Il futuro dell’Unione Europea tra competitività economica e sostenibilità sociale e politica

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di Eugenio Bruti Liberati

Università degli Studi del Piemonte Orientale

Anche se il dibattito politico-istituzionale europeo è oggi, per effetto delle iniziative assunte dalla presidenza Trump, inevitabilmente focalizzato sui temi della difesa comune, delle politiche commerciali e del rispetto dei principi dello Stato di diritto e del diritto internazionale, sarebbe un errore sottovalutare l’importanza che il ripensamento attualmente in corso in sede europea sul tema dei rapporti tra poteri pubblici e mercato è destinato ad assumere.

Tale ripensamento non riguarda infatti soltanto la dimensione economica delle politiche pubbliche europee, ma anche il progetto di società che l’Unione intende promuovere e le stesse possibilità di successo del disegno di integrazione europea.

Tra il 2019 e il 2024, sotto l’incalzare dell’emergenza climatica, della rivoluzione digitale e dell’inasprirsi delle tensioni geo-politiche, la Commissione e il legislatore europeo hanno modificato significativamente il modello di disciplina pubblica dei mercati che era stato prevalente anche in Europa a partire dagli anni Ottanta del Novecento.

Senza mettere in discussione il favore per le dinamiche concorrenziali e il rifiuto di paradigmi economici accentrati e pianificati, le istituzioni europee hanno pienamente riconosciuto la necessità di un ruolo di governo e di indirizzo pubblico dei mercati, adottando misure inequivocabilmente dirette ad orientare gli operatori economici verso scelte aziendali coerenti con gli obiettivi da esse determinati. Decarbonizzazione, digitalizzazione e autonomia strategica dell’industria europea: per indurre le imprese ad assumere decisioni di investimento e di mercato conformi a tali obiettivi sono state previste sia misure command and control sia incentivi e altri meccanismi di mercato.

Per quanto diversi aspetti di tale Green Industrial Policy europea potessero essere criticati, è tuttavia indubbio che essa abbia segnato una svolta rilevante nell’approccio europeo rispetto alla disciplina dei mercati, e in particolare abbia determinato una rottura significativa nei confronti del modello ordo-liberale a cui l’Unione si era a lungo, in larga misura, notoriamente attenuta (su tale svolta v., tra gli altri, G. AMATO, Bentornato Stato, ma, Il Mulino, Bologna, 2022; E. BRUTI LIBERATI, Industria, in Enc. Dir., I tematici, III, p. 654 ss.). Il paradigma dello Stato (solo o prevalentemente) regolatore è stato abbandonato e alle politiche dirette a tutelare, promuovere o “simulare” la concorrenza si sono affiancate politiche volte ad indirizzare finalisticamente le relative dinamiche verso esiti considerati socialmente apprezzabili.

Quanto fossero adeguati sul piano sociale tali esiti è oggettivamente discutibile, e si può anzi ragionevolmente affermare che l’attenzione riservata dalle istituzioni europee al tema della sostenibilità sociale delle (nuove) regole di mercato non fosse sufficiente. Non mancavano peraltro segnali incoraggianti (come quello costituito dalla direttiva (UE) n. 2024/1760, relativa al “dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità”) e, d’altra parte, il fatto in sé che si fosse tornati ad attribuire ai poteri pubblici un compito di governo ed indirizzo dei mercati, superando la fiducia – ingenua o interessata – nelle virtù auto-regolative dei medesimi, sembrava la premessa per interventi più robusti anche sul versante della coesione e della giustizia sociale.

Anche il dibattito sviluppatosi intorno al tema dei Beni Pubblici Europei e alla connessa questione della c.d. “capacità fiscale centrale” (v. al riguardo M. BUTI, M. MESSORI, Europa. Evitare il declino, Il Sole 24 ore, Milano, 2024) appariva denso di prospettive promettenti, non solo sotto il profilo del rafforzamento del ruolo dell’Unione ma anche rispetto all’incentivo a realizzare su scala europea interventi di carattere sociale.

