Per un diritto amministrativo dell’immigrazione: l’istruttivo caso della garanzia finanziaria come alternativa al trattenimento dei richiedenti asilo
di Mario Savino
Immigrazione e diritto amministrativo
Il diritto dell’immigrazione è un diritto essenzialmente amministrativo poco studiato dagli amministrativisti (ovvero studiato da pochi amministrativisti). Questo dato concorre a spiegare una particolare asimmetria. I giuspubblicisti che se ne occupano guardano ai tanti problemi giuridici che costellano questa materia adottando, quasi d’istinto, una prospettiva “individualista”, meritoria ma incompleta: quella del migrante e dei suoi diritti.
Che le libertà individuali siano e debbano continuare ad essere il prius, la necessaria premessa logica di qualsiasi discorso correttamente impostato sul pubblico potere, è un assunto ormai ampiamente condiviso da generazioni di giuspubblicisti (a scanso di equivoci, chi scrive diede alla propria monografia sul tema il titolo “Le libertà degli altri”). Tuttavia, forse per effetto della fascinazione esercitata dal discorso sui diritti umani come proiezione universalistica dei valori di eguaglianza e libertà che sono al centro della formazione giuridica occidentale, molta parte della letteratura sul tema tende ad assumere una prospettiva monoculare, a tratti militante, che impoverisce la comprensione dei problemi.
Non di rado, in quella produzione scientifica, la dimensione collettiva dell’interesse pubblico fatica a imporsi come altro polo, anch’esso necessario, del bilanciamento. Si avverte la mancanza di quella sensibilità propria degli amministrativisti, abituati forse più di altri studiosi a cogliere l’importanza di una dialettica tra interessi pubblici e privati o, se si preferisce, tra autorità e libertà, che non delegittimi nessuna delle due componenti. Affiorano, così, con nitore, le conseguenze del ritardo nello studio di questa materia, che pure ha assunto un peso crescente nel dibatto pubblico sul presente e sul futuro della nostra società e delle nostre istituzioni.
Di seguito, tenterò di chiarire con un esempio, il tipo di contributo che l’amministrativista può fornire al dibattito sull’immigrazione. Lo farò esaminando un problema specifico, ma ormai di dominio pubblico: la disciplina che il decreto del Ministro dell’interno del 14 settembre 2023 ha dettato in tema di garanzia finanziaria come alternativa al trattenimento dei richiedenti asilo alla frontiera. Il provvedimento ha generato un ampio dibattito, alimentato dal dubbio che, con tale misura, si sia surrettiziamente introdotta una discriminazione d’altri tempi, basata sul censo. È legittimo consentire ai soli richiedenti “abbienti” di sottrarsi alla detenzione amministrativa per essi altrimenti prevista?
Due ricostruzioni del nuovo istituto
Il DM del 14 settembre si applica agli stranieri «che sono nelle condizioni di essere trattenuti durante lo svolgimento della procedura in frontiera» (art. 1, c. 3), cioè ai richiedenti asilo che abbiano tentato di eludere i controlli di frontiera o che provengano da un Paese terzo designato come «sicuro». Per questa categoria di richiedenti asilo, la disciplina introdotta a maggio scorso prevede «il trattenimento (…) durante lo svolgimento della procedura in frontiera (…), al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato» (art. 6-bis, c. 1, d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, introdotto dalla richiamata l. n. 50 del 2023, di conversione del d.l. 10 marzo 2023, n. 20, c.d. Cutro).
Lo stesso art. 6-bis, al comma 2, specifica che il trattenimento può essere disposto quando il richiedente non abbia consegnato il passaporto «ovvero non presti idonea garanzia finanziaria». Questa formulazione sembrerebbe, in effetti, suggerire che la procedura di asilo con trattenimento alla frontiera si applichi a una certa categoria di richiedenti, connotata non solo dall’aver tentato di eludere i controlli di frontiera o dalla provenienza da un paese terzo sicuro, ma anche dalla mancanza di passaporto e, soprattutto, dei mezzi necessari per costituire una garanzia finanziaria. Di qui, il sospetto che si sia introdotta una misura discriminatoria, volta a penalizzare i richiedenti non abbienti, “condannandoli” alla detenzione amministrativa per mancanza di mezzi.
