Il lavoro agile dopo la pandemia: da strumento di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro a fattore di innesco dell’innovazione organizzativa
di Edoardo Nicola Fragale
Abstract: Nei più recenti interventi, il legislatore sembra indiviuare nel “lavoro agile” un fattore di innesco dell’innovazione organizzativa, anche sul terreno della digitalizzazione dei processi e dei servizi. Perché il nuovo disegno possa dar luogo a pratiche virtuose, occorre però che le amministrazioni pubbliche facciano un buon uso degli strumenti di pianificazione strategica.
I primi tentativi di approfondire il tasso di flessibilità spazio-temporale della prestazione lavorativa resa nelle organizzazioni pubbliche risalgono alla fine degli anni ’90. L’art. 4 della legge n. 191 del 1998 prevedeva che le amministrazioni pubbliche potessero avvalersi di forme di lavoro a distanza. Le modalità attuative venivano dettate dal d.P.R. n. 70 dell’8 marzo 1999 e dal successivo Accordo quadro sul telelavoro del 23 marzo 2000.
La disciplina del tempo poneva al centro dell’istituto l’atto organizzativo adottato dal dirigente responsabile. Il c.d. “progetto generale” doveva prevedere gli obiettivi, le attività interessate, le tecnologie e il personale impiegato, le verifiche e i benefici attesi. L’individuazione dei dipendenti sarebbe avvenuta solo dopo, attraverso un atto unilaterale dell’amministrazione, sia pure in applicazione di criteri definiti dalla contrattazione (art. 3, d.P.R. n. 70). La contrattazione vincolava a sua volta le amministrazioni a limitare la scelta a quei dipendenti che si fossero dichiarati previamente disponibili (art. 4, Accordo Quadro) e a fornire le attrezzature e le tecnologie necessarie.
Dopo anni di relativo disinteresse, il legislatore è di recente ritornato sul tema della flessibilità spazio-temporale della prestazione di lavoro. Dapprima con previsione limitata al solo settore pubblico. L’art. 14 della legge n. 124/2015 (c.d. Madia), rubricato “Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche”, chiamava le amministrazioni pubbliche ad adottare misure organizzative volte a fissare obiettivi annuali per l’attuazione del telelavoro e per la sperimentazione di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione di lavoro. L’obbiettivo dichiarato era quello di permettere, entro tre anni, ad almeno il 10 per cento dei dipendenti di avvalersi di tali modalità. Allo scopo di assicurare l’effettività della disposizione, il legislatore prevedeva che l’adozione delle misure organizzative e il raggiungimento dell’obbiettivo triennale dovessero costituire oggetto di valutazione nei percorsi di valutazione della performance. Questa disposizione trovò successiva attuazione nella Direttiva della Funzione Pubblica n. 3 del 2017.
Poco tempo dopo, il legislatore interveniva nuovamente, questa volta con previsioni pensate in prima battuta per il lavoro nelle aziende private. Si trattava della legge 22 maggio 2017, n. 81 con cui si arricchivano gli strumenti di flessibilità spazio-temporale della prestazione di lavoro attraverso l’introduzione del c.d. lavoro agile; modalità di lavoro questa diversa dal tradizionale telelavoro, fino ad allora sporadicamente affiorata nel panorama del settore privato per effetto di regolamenti o contratti aziendali.
La nuova disciplina legale, racchiusa negli artt. 18 e ss. della l. n. 81, definisce il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro. Il legislatore precisa, inoltre, che “la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Il carattere innovativo del lavoro agile, che lo rende irriducibile al tradizionale telelavoro, sta non solo nella diversa modalità di svolgimento della prestazione (si prevede una forma di alternanza rispetto al lavoro in presenza nei locali aziendali che manca nel telelavoro, dove invece la prestazione viene resa su basi continuative a distanza, da remoto) ma anche nel suo inserimento in un’organizzazione del lavoro articolata oramai per obbiettivi e per fasi, sì da far evaporare anche i vincoli d’orario e da rendere anche irrilevante il luogo di esecuzione della prestazione, non necessariamente coincidente con l’abitazione. Si sottolinea, inoltre, la centralità dell’accordo individuale anche nella conformazione dei poteri datoriali, ciò che mancherebbe nell’altra fattispecie del telelavoro. Solo nel lavoro agile e non anche nel telelavoro si permette all’accordo individuale di incidere sul potere direttivo e finanche disciplinare del datore di lavoro. Spetta all’accordo stabilire, infatti, le modalità di svolgimento della prestazione, anche per quanto riguarda l’esercizio del potere direttivo e di controllo nonché per l’individuazione delle fattispecie disciplinari collegate all’esecuzione della prestazione fuori dai locali.
