Dalla libertà alla funzione della ricerca
di Leonardo Ferrara
Università degli Studi di Firenze
L’università sta vivendo una fase di grandi cambiamenti, sulla cui portata e direzione è necessario interrogarsi. Tra questi cambiamenti mi sembra si inscriva la progressiva erosione della libertà della ricerca.
Di questa erosione si può trovare certamente una causa nel processo di burocratizzazione che stanno vivendo gli accademici. Non è però su questo processo, sul quale Chiara Tripodina ha scritto bellissime pagine sul numero 1 del 2025 di Diritto pubblico, che voglio soffermarmi. È indubbio che la burocratizzazione deprima l’attività didattica e di ricerca dei docenti (il pedagogista brasiliano Paulo Freire direbbe che ne burocratizza la mente): semmai, andrebbe aggiunto che deprime anche, come ha notato Barbero, il lavoro degli amministrativi, che potrebbero fare con maggiori competenze molte delle attività affidate ai primi. La burocratizzazione, inoltre, va di pari passo con il metro con cui si stanno costruendo le carriere accademiche: abbiamo sempre considerato poco la didattica; e zero la capacità di insegnare; abbiamo trasformato la qualità della ricerca in quantità della ricerca; stiamo ora per l’appunto affiancando alla quantità della ricerca la quantità degli incarichi burocratici. Questi incarichi non solo rilevano direttamente agli effetti della valutazione del curriculum vitae ma incidono anche in modo questa volta indiretto e fattuale sulle scelte di programmazione del personale accademico. Difficile dire però se gli incarichi siano più delle corvée o delle posizioni di potere, e non invece manifestazioni di uno spirito di servizio. E parlando di servizio comincio ad avvicinarmi a quello che ho in mente.
La questione che voglio affrontare è la compromissione della libertà scientifica nascente da numerosi altri fattori, che provo a elencare, meglio, a esemplificare, senza nessuna pretesa di completezza. Avverto che è proprio la loro considerazione congiunta che fa emergere la sensazione che la libertà di scienza sia erosa, se non proprio compromessa.
Aggiungo per chiarezza che, se la libertà di cui all’art. 33, comma 1, Cost., è una libertà “che riguarda tanto la scelta dell’oggetto, quanto quella del metodo, tanto il diritto ad avere mezzi sufficienti a svolgerla, quanto il diritto a pubblicarne e trasferirne i risultati” (F. Merloni, Autonomie e libertà nel sistema della ricerca scientifica, Milano, 1990, p. 4), è ai primi di questi aspetti che intendo riferirmi.
Vediamo allora quali sono i fattori che appaiono rilevanti (o, come detto, vediamone alcuni):
a) La strumentalizzazione della ricerca a fini di sovvenzionamento.
Si pensi alla rincorsa alla seduttività dei progetti di ricerca affinché i progetti medesimi siano finanziabili. Si pensi al legame tra finanziamento, in particolare quello dell’Agenzia nazionale della ricerca, e produttività o competitività del Paese. Oltretutto a questo proposito andrebbe considerato, che “non ha prevalso […] quell’orientamento secondo il quale sarebbe stata consigliabile una istituzione dell’ANR quale autorità indipendente [anziché per l’appunto un’agenzia, vigilata e indirizzata dalla presidenza del Consiglio], con il compito di salvaguardare la libertà della scienza e garantire l’autonomia della ricerca scientifica” (A. Sandulli, L’Agenzia nazionale della Ricerca: un pasticcio italiano, in Giorn. dir. amm., 2020, 165 ss.). Si pensi ancora alla necessità di adozione di linee di ricerca secondo la programmazione triennale imposta dalla legge n. 43 del 2005 (richiamata dall’art. 2 della legge n. 240 del 2010) della quale “si tiene conto nella ripartizione del fondo per il finanziamento ordinario delle università” (art. 1 ter).
b) In stretta connessione al punto precedente, la sottoposizione delle linee di ricerca (o almeno la loro coerenza rispetto) alle “linee generali d’indirizzo definite con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca”, seppure “sentiti la Conferenza dei rettori delle università italiane, il Consiglio universitario nazionale e il Consiglio nazionale degli studenti universitari” (linee generali d’indirizzo definite con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca risalgono a un decreto del giugno scorso). Si badi: non sto parlando di un vero e proprio vulnus alla libertà di ricerca; non sto disconoscendo la finanziabilità di progetti e obiettivi specifici, che affiancano il prevalente finanziamento “delle attività di ricerca libera e di base degli Atenei” (come lo chiama anche l’art. 4 del suddetto decreto). In fondo, nemmeno sto ragionando sulla falsariga di chi ritiene che “l’intervento pubblico non è […] privo di insidie per l’autonomia della ricerca [esistendo] il concreto pericolo che le sovvenzioni concesse ai privati o ad enti pubblici vadano a premiare – esclusivamente o in prevalenza – le ricerche scientifiche maggiormente affini alle opzioni ideologiche delle forze di governo, traducendosi in una sorta di censura informale e sotterranea, ma non meno infida di quella apertamente praticata” (M. Ainis, Cultura e politica. Il modello costituzionale, Padova, 1991, p. 26). Sto, invece, parlando della forza congiunta di più fattori e sto al tempo stesso riproponendo quanto Pericu ci ha insegnato moltissimi anni fa, cioè, che le sovvenzioni sono “uno strumento di azione amministrativa” (G. Pericu, Le sovvenzioni come strumento di azione amministrativa, Milano, 1971). Il discorso si farà più chiaro alla fine di questa elencazione.
c) Il condizionamento esercitato dai meccanismi di valutazione.