Nel corso del 2024, e ancor più nella seconda metà dell’anno, dopo la presentazione del rapporto sul “Futuro della competitività europea” predisposto da Mario Draghi, la riflessione sulla nuova strategia industriale dell’Unione si è peraltro concentrata fondamentalmente sul tema dell’incremento della produttività e dell’efficienza del sistema economico europeo, e sui modi in cui avvicinarle ai livelli raggiunti da Stati Uniti e Cina.

Fermo restando che tale riflessione è in sé opportuna e anzi palesemente necessaria, e che è anche apprezzabile che la Commissione abbia immediatamente dato seguito alla stessa elaborando alcune prime ipotesi normative finalizzate al perseguimento di quell’obiettivo (v. al riguardo il c.d. Competitiveness Compass approvato dalla Commissione europea in data 29 gennaio 2025), la memoria di quanto accaduto nel recente passato, dominato o comunque ispirato dall’ideologia neo-liberale, non può non suggerire di considerare con cautela e preoccupazione l’enfasi che si è venuta così a porre sulla questione della competitività economica europea.

È bene al riguardo precisare che non s’intende qui condividere quelle letture radicali che contestano in termini assoluti la scelta dell’Unione di promuovere una maggiore efficienza del suo sistema economico attraverso l’ampliamento e la tutela di spazi rimessi all’operare di meccanismi concorrenziali e la fissazione di limiti puntuali agli interventi discrezionali dei poteri pubblici (v. in tal senso, recentemente, C. IANNELLO, Lo Stato del potere, Meltemi ed. 2025). In realtà, l’analisi puntuale dell’esperienza svoltasi in Italia e in Europa nell’ultima parte dei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale e anche la riflessione teorica condotta a partire da quell’esperienza mostrano con chiarezza quali conseguenze negative derivino dall’assenza di concorrenza e da interventi pubblici largamente sganciati da criteri di razionalità economica (v. riassuntivamente, al riguardo, C. DE VINCENTI, Per un governo che ami il mercato. Una certa idea di intervento pubblico, Il Mulino, 2024).

Ciò che in effetti gli 80 anni successivi alla Seconda guerra mondiale, con la loro alternanza di fasi di espansione e di contrazione dell’intervento pubblico, sembrano complessivamente suggerire è che occorre ricercare una combinazione equilibrata tra la funzione di efficienza del mercato e il ruolo di indirizzo politico e di regolazione delle istituzioni rappresentative, con la definizione di regole ed istituti volti a garantire una relazione corretta tra la sfera della politica e quella dell’economia, escludendo nettamente la subordinazione della prima alla seconda ma anche interventi arbitrari e sproporzionati sulle dinamiche concorrenziali.

Ciò chiarito, non si può tuttavia non segnalare il rischio che, sia pure muovendo da una valorizzazione del ruolo di guida e di governo dei poteri pubblici, si torni ora a commettere l’errore di assegnare un rilievo preminente all’obiettivo dell’efficienza economica, sacrificando o comunque comprimendo indebitamente altri interessi pubblici di importanza maggiore o equivalente. È tale errore che ha condotto nel nostro recente passato a fare della concorrenza un super-principio, prevalente su ogni altro valore (v. al riguardo F. TRIMARCHI BANFI, Il principio di concorrenza: proprietà e fondamento, in Diritto amministrativo, 2013, 15 ss.), e che potrebbe ora portare a considerare lo stimolo all’efficienza produttiva una priorità assoluta, non soggetta ad un vero bilanciamento con altri interessi e valori euro-unitari e costituzionali.