Non è previsto uno specifico ruolo per la contrattazione collettiva, ma non pare in dubbio che la stessa potrà contribuire e riempire di contenuti la scarna disciplina legale, specie in punto di criteri per l’individuazione dei beneficiari, onde assicurare una gestione più trasparente dell’istituto.
I tratti distintivi sarebbero ancora più marcati per il lavoro pubblico, ove costituirebbe ulteriore elemento di differenziazione anche la natura dell’atto di individuazione del lavoratore: diversamente dal telelavoro, ove l’individuazione avviene con atto unilaterale del dirigente, nel lavoro agile si rende necessaria la presenza di un accordo individuale.
Il problema dell’applicazione delle nuove norme alle pubbliche amministrazioni viene risolto, almeno all’apparenza, dalla stessa legge n. 81, là dove prevede espressamente l’applicazione delle sue disposizioni, in quanto compatibili, anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, secondo le direttive emanate anche ai sensi dell’art. 14 della legge 7 agosto 2015, n. 124, e fatta salva l’applicazione delle diverse disposizioni specificamente adottate per tali rapporti. Si aggiunga che la Funzione pubblica ha esercitato sin da dubito questa funzione, attraverso l’approvazione della direttiva n. 3/2017, nella quale entrambe le modalità di impiego flessibile della prestazione, il telelavoro e lo smart working, trovano spazio.
Nella disciplina prevista per le imprese private, il lavoro agile esibisce una duplice, concorrente, finalità: non solo la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, ma anche l’aumento della competitività dell’impresa, derivante dall’introduzione di forme di lavoro nuove, articolate per fasi, cicli e obbiettivi che dovrebbero così sostituirsi a modalità più tradizionali di organizzazione del lavoro (cfr. art. 18, legge n. 81).
Questa duplice finalizzazione è presente anche per il lavoro pubblico, trovando conferma nella c.d. legge Madia. Se la rubrica dell’art. 14, l. 124/2015 parla ancora di promozione della conciliazione dei tempi di lavoro, il contenuto dell’articolato normativo sembra non relegare a ruolo marginale il tema dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa, di cui richiede, anzi, una specifica verifica onde misurare l’impatto reale dell’introduzione delle forme di flessibilizzazione della prestazione di lavoro. Per la verità, questa duplice caratterizzazione sembrava presente anche nel telelavoro, conformato dalla disciplina del tempo come strumento, certo, volto ad assicurare un maggior livello di benessere dei dipendenti, ma anche come opportunità da cogliere per ripensare il modo di organizzazione del lavoro, in funzione del miglioramento dei servizi. Non a caso la sua introduzione veniva fatta precedere dalla redazione di un apposito progetto generale.
Il lavoro agile e la disciplina dell’emergenza
Nel corso dell’emergenza, il lavoro agile si carica, specie per le amministrazioni pubbliche, di altre finalità: in primo luogo di tutela sanitaria, là dove consente di assicurare, assieme ad altri istituti, il necessario distanziamento sociale.
In forza delle prime disposizioni emergenziali, risalenti all’art. 87 decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, il c.d. lavoro agile si è così imposta come forma ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni. La straordinarietà della misura trovavaconferma nel suo orizzonte temporale, strettamente legato al perdurare dell’emergenza epidemiologica. L’ordinarietà di questa modalità di svolgimento dell’attività di lavoro derivava dalla scelta legislativa di limitare il lavoro in presenza alle sole attività indifferibili o richiedenti necessariamente tale presenza del personale (co. 1 lett. a), art. 87). Sotto il profilo micro-organizzativo, l’urgenza della sua introduzione imponeva di autorizzare le amministrazioni a ricorrere al lavoro agile anche con atto unilaterale, prescindendo del tutto sia dagli accordi individuali sia dagli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81 (co. 1, lett. b), art. 87).
