Tra “materie” e “funzioni”: quanto e come le Regioni ordinarie possono differenziarsi?
di Paolo Giangaspero
Università degli Studi di Trieste
1. L’art. 116, comma 3, Cost. tra “fughe in avanti” e sua “normalizzazione”: dal possibile “superamento” al necessario “completamento” del Titolo V, parte II, Cost.
Appare fuori di dubbio che la sent. n. 192 del 2024 sia una di quelle decisioni che sono dotate di un grande “respiro sistematico”, in quanto fornisce – in sede di sindacato sulla legge di attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost – una interpretazione di insieme del regionalismo italiano, ed in particolare delle sue possibili trasformazioni all’indomani della riforma del 2001.
Un profilo (certo non l’unico) attraverso il quale valutarne l’impatto in termini ricostruttivi si riconnette certamente al “quanto” ed al “come” della possibile differenziazione delle Regioni a statuto ordinario.
Come è noto, il dibattito attorno all’attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost., prima della approvazione della legge n. 86 del 2024 aveva portato, nella visione di chi aveva assunto le iniziative di differenziazione, ad una “lettura” di quella disposizione come uno strumento che – per come venivano a configurarsi le richieste delle Regioni – sembrava poter costituire una sorta di vera riforma costituzionale, cui avrebbe potuto corrispondere quella che è stata definita una vera e propria “disattivazione” del Titolo V, parte II, Cost. A questo risultato tendeva la richiesta da parte delle Regioni di tutte (o quasi) le materie astrattamente devolvibili con il meccanismo della differenziazione. Da un lato questo fenomeno aveva prodotto una diffusione anche ad altre Regioni, rispetto alle tre originariamente portatrici dell’iniziativa, delle istanze di differenziazione; d’altro lato aveva in qualche modo condizionato la stesura della stessa legge n. 86 del 2024, che consentiva alle iniziative regionali di rivolgersi a “intere materie” o “ambiti di materie” ed alle relative funzioni, ed alle materie ancorava anche la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 1, comma 2; art. 2, comma 1 e comma 2; art. 3, comma 3).
La portata di queste disposizioni certo non era confinabile ad una dimensione puramente procedurale, pure presente nella legge n. 86 del 2004, e che la Corte ammette come percorribile, ma involgeva anche aspetti di contenuto, riguardanti, come si è visto, il “quanto” e il “come” delle devoluzioni conseguibili in forza dell’art. 116, comma 3, Cost.
Questa impostazione appare messa complessivamente in discussione dalla Corte, con la dichiarazione di incostituzionalità di tutte le disposizioni appena citate. La conclusione è raggiunta attraverso un’interpretazione che si potrebbe definire “correttiva” dell’art. 116, ultimo comma, Cost. rispetto alle curvature che la prassi aveva mostrato di perseguire in ordine alla possibile portata della differenziazione.
La Corte è infatti orientata a definire (e ridimensionare) la possibile estensione della differenziazione, inquadrandola come una delle manifestazioni del principio di sussidiarietà, che è meccanismo capace di fungere da “cerniera” e di assicurare il “collegamento tra l’unità e indivisibilità della Repubblica, da una parte, e l’autonomia delle regioni accresciuta grazie alla differenziazione di cui all’art. 116, terzo comma, Cost., dall’altra” (4.1. diritto).
Sulla base di questa considerazione generale, nella sentenza si afferma, in linea di principio, che il giudizio di adeguatezza che costituisce l’”ascensore” attraverso il quale, in forza del principio di sussidiarietà, le funzioni sono allocate, in base alle loro caratteristiche e al contesto in cui si svolgono “(…) non può che riferirsi a specifiche e ben determinate funzioni e non può riguardare intere materie. La funzione è un insieme circoscritto di compiti omogenei affidati dalla norma giuridica ad un potere pubblico e definiti in relazione all’oggetto e/o alla finalità. A ciascuna materia afferisce, invece, una gran quantità di funzioni eterogenee, per alcune delle quali l’attuazione del principio di sussidiarietà potrà portare all’allocazione verso il livello più alto, mentre per altre sarà giustificabile lo spostamento ad un livello più vicino ai cittadini.”