In tale prospettiva appare innanzitutto necessario evidenziare che, nel momento in cui si sottolinea l’esigenza di promuovere la produttività del sistema economico europeo e si propongono misure per avvicinarlo alle performances conseguite da Stati Uniti e Cina, i limiti che tali altri sistemi presentano sul piano della sostenibilità sociale e politica e, ancor più, i nessi tra tali limiti e quelle performances devono essere adeguatamente riconosciuti e considerati.

Non basta che la necessità di preservare il modello sociale europeo venga incidentalmente ribadita nei documenti che definiscono la nuova strategia industriale dell’Unione. Occorre invece che, nel disegno delle misure dirette ad attuare quella strategia, si tenga realmente e specificamente conto delle implicazioni sociali e politiche delle stesse (si veda in proposito quanto puntualmente osservato da K. AIGINGER, D. RODRIK, Rebirth of Industrial Policy and an Agenda for the XXI Century, in Journal of Industry, Competition and Trade, 2020, 20, p. 189 ss.) e che, accanto e insieme a tali misure, vengano proposti e sollecitamente definiti anche interventi finalizzati a difendere il modello europeo di società e di cittadinanza – quale emerge, tra l’altro, dagli artt. 2 e 3 del Trattato sull’Unione. E ciò a maggior ragione oggi, in presenza di programmi europei che prevedono di destinare ingenti risorse finanziarie alle politiche di difesa comune e di riarmo (il riferimento è qui ovviamente al ReArm Europe Plan/Readiness for 2030 presentato dalla Commissione).

Tre aspetti del problema meritano di essere particolarmente evidenziati.

Il primo attiene alla questione dell’innovazione tecnologica, su cui molto ha – ragionevolmente – insistito il Rapporto Draghi, evidenziando il gap al riguardo creatosi in questi anni negli investimenti e nelle dimensioni delle imprese americane ed europee.

È indubbio che misure volte ad eliminare o almeno a ridurre tale gap siano indispensabili. È invece del tutto opinabile che l’obiettivo delle stesse debba essere quello di dare vita a Big Tech private europee, di dimensioni equivalenti a quelle delle grandi imprese nordamericane e cinesi e dotate di analogo potere di mercato. Non è infatti possibile dimenticare – in nome, appunto, dell’obiettivo della competitività economica europea – quanto si è scritto in questi anni sui rischi per la democrazia economica e politica che derivano dall’esistenza di imprese private dotate di enormi poteri economici, mediatici e tecnologici (v. al riguardo i contributi pubblicati su Diritto Pubblico nei numeri 2/2021, 3/2021, 1/2023, nonché L. TORCHIA, Poteri pubblici e poteri privati nel mondo digitale, in Il Mulino, 2024, 14 ss.), e questo proprio mentre gli sviluppi intervenuti con la nuova presidenza Trump confermano quanto fossero fondate quelle preoccupazioni.

Favorire con misure di politica industriale e con un’appropriata applicazione delle regole antitrust la formazione di operatori europei, anche pubblici o pubblico-privati, che dispongano delle risorse finanziarie e tecniche necessarie per risultare competitivi nei settori strategici è possibile, se si accetta di non assolutizzare tale finalità, anche senza rinunciare a garantire adeguati livelli di pluralismo economico e ad introdurre o mantenere regolazioni volte a tutelare altri valori fondamentali (come ad esempio quelli inerenti alla fairness del dibattito pubblico).

Analoghe considerazioni valgono, d’altra parte, per il rapporto tra politiche dirette a promuovere la competitività e politiche di decarbonizzazione.

Sin qui le istituzioni europee hanno ribadito la loro volontà di proseguire nel percorso definito con il Green Deal europeo, sottolineando a più riprese che la competitività industriale e la decarbonizzazione devono essere perseguite insieme (si veda ad esempio, in proposito, il discorso di insediamento tenuto dalla Presidente Von del Leyen dinanzi al Parlamento europeo in data 18 luglio 2024). Tuttavia, il pericolo che nel nuovo e più difficile scenario geo-politico ed economico il secondo obiettivo venga sacrificato al primo, come avvenuto negli Stati Uniti, appare reale.