Si pensi alla classificazione delle riviste e si consideri l’influenza negativa esercitata dalla predeterminazione della loro qualità. Si può, poi, individuare la qualità a monte, irregimentandola in rigidi parametri, anziché rimetterla a una valutazione a valle, che per l’appunto salvaguardia la libertà e responsabilità delle scelte della direzione scientifica? Si pensi all’imbrigliamento della ricerca nei numeri e nelle sedi di pubblicazione rilevanti ai fini della valutazione delle c.d. mediane (ne aveva parlato diffusamente Antonio Banfi all’incontro in Bicocca in ricordo di Carla Barbati). I controlli sull’adeguatezza dell’attività e la misurazione della c.d. qualità della ricerca (la misurazione anonima dei risultati scientifici), è stato detto, hanno sottoposto il ruolo dei docenti universitari “a un’azione efficientista che, talvolta, sembra in grado di imbrigliare un’attività, per definizione, libera nell’oggetto e nella sua soggettiva conduzione” (Castorina, Lo status dei docenti universitari, in osservatorioaic.it, 2021). Non si può sottacere che oggi le mediane (due monografie in 15 anni) condizionano in modo del tutto distorto anche la valutazione dei dottorati. Si pensi ancora, nello stesso ordine di idee, alla cattura dei generi letterari (la necessità della monografia, la non valutabilità della recensione, ecc.).
d) Il calcolo dell’“eccellenza”, che, come ha sostenuto Oliver Roy, nel suo interessantissimo libro L’appiattimento del mondo (Milano, 2024), distrugge la cultura in quanto la “codifica”, la trasforma, cioè, in una “taratura dei comportamenti stabilita attraverso un vago e confuso riferimento a obiettivi normativi”.
e) La tendenza alla liceizzazione dovuta, citando ancora Castorina, a una “malintesa autonomia universitaria”.
Di questa liceizzazione si potrebbero fare tanti esempi ma uno significativo dal punto di vista in esame è la costante ricerca della uniformità: le università che negli insegnamenti istituzionali dividono gli studenti in lettere richiedono spesso l’adozione dello stesso manuale, dello stesso programma e così via dicendo, sacrificando la libertà del docente di tagliare il corso a partire dai propri interessi di ricerca (ma sacrificando anche la scelta dello studente).
f) Lo svilimento della ricerca (qualcuno obietterà: di un’idea romantica della ricerca; sì, è vero, ma al tempo stesso autentica) nel momento in cui a partire dalla legge n. 240 si è precarizzata la figura del ricercatore, rendendolo schiavo del raggiungimento degli obiettivi imposti dalla necessità di carriera.
g) Il condizionamento esercitato sulla carriera e sugli studi dai settori scientifico-disciplinari, su cui si è soffermato Stefano Civitarese.
h) La rincorsa alla specializzazione degli studi o dei percorsi universitari in funzione dell’esigenze del mercato del lavoro.
Quindi, la tendenza crescente ad allineare i programmi formativi (e anche le metodiche di insegnamento) al servizio di placement (in che indirettamente condiziona la ricerca, dato il suo indiscusso legame con la didattica a livello universitario).
Volendo a questo punto fare una riflessione di carattere generale, la sensazione è che per la ricerca stia accadendo quello che è esplicitamente avvenuto per lo sport, di cui, sotto lo stesso cappello dell’art. 33 Cost., si è introdotta nel 2023 una funzionalizzazione (“La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme”). Lo sport, però, non è questo o quel “valore” (o ‘disvalore’); non è salute, educazione, cultura, rito, gioco, performance, spettacolo, intrattenimento, perdita di tempo e via dicendo. Non lo si definisce attraverso i valori o le funzioni che gli si attribuiscono, oltretutto con un’operazione selettiva necessariamente parziale. Lo sport è conferimento, innanzitutto individuale, di un orizzonte di esperienza e di significato; è un modo di vivere. Quindi, in termini normativi si inscrive essenzialmente nell’esercizio di una libertà; è una libertà.
La sensazione allora è che anche per la ricerca si vada smarrendo che si è di fronte, kantianamente, a un “fine in sé”. La ricerca non serve a questo o a quest’altro obiettivo (“un’università che serve rischia di essere un’università serva, ha avvertito T. Montanari, Libera università, Torino, 2025). Il comma 1 dell’art. 33 è chiaro e potente: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. La ricerca è una libertà (ancora, individuale, non dell’istituzione, per usare l’espressione di Barbara Gagliardi). Punto. Non solo non si immedesima in specifici valori ma nel suo nucleo non può nemmeno essere bilanciata con altri valori (ancora Montanari).
Lo aveva già detto magnificamente Andrea Orsi Battaglini. Esiste “una netta distinzione, tra libertà scientifica e altri valori, interessi o beni: carattere, funzione, fine della libertà di ricerca scientifica non sono né il progresso né lo sviluppo economico, non sono le singole utilità sociali volta per volta implicate, non è l’insegnamento né la conservazione di saperi affidabili, né la credibilità degli esperti. Questi ed altri interessi possono essere oggetto di altre previsioni costituzionali che potranno volta per volta confliggere con la libertà scientifica e questa si atteggerà in ogni tipo di rapporto o mediazione con essi con una sua specifica, forte, e ristretta identità, come altro da essi” (A. Orsi Battaglini, Libertà scientifica, libertà accademica e valori costituzionali, in Nuove dimensioni nei diritti di libertà. Scritti in onore di Paolo Barile, Padova, 1990, p. 97).
Credo, concludendo, sia utile non rimanere silenti ed esprimere invece preoccupazione per la facilità con cui acconsentiamo all’estensione di questo processo di trasformazione che ho raccontato (e che, peraltro, è parte di un processo molto più ampio, sul quale si auspica che altri interverranno in questo blog).
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