Il successivo miglioramento della situazione epidemiologica e la conseguente ripresa delle attività produttive spingerà il legislatore a rivedere, almeno in parte, questa prima disciplina. Già nel maggio del 2020, le amministrazioni venivano, pertanto, invitate ad adeguare la capacità operativa degli uffici al graduale riavvio delle attività. A tal fine, il legislatore autorizzava le amministrazioni a derogare alla disposizione del decreto n. 18 (in particolare al comma 1, lettera a) dell’art. 87), là dove limitativa il lavoro in presenza ai soli casi di attività indifferibili, consentendo loro di organizzare, almeno fino al 31 dicembre 2020, il lavoro dei propri dipendenti e l’erogazione dei servizi tramite l’applicazione, tra le altre cose, del lavoro agile attraverso le misure semplificate di cui al comma 1, lettera b) del medesimo art. 87, al cinquanta per cento del personale impiegato nelle attività che possono essere svolte in tale modalità (art. 263 d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con legge 17 luglio 2020, n. 77). Lo stesso articolato normativo rimetteva ad un apposito d.p.c.m. il compito di fissare criteri e principi in materia di flessibilità del lavoro pubblico e di lavoro agile, anche prevedendo obiettivi qualitativi e quantitativi. In previsione di un ulteriore miglioramento della situazione pandemica, si prevedeva che alla data del 15 settembre 2020 dovesse, comunque, cessare l’efficacia della disposizione che limitava del lavoro in presenza alle sole attività indifferibili.
Il successivo l’art. 11-bis del d.l. 22 aprile 2021, n. 52 (di modifica dell’art. 263 d.l. 19 maggio 2020, n. 34) dilatava i termini per l’applicazione del regime semplificato di lavoro agile “fino alla definizione della disciplina del lavoro agile da parte dei contratti collettivi, ove previsti, e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021”.
Non sono disponibili dati quantitativi relativi all’impiego del lavoro agile nel corso del 2021. Certo, il governo ha di recente ritenuto che l’evoluzione della situazione pandemica fosse tale da consentire il superamento, seppure graduale, della normativa emergenziale. Da qui l’adozione del dpcm del 23 settembre 2021, adottato sulla scorta della facoltà riconosciuta dal governo dall’art. 87 decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, con cui il governo ha disposto che, a decorrere dal 14 ottobre 2021, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle amministrazioni pubbliche debba tornare ad essere solo quella in presenza.
La disciplina a regime (nell’attesa della contrattazione collettiva)
Nel corso dell’emergenza epidemiologica sono state, tuttavia, dettate anche altre disposizioni volte a consolidare, questa volta per la gestione a regime, il ricorso al lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni. Grazie a questi interventi si è resa possibile una più matura ricostruzione dell’istituto, quanto meno nelle pubbliche amministrazioni.
Il primo intervento strutturale e non più emergenziale risale d.l. 19 maggio 2020, n. 34, il cui art. 263, co. 4-bis provvede a modificare l’art. 14 della Madia, imponendo alle amministrazioni pubbliche di dotarsi di specifici strumenti organizzativi chiamati a governare l’impiego del lavoro agile: è il c.d. POLA, acronimo che indica il Piano organizzativo del lavoro agile che costituisce sezione del Piano per la performance e che è chiamato a individuare le modalità attuative del lavoro agile. Il legislatore peraltro pone diversi vincoli, là dove prevede che, per le attività svolte in modalità agile, almeno il 60% dei dipendenti (poi ridotto al 15% dall’art. 11-bis, del d.l. 22 aprile 2021, n. 52) possa avvalersene.
Sulla scorta di queste disposizioni normative e delle linee guida adottate dalla Funzione pubblica (si fa riferimento, in particolare, alle Linee guida sul piano organizzativo del lavoro agile adottate con dpcm 9 dicembre 2020), le amministrazioni sono state, perciò, chiamate ad analizzare, con carattere di sistematicità e periodicità, i processi, le risorse umane e quelle tecnologiche, allo scopo di individuare non solo gli ambiti nei quali il lavoro agile può essere meglio impiegato, ma anche il fabbisogno di formazione, di dotazioni tecniche e quelle finanziarie necessarie all’attuazione del piano. Nella sua nuova formulazione, la legge Madia richiede che lo stesso piano debba prevedere strumenti di rilevazione dei risultati perseguiti, anche in termini di maggiore efficienza ed efficacia. Come esempi di indicatori le linee guida indicano il tempo risparmiato nella gestione delle pratiche, la diminuzione delle ore di malattia, il grado di soddisfazione dell’utenza etc.
