Regioni, sanità e assistenza al suicidio
di Alessandra Pioggia
È notizia di questi giorni quella della donna che ha ottenuto dalla sanità friulana la piena assistenza nel porre termine alla propria vita mediante suicidio.
Non esiste alcuna disposizione legislativa a questo espressamente dedicata, ma l’inerzia del Parlamento nazionale, per ben due volte sollecitato dalla Corte costituzionale, ha stimolato la presentazione di alcune proposte di legge regionale, ponendo l’interessante questione se a colmare quel vuoto normativo possano intervenire oggi anche le regioni. Non si tratta di una questione solo teorica, ma pratica e politica, dal momento che diverse regioni stanno esaminando una proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’Associazione Luca Coscioni e altre, come la Puglia, stanno discutendo in commissione un progetto elaborato in sede regionale.
La questione dell’aiuto al suicidio presenta oggi un quadro normativo decisamente peculiare. Ci troviamo, infatti, di fronte ad una fattispecie, la cui regolazione muove dalla Costituzione, passa per la depenalizzazione di una frazione di quanto preso in considerazione dall’articolo 580 del codice penale, si aggancia ad una legge dettata ad altri fini, e trova nell’assenza di un dettato normativo dedicato un vuoto che viene colmato dalla giurisprudenza e da decisioni amministrative assunte dalle regioni e dai loro enti strumentali.
Il tutto inizia con la sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, preceduta, a sua volta, dall’ordinanza n. 207 dell’anno precedente. In discussione era l’articolo 580 del codice penale che punisce l’istigazione o aiuto al suicidio e da cui la Corte ha ritenuto debba escludersi, per l’incostituzionalità della sua configurazione come reato, un ambito ben delineato: quello in cui l’aiuto al suicidio riguardi l’esecuzione di un proposito, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili.
Come è noto, però, la sentenza non si è fermata qui. La Corte, infatti, tenuto conto della natura fondamentale della libertà che rischiava di essere compromessa dalla norma penale, ha escluso espressamente sia una pronuncia meramente ablativa, sia una additiva di mero principio. Per i giudici, l’ordinamento non può tollerare la sopravvivenza, neanche temporanea, di una previsione che impedisca l’esercizio di una libertà fondamentale, ma depenalizzare semplicemente l’aiuto al suicidio, allorché richiesto da persone che si trovino nella condizione prima descritta, non assicurerebbe ad esse, né ad altre, adeguata tutela. Una disciplina era quindi indispensabile subito e non bastava una regolazione per principi, occorrendo disposizioni puntuali. Così i giudici hanno scelto di ricavare “dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari”. La fonte di riferimento è stata individuata nella legge 219 del 2017, che, come ben noto, riguarda il consenso informato e le dichiarazioni anticipate di trattamento e che contiene la disciplina di un’altra modalità “volontaria” per congedarsi dalla vita: la rinuncia a trattamenti di sostentamento vitale. Tale ultima circostanza ha consentito ai giudici di richiamare espressamente la regolazione che a questo proposito il legislatore ha già dettato per l’accertamento della capacità di agire della persona, l’informazione ad essa dovuta, la raccolta delle sue volontà e la fornitura di cure palliative. A ciò, però, la Corte ha aggiunto altri passaggi, non espressamente ricavabili dalla legge, ma comunque necessari alla tutela della persona che richieda l’aiuto al suicidio: l’accertamento della sua dipendenza da trattamenti di sostentamento vitale, la verifica delle modalità di esecuzione del proposito suicidario e l’obbligatoria richiesta di un parere al comitato etico territoriale relativamente ad entrambi gli aspetti.
Ne è emersa quindi una articolata regolazione, ben illustrata nel dispositivo, in cui si dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, “con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 … agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
L’ambientazione della procedura è indubbiamente medica, ma gli obblighi che in questo modo la Corte ha ricavato per l’amministrazione sanitaria non riguardano direttamente l’aiuto nel congedo dalla vita, visto che concernono unicamente le modalità per rendere esercitabile tale libertà da parte dell’individuo attraverso l’aiuto di altri. Ciò si sostanzia in attività di accertamento, verifica e informazione, che, provenendo doverosamente da una struttura pubblica, valgono a definire con certezza una fattispecie esclusa dalla punibilità definita dall’articolo 580 del codice penale.
Chiarito questo, siamo pronti a discutere dello spazio per l’intervento regionale.
Per farlo, occorre trattare distintamente di ciò che doverosamente le strutture sanitarie delle regioni sono già tenute a fare e ciò che non è loro imposto da questa insolita sequenza di fonti normative e giurisprudenziali.
