Ancora su autonomia universitaria e reclutamento
di Alfredo Marra
Università degli Studi di Milano-Bicocca
Tra tentativi di cooptazione e concorsi fatti male
La recente sentenza del Consiglio di Stato che ha annullato il regolamento dell’Università di Trento nella parte in cui, disciplinando le procedure di chiamata dei ricercatori e dei docenti universitari, demandava l’ultima parola circa la scelta del vincitore al consiglio di dipartimento invece che alla commissione, costituisce una buona occasione per tornare a riflettere sul tema dell’autonomia degli atenei nella regolamentazione dei concorsi universitari, tema già affrontato sulle pagine di questo blog, in chiave critica, da Gianluca Gardini.
Anticipando sin d’ora le conclusioni delle mie riflessioni, dirò subito che la decisione del giudice amministrativo, su questo specifico aspetto (molto meno su altri, a cominciare dalla legittimazione a ricorrere del ricorrente in primo grado), è senz’altro corretta dal punto di vista strettamente giuridico. Vero è che il regolamento trentino – a differenza di quelli di altri atenei – configurava lo svolgimento di un seminario davanti al consiglio di dipartimento come una seconda fase del concorso dopo quella, della valutazione scientifica, svolta dalla commissione. Ma non v’è dubbio che anche questo regolamento, al pari di quelli di altri atenei, sia espressione del tentativo delle università di introdurre nelle procedure di reclutamento elementi più affini alla cooptazione, come tali non facilmente conciliabili con il principio del concorso pubblico.
Sotto un diverso profilo, però, tali previsioni regolamentari possono anche essere lette come sintomatiche di una comprensibile insoddisfazione per il modo con cui sono attualmente disciplinati e gestiti i concorsi universitari i quali, per loro natura, sono piuttosto diversi dai normali concorsi per l’accesso alle pubbliche amministrazioni, non fosse altro perché candidati e commissari appartengono alla medesima comunità scientifica.
La decisione del Consiglio di Stato
Ma andiamo con ordine, partendo dal caso concreto. L’Università di Trento aveva bandito un concorso da ricercatore a tempo determinato in esito al quale il candidato terzo graduato si era rivolto al giudice amministrativo per contestare, tra l’altro, una norma del regolamento di ateneo che attribuiva al consiglio della struttura accademica la deliberazione di chiamata del vincitore senza essere vincolato alle valutazioni formulate dalla commissione di concorso in merito al profilo scientifico dei candidati. Il consiglio di facoltà, infatti, sulla base del regolamento, doveva tener conto anche degli elementi emersi in sede di presentazione del seminario pubblico tenuto da ciascun candidato davanti al consiglio stesso, nonché della coerenza del profilo del candidato rispetto all’eventuale tipologia di impegno didattico e di ricerca. In sostanza, la norma del regolamento sembrava attribuire al consiglio di facoltà il potere di scelta del candidato ritenuto più meritevole, anche in funzione dell’impegno scientifico e didattico richiesto. Secondo il giudice amministrativo, poco importa che, nel caso di specie, il consiglio di facoltà avesse scelto di chiamare proprio il candidato ritenuto più meritevole dalla commissione di concorso. Diversamente dal giudice di primo grado, infatti, il Consiglio di Stato ha ritenuto che la citata norma regolamentare violasse i principi di trasparenza, merito e par condicio stabiliti dalla legge statale, essendo il consiglio della struttura dipartimentale un organo che non offre adeguate garanzie di imparzialità e competenza tecnica. Il vulnus a tali principi risulterebbe poi ancora più grave – secondo la pronuncia – per il fatto che il potere di chiamata sarebbe attribuito esclusivamente al consiglio di facoltà, senza l’intervento e il controllo del consiglio di amministrazione, come invece prevede la norma statale.
Come già detto, la decisione del Consiglio di Stato appare sostanzialmente corretta nella parte in cui afferma che le previsioni regolamentari si pongono in contrasto (non tanto, forse, con la lettera della legge, ma certamente) con i principi che governano il concorso pubblico, principi in base ai quali, perché possa parlarsi di concorso, occorre una valutazione comparativa tra i candidati, svolta da un organo tecnico competente e imparziale, che dia luogo alla redazione di una graduatoria finale. Per tale ragione, già a suo tempo erano state espresse forti perplessità non solo nei confronti di quei regolamenti universitari che attribuivano alle commissioni di concorso il compito di redigere un mero elenco di idonei, lasciando al consiglio di dipartimento la scelta del candidato ritenuto più meritevole di ricoprire il posto messo a concorso, ma pure nei confronti della giurisprudenza che aveva riconosciuto la legittimità di tali regolamenti.