Con questo primo provvedimento, il legislatore rivolge, dunque, la propria attenzione al momento programmatorio: l’obbiettivo è di assicurare che il ricorso al lavoro agile sia il risultato di una riflessione sistemica compiuta dall’amministrazione, collegata all’obbiettivo del miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa e alla digitalizzazione dei processi e, in ultima analisi, dei servizi resi (così letteralmente l’art. 14, l. n. 124/2015, dopo le modifiche del 2020), onde evitare usi estemporanei dell’istituto.
Sempre nel corso del 2021, attraverso l’adozione dell’atto di indirizzo quadro rivolto all’ARAN vengono poste le premesse anche per il completamento della disciplina del lavoro agile nella pubblica amministrazione ad opera della contrattazione collettiva. Quella contrattuale sarà necessariamente una normativa integrativa rispetto a quella legale risultante dalla l. n. 81/2017. L’atto di indirizzo continua, peraltro, a ribadire la centralità dell’accordo individuale, che però dovrà intervenire a valle di un procedimento complesso che trova la propria scaturigine pur sempre nel POLA, atto organizzativo di cui è confermata la strategicità.
Insomma, dalla congerie di queste previsioni si conferma l’esistenza di un disegno complessivo che contempla necessariamente la presenza di una fase di determinazione strategica, il Piano, seguita da una fase di attuazione/gestione di individuazione dei lavoratori da adibire al lavoro agile, dominato dalla presenza di un accordo individuale, il tutto nell’ambito di una cornice normativa che potrà aprirsi in futuro anche a quella d’origine pattizia, ancora in via di formazione per effetto degli imminenti rinnovi contrattuali.
Peraltro, dopo l’adozione del d.l. 9 giugno 2021, n. 80, un unico Piano integrato di attività e organizzazione sarà chiamato ad indicare non solo gli obbiettivi programmatici e strategici della performance, ma anche la strategia di gestione del capitale umano, gli strumenti e gli obbiettivi di reclutamento, gli obbiettivi di contrasto della corruzione, l’elenco delle procedure da reingegnerizzare e semplificare tramite ricorso alle tecnologie. Ne consegue il superamento del POLA, inteso come piano limitato alla programmazione del lavoro agile, e l’unificazione (o la riunificazione) in un unico documento strategico delle politiche di gestione del personale, anche per gli istituti diversi dal lavoro agile; politiche che andrebbero peraltro pensate anche in funzione della semplificazione/reingegnerizzazione/digitalizzazione dell’attività e dei servizi.
Si può senz’altro affermare che quella realizzata dal d.l. n. 80/2021 consenta non solo una rilevante forma semplificazione, in quanto capace di ridurre ad unità la congerie di adempimenti gravanti sull’amministrazione, riferiti ad atti strategici in molti casi richiedenti analisi di contesto ed organizzative del tutto sovrapponibili, ma anche un differente inquadramento dell’istituto. Il lavoro agile non perde la sua caratterizzazione di strumento volto alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, come continua a rammentare la rubrica dell’art. 14 l. 124/2015 nonché il testo dell’art. 18 della l. n. 81/2017, ma le altre finalizzazioni divengono ora, proprio per effetto dell’emersione del lavoro agile quale problema da affrontare sul piano strategico e organizzativo, molto più evidenti e palesi.
Alcune considerazioni finali
Se si vuole allora cogliere il senso profondo dell’investimento operato dal legislatore sul lavoro agile, questo è certamente da individuare nella volontà di mettere a “sistema” questa nuova modalità di svolgimento flessibile della prestazione di lavoro.