Non è il fatto in sé che talune normative europee particolarmente controverse, come quella relativa all’obbligatoria elettrificazione del settore dell’automotive, vengano eventualmente modificate a rappresentare un problema. Ciò che invece sarebbe inaccettabile è che, in nome dell’efficienza economica, venisse messa in discussione quella che, al di là delle singole normative recentemente introdotte, è stata la novità di fondo del Green Deal europeo, costituita dall’avere finalmente inteso la sostenibilità ambientale e climatica non più come un mero limite esterno ma come un criterio intrinseco e sostanziale per la definizione delle politiche pubbliche finalizzate allo sviluppo. Ciò implicherebbe un passo indietro decisivo nella lotta al cambiamento climatico e vanificherebbe lo sforzo operato in questi ultimi anni per affrontare più seriamente un’emergenza almeno altrettanto grave di quella economica.

Si pone infine, inevitabilmente, il tema del rapporto tra obiettivi di competitività economica e sostenibilità sociale. Tema ovviamente cruciale, su cui peraltro si fatica a trovare nei documenti europei considerazioni che vadano al di là di semplici rassicurazioni sulla volontà di mantenere gli attuali livelli di welfare e di protezione sociale e sulla necessità di promuovere la produttività del sistema economico europeo anche per garantire tale mantenimento.

Non sembra che tali rassicurazioni possano essere considerate sufficienti: non solo perché l’esempio americano, nella lunga stagione avviatasi con la presidenza Reagan, è lì a mostrare con la massima evidenza quanto lontano ci si può spingere nel comprimere gli istituti di protezione e promozione sociale allo scopo di promuovere il dinamismo economico e l’efficienza competitiva, ma anche perché si dovrebbe in realtà riconoscere che, pur nella notevole differenza delle situazioni, anche in Europa vi è già oggi l’esigenza di rafforzare e non solo di mantenere e difendere quegli istituti (v. al riguardo F. MERLONI, Diritti e pubbliche amministrazioni nell’austerità liberista, ES, 2025).

Se c’è un elemento che accomuna le assai diverse società civili europee, ivi incluse le ricche ed austere società del centro e nord Europa, è la paura e l’insicurezza sulle conseguenze della competizione internazionale favorita dai processi di globalizzazione.

Pensare di curare tale paura ed insicurezza, che alimenta i movimenti populisti ed illiberali che ovunque in Europa stanno mettendo in pericolo Stato di diritto e democrazia, solo o principalmente con misure volte ad incrementare i livelli di competitività delle imprese europee – cioè con un approccio sostanzialmente tecnocratico – appare illusorio.

Di quelle paure occorre farsi più consapevolmente carico, con misure concrete e misure simboliche, che mirino a ricostruire quel tessuto sociale che si è in questi anni lacerato e che, intrecciandosi con gli interventi finalizzati a promuovere la competitività, diano con chiarezza il senso dei vantaggi materiali e non materiali che derivano dall’appartenenza alla comunità dei cittadini europei. Un grande rapporto sulla solidarietà e coesione sociale europea, commissionato dalla Commissione, a cui dare la stessa importanza e priorità che si è ritenuto di assegnare al rapporto Draghi, potrebbe essere utile.

Non si vuole qui essere troppo enfatici, né sottovalutare la complessità delle ragioni che hanno determinato l’attuale crisi dei sistemi democratici in Europa e nel mondo. E tuttavia, se si considera l’importanza che la questione dell’insicurezza sociale ed economica – reale o percepita – assume oggi nel motivare le scelte degli elettori europei, non è forse esagerato ritenere che l’assenza di puntuali iniziative al riguardo da parte delle istituzioni europee potrà assumere un rilievo considerevole nel definire le sorti non solo del progetto di integrazione, ma anche di molte delle democrazie europee.

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