiuta la vaccinazione rischia di perdere il lavoro e con esso la retribuzione. Ciò peraltro si verifica sempre nel caso dei liberi professionisti, che evidentemente non possono essere spostati ad altre mansioni (il medico di base o il dentista che rifiutano la vaccinazione perdono automaticamente lavoro e retribuzione), mentre si tratta di una conseguenza solo eventuale per i dipendenti pubblici e privati, per i quali lo spostamento ad altre funzioni è teoricamente possibile.
Tre sono le criticità di questa previsione.
La prima è che una misura precauzionale così radicale, draconiana, come la sospensione dal “diritto al lavoro” dell’operatore sanitario rischia di operare un bilanciamento irragionevole, perché sproporzionato, tra due valori dotati di copertura costituzionale: il diritto al lavoro e ad un’equa retribuzione, da un altro, i doveri di solidarietà e il diritto individuale/collettivo alla salute, dall’altro (sul punto, cfr. M. Ainis, Il confine tra salute e lavoro, La repubblica, 3 aprile 2021). Anche perché, come si è detto, non disponiamo ancora di dati certi, consolidati, circa l’immunità protettiva derivante dal vaccino (non è certo che il soggetto vaccinato non sia vettore del virus), la copertura vaccinale e i possibili effetti avversi collegati ai tipi di vaccino in circolazione: argomentazioni, ricordiamo, che hanno indotto il Consiglio di Europa ad adottare una raccomandazione contraria all’introduzione di obblighi vaccinali indirizzata agli Stati.
La seconda criticità è rappresentata dall’automatismo della sospensione dal lavoro che viene a crearsi a carico dei liberi professionisti, i quali rischiano di essere ingiustamente discriminati rispetto ai colleghi che esercitano la stessa attività in forma dipendente. In questo caso è il principio di uguaglianza, o meglio di non discriminazione, ad entrare in tensione con una regola che sottopone a conseguenze molto diverse soggetti che nella sostanza svolgono lo stesso lavoro e esprimono in modo del tutto identico la volontà di non assumere il vaccino. Il fatto che la prestazione lavorativa sia svolta in forma autonoma o dipendente non sembra giustificare la previsione di misure precauzionali così diverse, e può dare luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento.
La terza criticità riguarda l’ambito soggettivo coperto dall’obbligo vaccinale.
Non è chiaro perché nell’obbligo vaccinale non siano inclusi anche i tirocinanti, gli studenti in medicina e di odontoiatria, gli allievi infermieri e a chiunque altro operi negli ambienti considerati dal decreto, svolgendo attività analoghe a quelle dei sanitari, ma senza essere ancora in possesso della qualifica (come correttamente rileva G. Pellacani, Cosa c’è (e cosa manca) nel decreto sull’obbligo vaccinale per medici e infermieri, in StartMag, 1 aprile 2021). Né perché sia escluso dall’obbligo vaccinale il personale tecnico-amministrativo delle strutture sanitarie pubbliche e private, che pur non incaricato di funzioni di assistenza e cura, si trova pur sempre a contatto – per quanto non così stretto e inevitabile come avviene per l’operatore sanitario – con la popolazione dei malati (si pensi all’impiegato assegnato allo sportello prenotazioni o accettazione di un grande ospedale). Altrettanto irragionevole, sotto il profilo della proporzionalità che deve sempre assistere le misure precauzionali, è la disposizione che consente agli operatori sanitari esclusi dall’obbligo vaccinale a causa di specifiche condizioni di salute di mantenere le funzioni di assistenza e cura, a diretto contatto con gli assistiti: in questo caso, l’obiettivo prioritario di proteggere una categoria tendenzialmente più fragile non può certamente ritenersi centrato.
Queste misure precauzionali sembrano scontrarsi, da un lato, con «i limiti imposti dal rispetto della persona umana» di cui all’art. 32 Cost., tra cui non può non essere inclusa la possibilità di condurre un’esistenza libera, dignitosa, autosufficiente, che deriva dallo svolgimento della propria attività lavorativa; dall’altro, con il principio generale di uguaglianza, non discriminazione e ragionevolezza.
Per tacere dell’impatto organizzativo che una massiccia sospensione dal lavoro dei sanitari “renitenti” al vaccino, di ogni ordine e grado, potrebbe provocare sul sistema sanitario nazionale.
Forse, per gestire il rischio derivante dall’attività di “obiettori” vaccinali non ricollocabili in posizioni lavorative prive di contatto con gli assistiti, sarebbe stato preferibile capovolgere l’angolo di osservazione e assumere come punto di riferimento il diritto dell’utente di conoscere l’eventuale scelta del sanitario di rifiutare il vaccino. In quest’ottica, si sarebbe potuto inserire nel provvedimento governativo l’obbligo di comunicare ai pazienti (e contemporaneamente all’ordine professionale di appartenenza) la decisione del sanitario di non sottoporsi al vaccino, in modo tale da lasciare ad essi la libertà di rivolgersi ad un’altra struttura sanitaria o a un altro professionista, o al contrario di accettare la prestazione esprimendo il proprio consenso informato. Al tempo stesso, laddove al paziente non è consentito optare per una prestazione sanitaria alternativa (si pensi, ad es., al caso dei medici di base obiettori), il decreto avrebbe dovuto prevedere meccanismi temporanei di sostituzione e supplenza. In questo modo, il successo della politica vaccinale verrebbe affidato ai pazienti stessi e alla loro possibilità di decidere con maggiore consapevolezza a chi affidare la cura della propria salute; mentre l’obbligo di trasparenza fornirebbe un efficace disincentivo rispetto all’opzione no-vax, producendo sull’immagine etica e professionale del sanitario conseguenze negative che vanno ben oltre la scadenza della campagna vaccinale.
Di sicuro non è opportuno aver stabilito per decreto una previsione generalizzata, sostanzialmente uguale per tutti «gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario», che copre in modo indifferenziato le diverse ipotesi di inadempimento all’obbligo vaccinale. Una previsione peraltro ispirata molto più da vicino al modello penalistico precetto-sanzione, che non alla logica precauzionale che dovrebbe accompagnare l’introduzione di un trattamento sanitario reso obbligatorio per legge. Anziché focalizzarsi sull’operatore, molto più opportunamente il legislatore avrebbe potuto dettare misure organizzative, da modulare a seconda della realtà assistenziale interessata (grande ospedale, casa di cura privata, RSA, studio libero professionale, centro diagnostico, centro di ricerca, medico di base, etc.), in modo da declinare diversamente l’obbligo di vaccinazione a seconda della specificità sanitaria e raggiungere più efficacemente, attraverso misure più proporzionate, l’obiettivo finale di contenere la diffusione del contagio da SARS-CoV-2,
È pur vero che le emergenze impongono deroghe all’assetto ordinario delle leggi e alle procedure normalmente seguite per regolare i fenomeni sociali. Ma è altrettanto vero che i principi fondamentali, costituzionali, che tutelano i diritti e la dignità umani non possono essere dimenticati nemmeno di fronte ad un’urgenza che, da dieci anni a questa parte, è divenuta normalità cronica.
Una risposta
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