Dietro questo diverso atteggiamento del legislatore, ben evidenziato dall’attenzione crescente prestata alla disciplina della pianificazione strategica, si ritrova la consapevolezza che un sapiente uso di questa modalità alternativa di svolgimento della prestazione di lavoro sia funzionale non solo alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro ma anche all’efficienza e all’efficacia dell’azione amministrativa. In questo modo, il lavoro agile assurge a fattore di trasformazione dell’amministrazione, fungendo da volano della digitalizzazione dei processi e in ultima analisi dei servizi pubblici. La capacità del lavoro agile di svolgere in concreto il ruolo immaginato dal legislatore dipenderà chiaramente anche dall’abilità dell’amministrazione di elaborare progetti strategici realmente integrati, che sappiano cioè coordinare l’impiego del lavoro agile con le politiche di formazione del personale e soprattutto di digitalizzazione dei servizi pubblici.
Questo spiega perché il legislatore ha inteso le decisioni relative al suo impiego nella p.a. come esorbitanti dall’area della micro-organizzazione affidata alla competenza organizzativa esclusiva della dirigenza, sì da imporre anche una specifica presa di posizione all’organo politico nel momento di definizione dell’atto di indirizzo. Il che non esclude chiaramente che nel Piano integrato, come normalmente avviene anche per il Piano per la performance, trovino spazio anche gli atti di indirizzo attuativi, adottati dai dirigenti generali, onde assicurare la tendenziale completezza e operatività del Piano integrato, anche sul versante degli strumenti di gestione del personale.
E’, dunque, certamente da salutare con favore la circostanza che gli obbiettivi e i piani relativi all’introduzione del lavoro agile costituiscano oggi il frutto di valutazioni integrate, siccome compiute dall’amministrazione in modo coordinato e non disgiunto rispetto ai programmi relativi alla transizione digitale, a partire da quelli relativi alla reingegnerizzazione dei processi. Per questa via lo strumento della pianificazione integrata sembra costituire una occasione utile per sfruttare a pieno le potenzialità della digitalizzazione.
Certo, occorre anche prendere atto della perdurante presenza di alcune criticità. Continuano, infatti, a rimanere sul tappeto alcune oscurità collegate alla messa a regime del cd. lavoro agile, derivanti da un quadro normativo ancora non del tutto chiaro.
Si pensi alle difficoltà derivanti dalla perdurante presenza di due diverse modalità di svolgimento spazio-temporale della prestazione. Il lavoro agile si configura, infatti, quale modalità di svolgimento della prestazione lavorativa alternativa rispetto al tradizionale “telelavoro”: le recenti modifiche dell’art. 14 della l. n. 124/2015 (quelle volute dall’art. 11-bis d.l. 22 aprile 2021, n. 52), là dove inseriscono nel testo dell’articolato normativo l’indicazione del lavoro agile affianco al telelavoro, confermano questa dicotomica rappresentazione degli strumenti di flessibilizzazione della prestazione di lavoro. Sennonché, continuano a rimanere incerti i rapporti esistenti tra queste due diverse misure di svolgimento della prestazione. Non appare chiaro, infatti, se tra le due modalità ricorra un rapporto di piena fungibilità o di complementarietà. Ciò che si può dire è che dalla lettura delle diverse previsioni normative e delle soft law adottate dalla Funzione pubblica sembra emergere complessivamente un favor per il lavoro agile, istituto verso il quale si è appuntata negli ultimi anni la maggiore attenzione. Questa preferenza sembra plausibilmente da imputare alla maggiore attitudine di questo strumento a innescare processi di reale trasformazione dell’organizzazione e dei servizi, in ragione del suo più stretto collegamento con forme nuove di organizzazione articolate per fasi, cicli e obiettivi, assenti invece nel tradizionale telelavoro.