Queste conclusioni della Corte da un lato collegano la disposizione dell’art. 116 Cost. alle osservazioni generali sul regionalismo italiano, contenute nella prima parte della sentenza, e riferibili al fatto che l’autonomia regionale non può spingersi fino a “minare la solidarietà tra lo Stato e le regioni e tra regioni, l’unità giuridica ed economica della Repubblica (art. 120 Cost.), l’eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti (art. 3 Cost.), l’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) e quindi la coesione sociale e l’unità nazionale – che sono tratti caratterizzanti la forma di Stato –, il cui indebolimento può sfociare nella stessa crisi della democrazia.”
D’altro lato, le conclusioni appena richiamate in realtà finiscono per qualificare la differenziazione legata all’art. 116, comma 3, Cost. non già come la possibilità di un “superamento” della allocazione delle funzioni stabilito dal titolo V, ma come una sorta di “completamento” del Titolo V stesso, che si basa sul principio di sussidiarietà e che per questa via avvicina la differenziazione ad altri istituti, tra i quali soprattutto quello – di conio giurisprudenziale – della attrazione in sussidiarietà (sent. 303/2003). Questo inquadramento della differenziazione all’interno della logica complessiva del Titolo V vale ad affermare che la possibilità di deroghe rispetto alla ripartizione delle funzioni consacrata nel Titolo V, e pertanto considerata “ottimale” dal legislatore costituzionale, debba essere puntualmente “giustificata e motivata con precipuo riferimento alle caratteristiche della funzione e al contesto (sociale, amministrativo, geografico, economico, demografico, finanziario, geopolitico ed altro) in cui avviene la devoluzione, in modo da evidenziare i vantaggi – in termini di efficacia e di efficienza, di equità e di responsabilità – della soluzione prescelta.”
2. Le “correzioni” alla l. n. 86 del 2024 e i test predisposti dalla Corte
Su questa base, dunque, sono costruite le dichiarazioni di illegittimità costituzionale di tutte le disposizioni che consentivano, sulla base della legge impugnata, il trasferimento di intere materie, rendendo possibile, nella visione della Corte, “un trasferimento anche di tutte le funzioni (amministrative e/o legislative) rientranti in una materia, senza prescrivere che le richieste di intesa siano giustificate in relazione alla situazione della regione richiedente.”. In taluni casi (art. 2, comma 2 della legge) si tratta di dichiarazioni di incostituzionalità “secche”; in altri casi di interventi “correttivi” sul testo della legge attraverso aggiunte o sostituzioni con le quali la Corte àncora il trasferimento a specifiche funzioni anziché a materie (artt. 1, comma 2, 2 comma 1), riferisce la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni alle singole funzioni o a gruppi di funzioni anziché a materie (art. 3, comma 3 e 4, comma 1 della legge), prescrive che l’iniziativa regionale di trasferimento della singola funzione sia giustificata sulla base del principio di sussidiarietà (art. 2, comma 1).
Come si può vedere, con questi interventi la Corte mostra di voler correggere, sul punto qui considerato, la legge nel suo impianto complessivo, che si era venuto modellando sulle concrete richieste regionali in ordine alle quali si erano svolte le trattative tra Stato e Regioni che aspiravano alla differenziazione.