Per quanto concerne gli adempimenti già dovuti, credo che non possa ragionevolmente dubitarsi della possibilità di una regione, anche con legge, se ritiene, di organizzare le modalità di attuazione degli stessi. Si tratta infatti di disciplinare il modo in cui le amministrazioni sanitarie pongono in essere le proprie attività prestazionali (palliazione, informazione, acquisizione del consenso) e di accertamento (verifica della capacità della persona, della libera formazione della sua volontà, delle condizioni di salute, dell’adeguatezza di farmaci e macchinari).
Questione ulteriore è se le regioni possano assumere, con legge, l’impegno di fornire piena assistenza al suicidio, mettendo a disposizione il farmaco necessario, il macchinario per l’autosomministrazione, il personale medico, nonché, eventualmente, una struttura ove poter accedere a tali prestazioni.
La prima cosa da chiedersi è se l’assistenza al suicidio, così configurata, possa ritenersi un trattamento sanitario.
A mio modo di vedere, la risposta non può che essere positiva: chi richiede assistenza è una persona affetta da malattia incurabile, fonte di sofferenze non più tollerabili, mantenuta in vita da trattamenti medici e alla quale è stata offerta una palliazione farmacologica. La procedura di congedo volontario dalla vita richiede un supporto indubbiamente medico-sanitario e anche l’analogia con la sospensione dei trattamenti vitali, che pure la Corte utilizza nella sentenza 242, sembra deporre in questo senso.
La questione si sposta allora sull’attuale mancata previsione, da parte dello Stato, di tale prestazione sanitaria nei livelli essenziali e sulla legittimità di una disciplina regionale che preveda servizi non ancora inclusi nei lea. Su questo tema esistono una dottrina e una giurisprudenza corpose, che hanno chiaramente indicato che le regioni possono prevedere, anche con legge, l’erogazione di prestazioni sanitarie extra lea, purché non si tratti di regioni in piano di rientro.
Ne consegue che l’unica obiezione di carattere costituzionale che potrebbe oggi investire le leggi regionali che operino nel senso sopra visto è quella di carattere economico finanziario.
Torniamo ora al caso dal quale siamo partiti, quello della donna friulana che ha ottenuto dalla sanità l’assistenza al suicidio.
Il Friuli Venezia Giulia, come le altre regioni italiane, almeno per ora, non ha adottato alcuna legge regionale. Ciò nonostante l’amministrazione sanitaria ha proceduto non solo agli accertamenti che sono dovuti (condizioni di salute, dipendenza da trattamenti di sostentamento vitale, libera formazione della volontà e modalità di effettuazione del suicidio), ma anche alla prestazione di assistenza, mettendo a disposizione il farmaco letale, il macchinario per l’autosomministrazione e un medico della struttura, che ha vigilato sulla procedura.
La questione qui non è quella della legittimità di una regolazione, con norme generali ed astratte, dell’aiuto al suicidio. Ci troviamo, piuttosto, di fronte ad una relazione diretta fra una amministrazione pubblica e una persona malata. Una circostanza, cioè, in cui l’amministrazione è chiamata a prendersi cura di un individuo specifico.
La domanda allora è se, in mancanza di una legislazione nazionale o regionale e in assenza di livelli essenziali che definiscano i doveri prestazionali dell’amministrazione sanitaria, questa possa comunque decidere di fornire la prestazione richiesta.
Anche qui ritengo che la risposta sia positiva.
All’amministrazione la nostra Costituzione richiede di curare l’effettività dei diritti, non solo attraverso l’esecuzione del comando normativo, ma anche, operativamente, attraverso la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono ad alcuni di godere appieno (in modo libero ed eguale) di quei diritti che la legge ha loro attribuito. La relazione con la legalità non si arresta per l’amministrazione al rapporto con la legge, ma si dispiega in un orizzonte più ampio, che include il progetto costituzionale, anche oltre quanto espressamente previsto e dettagliato dal dettato normativo.
Se leggiamo la vicenda in esame in questa prospettiva, troviamo una persona, una donna, che per esercitare la propria libertà, la cui legittima espressione è stata doverosamente accertata dall’amministrazione sanitaria, necessita dell’aiuto di altri, un aiuto e un supporto, come si è detto, di carattere sanitario. Nessuna norma o livello essenziale impongono all’amministrazione di erogare questo supporto, ma, senza di esso, la persona potrebbe non riuscire a godere di quella libertà. Esistono, cioè, ostacoli di ordine economico e sociale che intralciano la libera espressione della sua personalità.
Ritenere che l’amministrazione debba attendere una legge o un preciso comando, in forma di livello essenziale, per provvedere a rimuovere questi ostacoli, corrisponderebbe a negare la cogenza dell’impegno che la Costituzione fa gravare sull’intera Repubblica, e non soltanto sul legislatore.
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