La disciplina di attuazione contenuta nel DM del 14 settembre sembrerebbe rafforzare il sospetto. Innanzitutto, quantifica l’importo della garanzia in 4.938 euro, tracciando una linea di demarcazione finanziaria all’interno di una categoria di richiedenti già proceduralmente sfavorita. Inoltre, stabilisce che la garanzia «è individuale e non può essere versata da terzi» (art. 3, c. 2), rendendo rilevante la sola condizione finanziaria personale, senza possibilità di aiuti di familiari o altri sponsor. Infine, stabilisce che la garanzia viene escussa dal prefetto «nel caso in cui lo straniero si allontani indebitamente» (art. 4, c. 1), così chiarendo che anch’essa, al pari del trattenimento, serve a evitare la fuga verso altri Stati membri e la sottrazione del richiedente al rimpatrio.
D’altra parte, proprio l’equivalenza funzionale con il trattenimento sembra autorizzare una diversa ricostruzione. In base all’art. 8, par. 4, della direttiva 2013/33/UE, «Gli Stati membri provvedono affinché il diritto nazionale contempli le disposizioni alternative al trattenimento, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato». Questa norma dà diretta copertura al nuovo istituto, che l’art. 3 del DM qualifica come «alternativa al trattenimento». Inoltre, l’art. 1, c. 2, dello stesso DM specifica che l’importo della garanzia (4.938 euro) corrisponde a quanto necessario al richiedente per procurarsi un alloggio e mezzi di sussistenza minimi per le 4 settimane di durata massima della procedura, nonché per pagare il proprio rimpatrio nel caso di rigetto della domanda di asilo.
La logica suggerita dal metodo di calcolo sembrerebbe essere, dunque, la seguente: i migranti che, pur avendo poche possibilità di ottenere protezione, vogliano comunque presentare una richiesta di asilo dovrebbero accollarsi parte dei costi che ne derivano al sistema e, quindi, se dotati di risorse, evitare che sia lo Stato a dover provvedere al loro sostentamento in pendenza della procedura di asilo. Poiché la procedura in questione prevede il trattenimento alla frontiera, l’incentivo a contribuire alle spese deriva dalla possibilità di evitare il trattenimento.
Il fraintendimento della giurisprudenza europea
Se le norme UE consentono a) di trattenere le categorie di richiedenti individuate dal legislatore italiano nell’ambito della procedura di frontiera e b) di prevedere, come alternativa al trattenimento, «la costituzione di una garanzia finanziaria», si può comunque ritenere che il DM del 14 settembre sia illegittimo?
Con decisioni del 29 settembre 2023 (seguite da analoghe decisioni dell’8 ottobre, adottate da un diverso giudice), il Tribunale di Catania ha disapplicato il decreto, ritenendolo contrario alle norme UE, e ha così negato la convalida ai provvedimenti di trattenimento disposti nei confronti dei richiedenti asilo che non avevano prestato la garanzia finanziaria.
Questa decisione, ad avviso di chi scrive (ma si veda, in senso contrario, l’adesivo comunicato dell’ASGI), poggia su una errata interpretazione di una pronuncia resa dalla Corte di giustizia nel maggio 2020. In quella pronuncia – riguardante il trattenimento di richiedenti asilo privi di mezzi nella famigerata zona di transito ungherese di Röszke (caso FMZ et al., cause riunite C‑924/19 PPU e C‑925/19 PPU) – la Corte di giustizia ha affermato che un richiedente asilo non può essere «trattenuto per il solo motivo che egli non può sovvenire alle proprie necessità» (punto 256), in quanto l’art. 8, par. 3, della direttiva 2013/33/UE non include questo tra i motivi di trattenimento.