Per altro verso, la Corte non si limita agli interventi appena citati, ma in qualche misura riempie di contenuti il giudizio sul concreto dispiegamento della sussidiarietà in sede di differenziazione, elaborando a questo riguardo di test rivolto a valutare l’effettiva sussistenza dell’adeguatezza dell’attribuzione della singola funzione. Tale test si articola (punto 4.2 diritto) nella verifica della sussistenza di tre criteri, puntualmente indicati dalla Corte, che trovano diretto fondamento in norme costituzionali che sono tali da valere come principi, alla cui realizzazione la stessa autonomia regionale è preordinata. Essi sono individuati nei seguenti:
- a) l’efficacia e l’efficienza nell’allocazione delle funzioni e delle risorse, che si radica nel principio del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97, secondo comma, Cost), e che impedisce la differenziazione in ordine a funzioni che per le loro caratteristiche intrinseche non possono che trovare allocazione al livello di governo più alto (statale o addirittura sovranazionale);
- b) l’equità nella distribuzione delle risorse: a questo riguardo risulta evidente, nel ragionamento della Corte, come la differenziazione sia necessariamente legata (e subordinata) all’eguaglianza nel godimento dei diritti fondamentali, e non possa essere un veicolo per la produzione o la perpetuazione di diseguaglianze nel godimento dei diritti;
- c) la responsabilità delle autorità regionali rispetto alle popolazioni interessate dall’esercizio delle funzioni: qui la differenziazione si ricollega alla possibilità che essa sia strumentale ad un ampliamento degli spazi di democrazia, attraverso meccanismi di partecipazione popolare all’esercizio delle funzioni ed attraverso l’uso dei meccanismi di responsabilità politica. Anche sotto questo profilo la differenziazione non può essere disgiunta dalla chiara imputabilità delle scelte al livello di governo titolare della funzione, il che la rende incompatibile con la devoluzione alle Regioni di funzioni che per loro natura non sono suscettibili di esercizio “frazionato” anche sotto il profilo della attivazione della responsabilità politica.
É a questo riguardo necessario aggiungere che la Corte, con una interpretazione in qualche modo “ortopedica” dello stesso testo dell’art. 116, comma 3, si dimostra particolarmente scettica sulla possibilità che tale test sia positivamente superato in relazione alle funzioni concernenti alcune delle materie che in astratto la disposizione costituzionale indica come possibile oggetto di differenziazione. Ci si riferisce a ciò che la Corte dice (punto 4.4 diritto) relativamente ad alcuni degli ambiti di possibile differenziazione indicati nell’art. 116, comma 3, Cost. quali il commercio con l’estero, la tutela dell’ambiente, i porti e aeroporti civili, le grandi reti di trasporto, le professioni, le norme generali sull’istruzione.
Pur non escludendo a priori che alcune delle funzioni concernenti tali materie possano essere in qualche misura differenziate, la Corte in questi ambiti, sia per i vincoli europei, sia per la stretta connessione con funzioni necessariamente unitarie (si pensi alla politica estera) sia (soprattutto con riguardo alle norme generali sull’istruzione) per la loro funzionalità al mantenimento dell’identità nazionale, prefiguri un controllo più stretto, in quanto in questi contesti, il compito “di giustificare la devoluzione alla luce del principio di sussidiarietà diventa, (…) particolarmente gravoso”, il che porta con sé la necessità che tale devoluzione sia sottoposta ad uno scrutinio particolarmente stretto di legittimità costituzionale.
3. Le prospettive del processo di differenziazione
Quanto si è accennato in merito alla complessiva lettura che la Corte ha fornito in ordine ai limiti ed alle condizioni dei processi di differenziazione solleva il problema delle possibilità che i processi avviati nel 2018 con la stesura delle preintese e successivamente delle bozze di intesa possano proseguire e quanto la decisione della Corte potrà influire sugli esiti di tali processi.
A questo riguardo, una prima osservazione può consistere nel rilevare come, all’indomani dell’intervento della Corte, siano necessari ulteriori interventi legislativi per rendere concretamente praticabile la differenziazione.
In questo senso appaiono dirimenti le dichiarazioni di incostituzionalità dell’art. 3, commi 1 e 9, della legge n. 86 del 2024, che hanno rispettivamente colpito la legge di delega in ordine alla fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni per carenza di principi e criteri direttivi (coinvolgendo anche, per illegittimità conseguenziale, le altre disposizioni della legge ad essa connesse: cfr. punto 9.3 diritto) e la disposizione della legge che – in attesa dell’entrata in vigore dei decreti legislativi – demandava a d.p.c.m. la fissazione dei livelli stessi (estesa, sempre sulla base di illegittimità conseguenziale, ai commi da 791 a 801 bis dell’art. 1 della l. n. 197 del 2022). In assenza di ulteriori disposizioni legislative, dunque, è allo stato impossibile la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni, che peraltro la Corte pretende che siano fissati non già in ordine alle materie, ma alle singole funzioni.