Un altro punto di debolezza pare annidarsi nell’apparato sanzionatorio, che pare del tutto carente, almeno ove riferito al c.d. lavoro agile. La funzione sopra descritta di volano della digitalizzazione dei processi e dei servizi dipende, come esposto, dal buon uso del momento programmatorio. Ebbene, allo stato della disciplina non risulta alcuna specifica sanzione per il caso di omessa adozione del piano nella parte riferita al lavoro agile. Si tratta di un profilo di debolezza della normativa che a dire il vero accomuna la sorte dei diversi atti strategici, adottati ad iniziativa dell’organo politico. Nel caso del lavoro agile la conseguenza individuata dal legislatore della l. n. 124/2015, quella cioè di imporre ex lege l’attivazione del lavoro agile, anche in assenza di POLA, nella misura del 15% del personale, se appare in linea con la funzione di conciliazione dei tempi di lavoro, non lo è affatto per l’altra funzione, di innesco della digitalizzazione, che postula l’indefettibilità del momento programmatorio. Né pare possibile applicare le sanzioni previste dalla legge, e pur richiamate dal citato art. 6, co. 7, d.l. n. 80/2021, per l’ipotesi di mancata adozione del Piano per la performance (art. 10, co. 5, d.lgs. 150/2019), facendo leva sul fatto che ai sensi dell’art. 14 l. n. 124 il POLA costituisce pur sempre una sezione del Piano della performance. Ed infatti, la fattispecie prevista dal citato art. 10, d.lgs. n. 150 punisce, certo, l’omessa adozione del piano per fatto ascrivibile all’inerzia dell’organo politico. Ma ai fini dell’applicazione della sanzione, è richiesto altresì che l’omissione si traduca nell’erogazione ai dipendenti di trattamenti incentivanti. Considerato però che l’erogazione di siffatti compensi al lavoratore agile è pur sempre collegata al raggiungimento degli obbiettivi, la cui esplicitazione trova spazio in altra sede del Piano integrato, si comprende bene perché la fattispecie sanzionatoria all’esame poco si adatti al nostro caso e perché l’omessa adozione del Piano del lavoro agile rischi di rimanere priva di sanzioni reali. Del tutto inconferente appare inoltre anche l’altra fattispecie sanzionatoria richiamata nel citato art. 6, d.l. n. 80/2021 per l’omessa adozione del Piano integrato, quella cioè prevista dall’art. 19, co. 4, lett. b), d.l. n. 90/2014 per il caso di mancata adozione dei piani recanti le misure di prevenzione della corruzione. Certo, come si è sostenuto in altra occasione, se si ragiona sul fatto che gli illeciti erariali tipizzati non sottendono una garanzia di impunità per le fattispecie non contemplate, stante l’idoneità di queste a ricadere comunque nel regime generale della responsabilità erariale di cui alla l. n. 20/1994, nulla esclude che la mancata adozione del POLA (oggi del Piano integrato nella parte riguardante il lavoro agile) possa comunque costituire illecito amministrativo-contabile ove dia luogo a un danno da disservizio, cioè ad una diminuzione di efficienza dell’apparato pubblico. La praticabilità di questa diversa soluzione appare tanto più evidente ove si consideri che l’estemporanea e non programmata attivazione del lavoro agile appare senz’altro capace di minare la funzionalizzazione dell’istituto al miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa. Non è dubbio, tuttavia, che l’effetto dissuasivo sarebbe certamente maggiore in presenza di un illecito tipizzato, ove cioè la sanzione di cui all’art. 10, d.lgs n. 150/2010 venisse riparametrata su tutti i contenuti del Piano integrato, ciò che imporrebbe, però, di sganciare l’applicazione della sanzione lì prevista dalla corresponsione dei compensi incentivanti.
Altri dubbi riguardano il grado di compatibilità della disciplina privatistica del lavoro agile con il regime del lavoro pubblico. Per espressa previsione normativa, l’applicazione della legge n. 81/2017 alle pubbliche amministrazioni non è incondizionata, ma è appunto assoggettata ad una clausola di compatibilità (“in quanto compatibili”). I profili di maggiore criticità parrebbero addensarsi attorno all’accordo individuale, chiamato a regolare, alla stregua della disciplina legale del lavoro agile, l’esercizio del potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro (tramite individuazione degli illeciti collegati alla prestazione di lavoro svolta fuori dai locali). Il timore è che siffatta disciplina possa minare le cautele individuate dal TUPI a garanzia del corretto esercizio dei poteri datoriali, che escludono – come noto – la possibilità di una contrattazione collettiva (e a maggior ragione individuale) in ordine a certe materie, a partire da quelle relative alle prerogative dirigenziali (cfr. art. 40, co. 1, d. lgs. n. 165/2001).
Sul tema si vedano anche i seguenti contributi già pubblicati sul blog:
Commenti