Le rigidità dei concorsi universitari
Ciò premesso in punto di stretto diritto, previsioni regolamentari come quelle trentine possono anche offrire spunti per una lettura diversa, se si vuole in una chiave di politica del diritto. Tali previsioni, infatti, sono sintomatiche di una certa insoddisfazione per l’attuale disciplina dei concorsi universitari. Non ci si riferisce qui alla questione, pure accennata sulle pagine di questo Blog, se non sia il caso di abbandonare l’Abilitazione Scientifica Nazionale, eventualmente per tornare al vecchio concorso nazionale, quanto piuttosto al fatto che l’attuale normativa sui concorsi, per come congegnata dal legislatore e interpretata dalla giurisprudenza prevalente, è estremamente rigida e non consente né di costruire il concorso in funzione delle reali esigenze dell’università che bandisce il posto, né di apprezzare in modo adeguato il profilo del candidato.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la legge Gelmini prevede, per un verso, che i bandi di concorso specifichino il settore concorsuale e un eventuale profilo esclusivamente tramite indicazione di uno o più settori scientifico-disciplinari (art. 18 lett. a) mentre, per altro verso, si limita a stabilire che la valutazione abbia ad oggetto le pubblicazioni scientifiche, il curriculum e l’attività didattica (art. 18 lett. d). Le esigenze in funzione delle quali il posto viene bandito sono del tutto irrilevanti ai fini della selezione, fatta eccezione per le esigenze didattiche dei corsi di studio in lingua estera che rilevano, tuttavia, solo ai fini dell’accertamento (ma non anche della valutazione, secondo la maggior parte della giurisprudenza) delle competenze linguistiche.
La ratio di queste disposizioni è molto chiara e di per sé del tutto condivisibile: si vuole evitare il rischio di bandi “profilati”, cioè bandi che richiedano ai candidati caratteristiche talmente specifiche da restringere artificialmente il perimetro della competizione. Perimetro che, quindi, non può essere più stretto di quello del settore scientifico disciplinare.
Tuttavia, se tale regola può essere perfettamente ragionevole in determinati settori, soprattutto quelli umanistici e delle scienze sociali, dove la ricerca ha ancora un carattere prevalentemente individuale, il discorso è molto diverso nei settori dove invece operano gruppi di ricerca, spesso interdisciplinari, nei quali i livelli di specializzazione richiesti sono di necessità particolarmente elevati. Analogamente, il discorso ha assai meno senso nel settore medico, almeno laddove il posto messo a bando sia collegato ad attività assistenziale.
La medesima insoddisfazione si registra per quanto riguarda il secondo aspetto segnalato, ossia l’apprezzamento del profilo del candidato. Anche in questo caso, al fine di restringere il più possibile i margini di scelta (della commissione), la legge rimanda a un DM (nella fattispecie si tratta del DM 4 agosto 2011 n. 344) per la fissazione dei criteri di valutazione dell’attività didattica e scientifica, comprese le pubblicazioni. Sennonché, il decreto prevede una disciplina a maglie piuttosto strette che rischia di irrigidire eccessivamente il concorso universitario, come sa bene chiunque in questi anni sia stato membro di una commissione. La valutazione, infatti, finisce molto spesso per ridursi alla formulazione di giudizi più o meno stereotipati quando non addirittura alla compilazione di tabelle di punteggio numerico che quantificano meccanicamente il merito dei candidati. Giustamente i bandi prevedono che la valutazione premi maggiormente la ricerca scientifica (che non dovrebbe però coincidere semplicemente con la produzione scientifica in termini esclusivamente quantitativi), ma l’attività didattica è valutata sulla base di criteri rozzi (il numero di corsi tenuti; gli esiti della valutazione degli studenti, la partecipazione alle commissioni d’esame…). Nessun rilievo assumono, poi, altri elementi, che pure l’attuale disciplina generale dei concorsi (art. 35-quater del d.lgs. 165/2001) intende valorizzare: ci si riferisce alle capacità comportamentali, incluse quelle relazionali e manageriali, e alle attitudini. Tutti elementi che nell’università contemporanea, in profonda trasformazione e sempre più chiamata a svolgere una pluralità di funzioni, anche oltre la ricerca e la didattica tradizionalmente intese, sono decisamente importanti. Vero è che nella giurisprudenza recente (ad es. Cons. Stato, VII, 1857/2024) vi è qualche apertura in questa prospettiva, ad esempio per ciò che riguarda il riconoscimento, in sede di valutazione, dell’attività gestionale svolta dai candidati. Ma è anche vero che, in questi casi, si tratta di valutazioni di “titoli” posseduti, ossia riferiti ad esperienze pregresse, come tali suscettibili di essere valorizzate addirittura oltre misura, piuttosto che valutazioni di capacità e attitudini.
Conclusioni
In definitiva, se il tentativo di alcune università di allontanarsi dalla disciplina del concorso per dirigersi verso sistemi di reclutamento più vicini alla cooptazione non può essere considerato conforme all’attuale paradigma legale, ciò non significa che l’unica alternativa possibile sia quella di concorsi rigidamente regolati, con una riduzione ai minimi termini dei margini di scelta da parte dell’università che bandisce il posto. Ovviamente non è facile individuare un punto di equilibrio soddisfacente tra la necessità di assicurare una competizione che premi il merito e modalità concorsuali che conservino alle università un potere di scelta in funzione delle proprie esigenze. Ma se in ogni valutazione vi sono margini di opinabilità (perché opinabile è lo stesso contenuto della parola merito), irrigidire la disciplina dei concorsi non è una risposta adeguata. In questa prospettiva, al contrario, proprio l’autonomia degli atenei, se responsabilmente esercitata, rappresenta ancora la via da percorrere per la ricerca di soluzioni più soddisfacenti.
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