Vero è che in linea astratta il processo di differenziazione potrebbe essere coltivato con riguardo alle c.d. materie “no-lep” desumibili dall’art. 3, comma 3, della legge impugnata. E tuttavia a questo riguardo non si può fare a meno di notare come la Corte, anche sotto questo profilo, mostri un atteggiamento improntato a grande cautela: da un lato, infatti, tra le materie citate ne sono ricomprese diverse relativamente alle quali la Corte richiede – come si è detto – una giustificazione particolarmente argomentata (si pensi ad es. ai rapporti internazionali, alle professioni ed al commercio con l’estero); d’altro lato, la Corte adotta una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione citata, affermando che anche le c.d. materie “no-lep” possono riguardare diritti civili e sociali, ed che se “lo Stato intende accogliere una richiesta regionale relativa a una funzione rientrante in una materia “no-LEP” e incidente su un diritto civile o sociale, occorrerà la previa determinazione del relativo LEP (e costo standard)” (punto 15.2 diritto).
Una seconda considerazione attiene alla possibilità che – anche all’indomani di future disposizioni legislative che facciano seguito alla decisione della Corte – il processo di differenziazione delle Regioni che avevano avviato le trattative possa procedere nei termini in cui era stato originariamente impostato.
Come si è visto, sul punto del “quanto” e del “cosa” si possa devolvere la sentenza della Corte procede per lo più attraverso dispositivi di natura “sostitutiva” e dunque – all’indomani del necessario intervento legislativo cui si è appena fatto cenno – astrattamente suscettibili di diretta applicazione, anche in assenza di interventi legislativi sul punto.
Tuttavia, l’opinione di chi scrive è nel senso di ritenere necessario che i negoziati tra Stato e Regioni, rispetto alle preintese già firmate nel 2018 ed alle bozze di intese messe a punto nel 2019 richiedano un mutamento significativo nel modo di condurre le trattative e verosimilmente anche negli esiti possibili di queste trattative, che non potranno non tenere conto dei test che la Corte ha mostrato di ritenere necessari perché ulteriori funzioni possano essere devolute alle Regioni ai sensi dell’art. 116, comma 3, Cost.
Se si scorrono i testi delle bozze di intese circolate nel 2019, si vede, come si è accennato, che le richieste delle Regioni erano orientate su linee sostanzialmente “massimaliste”, attraverso la richiesta della devoluzione di intere materie, e coinvolgevano tutte o quasi tutte le materie cui l’art. 116, comma 3, fa richiamo.
Sotto questo profilo le statuizioni della Corte circa la verifica dei presupposti che rendono possibile in concreto l’attivazione dell’art. 116, comma 3, Cost. renderanno necessario ripensare complessivamente i termini dei negoziati tra Stato e Regioni rispetto al modo in cui finora hanno avuto sviluppo.
In altri termini, l’inciso dell’art. 11 della legge (che pure la Corte non dichiara costituzionalmente illegittimo), secondo il quale “gli atti di iniziativa delle Regioni già presentati al Governo, di cui sia stato avviato il confronto prima dell’entrata in vigore della legge sono esaminati secondo quanto previsto dalle pertinenti disposizioni della presente legge”, acquista, dopo gli interventi della Corte che si è cercato di sintetizzare sommariamente, un “sapore” del tutto nuovo, e tale da far ritenere molto difficile – pur scontando tutte le incertezze che la attuale situazione presenta – che richieste “massimaliste”, che pretendevano di devolvere tutte le materie e le relative funzioni come blocchi unitari, abbiano i seguiti che le Regioni richiedenti hanno mostrato di perseguire. Ciò in quanto i trasferimenti concernenti le materie di cui all’art. 116, comma 3, Cost. dovranno essere il risultato di una attività istruttoria di puntuale e specifica giustificazione relativa ad ogni singola funzione di cui le Regioni richiedano la devoluzione.
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