Sulla scorta di questa pronuncia, il Tribunale di Catania ha, anzitutto, asserito che la disciplina dettata dal DM si pone in contrasto con gli artt. 8 e 9 della direttiva 2013/33/UE, interpretati appunto dalla Corte di giustizia nel senso che nessuno può essere trattenuto per il solo fatto di non poter provvedere alle proprie necessità. Quindi, data per scontata la diretta applicabilità di tale principio al caso di specie, se ne è tratta l’implicazione che la garanzia finanziaria «non può essere considerata misura alternativa al trattenimento», trattandosi piuttosto di «un requisito amministrativo imposto per il solo fatto che [il richiedente] chiede protezione internazionale», con conseguente violazione delle norme sull’accoglienza e dei diritti conferiti dalla direttiva 2013/33/UE.
Questo argomento sollecita alcuni interrogativi. Il principio enunciato dalla Corte di giustizia nel caso ungherese si attaglia al caso in esame? E come si concilia quel principio con l’art. 8, par. 4, della direttiva 2013/33/UE, che pianamente ammette, tra le misure alternative al trattenimento dei richiedenti, la costituzione di una garanzia finanziaria?
Innanzitutto, nel caso deciso dalla Corte di giustizia e in quello in esame le questioni giuridiche non sono del tutto sovrapponibili. Il fatto che un richiedente non abbia risorse (lì, per provvedere autonomamente alle proprie necessità, senza gravare sul sistema pubblico di accoglienza; qui, per costituire la garanzia finanziaria) nel caso ungherese è l’unica ragione del trattenimento, inteso come modalità di accoglienza (in contrasto con le finalità della direttiva 2013/33/UE, secondo la Corte di giustizia); nel caso italiano, invece, di per sé, non basta a giustificare il trattenimento, che si fonda su un altro presupposto: la provenienza del richiedente (nel caso di specie, tunisino) da un paese di origine considerato «sicuro».
Se, dunque, nel caso italiano, il trattenimento del richiedente è disposto innanzitutto perché questi proviene da un paese terzo sicuro e la indisponibilità di risorse rileva, al più, come condizione accessoria (ma sarebbe forse più corretto ritenere, in positivo, che la disponibilità di risorse sufficienti a costituire la garanzia finanziaria operi come condizione “risolutiva” del trattenimento), come può ritenersi sic et simpliciter applicabile al nostro caso il principio europeo secondo cui un richiedente asilo non può essere «trattenuto per il solo motivo che egli non può sovvenire alle proprie necessità»?
L’unico modo sarebbe quello di ritenere che quel principio vada inteso nel senso, decisamente più lato, che il diritto UE vieti di assegnare qualsiasi rilevanza alla capacità finanziaria del richiedente asilo in vista della decisione sul suo trattenimento. Tuttavia, questa interpretazione sarebbe contraria all’art. 8, par. 4, della direttiva 2013/33/UE, che espressamente ammette la possibilità di prevedere la garanzia finanziaria come alternativa al trattenimento.
Chiarite le ragioni che inducono a ritenere che il decreto ministeriale del 14 settembre 2023 non sia in contrasto con le norme europee sull’accoglienza dei richiedenti asilo, resta un ultimo dubbio: se le modalità previste per costituire la garanzia finanziaria siano tali da consentirne davvero l’utilizzo da parte dei richiedenti.
Il decreto prescrive che la garanzia sia prestata «in unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa» e costituita «entro il termine in cui sono effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico» (art. 3, c. 2 e 3). Sembrerebbe trattarsi di forme e tempi difficili da osservare nel contesto delle operazioni che seguono lo sbarco e instradano il richiedente verso la procedura di frontiera. L’attuazione pratica ci dirà se i richiedenti saranno (messi) in condizione di avvalersi di questa alternativa al trattenimento. Intanto, però, prevale l’impressione che la disciplina in esame serva fini meramente politici, cioè a soddisfare una aspettativa dei partner europei, interessati a verificare che l’Italia faccia tutto quanto il diritto UE consente per limitare i movimenti secondari dei migranti verso il resto dello spazio Schengen. Se fosse, allora, proprio questo della mancanza di effettività (e non quello della discriminazione in base al censo) il profilo di contrasto tra la disciplina dettata dal DM e l’art. 8, par. 4, della direttiva accoglienza? Perché non sollevare la questione alla Corte di giustizia, piuttosto che lasciare la disciplina nel limbo della disapplicazione selettiva ad opera di giuridici più o meno “orientati”?
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