A cosa serve il premierato

di Giovanni Di Cosimo

Università di Macerata

1. Nuovo modello o perfezionamento di quello attuale?

Per capire meglio il significato del cosiddetto premierato, approvato in prima lettura al Senato, conviene tornare sugli scopi della riforma. L’esempio della riduzione del numero dei parlamentari, motivata fra l’altro con la necessità di migliorare il processo decisionale delle Camere, obiettivo che a distanza di quasi due anni dall’inizio della legislatura sembra ben lungi dall’essere conseguito, mostra l’importanza di fare chiarezza sugli scopi delle riforme istituzionali.

Il premierato proposto dal governo Meloni è una riforma assai ambiziosa. Le modifiche si concentrano in particolare sugli articoli 92 e 94 Costituzione che costituiscono il cuore del governo parlamentare. Il governo propone un modello ibrido che, come ha notato Enzo Cheli, tiene insieme princìpi eterogenei. Da un lato, resta la fiducia, ossia il congegno fondamentale del governo parlamentare, ma viene svuotata di significato; dall’altro, l’elezione diretta non viene accompagnata dal rafforzamento del principio di separazione dei poteri e dai checks and balances tipici del governo presidenziale.

Malgrado che la relazione al disegno di legge costituzionale parli di un criterio di modifica “minimale”, l’impatto sulla forma di governo appare profondo, proprio perché si mette mano ai meccanismi cruciali del governo parlamentare che quelle disposizioni disciplinano. La relazione presuppone nondimeno la permanenza dell’attuale assetto dei poteri, dato che indica l’obiettivo di risolvere alcune disfunzioni del governo parlamentare emerse nella prassi. Ma una considerazione complessiva, che tenga conto dell’elezione diretta in collegamento con altri aspetti come, in particolare, il premio di maggioranza assegnato senza soglia minima, mostra che il governo parlamentare viene stravolto e lascia il campo a qualcosa di notevolmente diverso.

Intendiamoci, si resta nell’ambito della fisiologica revisione costituzionale; la forma di governo può ben essere messa in discussione, come ha ricordato recentemente il Presidente della Corte costituzionale. Ma forse sarebbe opportuno chiamare le cose col loro nome, senza sottacere la misura del cambiamento istituzionale.

2. Governabilità

Tornando al testo della relazione, la prima disfunzione che indica è l’instabilità dei governi. Lo stesso titolo del disegno di legge costituzionale parla di “rafforzamento della stabilità del Governo”. Tutto nasce dalla convinzione, non priva di fondamento, che il numero elevato degli esecutivi succedutisi nella storia repubblicana abbia ostacolato l’adozione di politiche di lungo periodo necessarie per aggredire i problemi strutturali del Paese. Oltretutto, non è la prima volta che il sistema politico cerca di modificare la Costituzione in nome della stabilità governativa, basta pensare alle riforme Berlusconi e Renzi respinte dal corpo elettorale nei referendum del 2006 e del 2016.

La relazione cita anche la governabilità. Il problema è che il concetto non è chiarissimo. Se ipotizziamo che implichi capacità di realizzare politiche di lungo periodo, non sembra che il premierato di per sé solo assicuri il risultato (considerazione che vale per qualsiasi forma di governo). Contano infatti anche la capacità e la visione della classe politica (v. nel blog Frosini). Di più, l’esperienza repubblicana insegna che la responsabilità maggiore è proprio della politica. La governabilità, intesa come capacità di realizzare politiche lungimiranti, è destinata a restare una chimera se i partiti mancano di adeguata cultura politica e capacità progettuale. È illusorio pensare che il solo fatto di cambiare l’architettura istituzionale, sostituendo il governo parlamentare col premierato, consenta miracolosamente di realizzare politiche efficaci e lungimiranti.

Il dubbio sulla capacità del premierato di assicurare politiche di lungo periodo resta se aggiungiamo alla definizione un altro fattore, intendendo che la governabilità richiede altresì la permanenza della medesima coalizione partitica nella legislatura. Meglio, il dubbio si aggrava perché la riforma porta in pancia l’incoerenza del possibile mutamento della maggioranza, nel caso in cui il presidente dimissionario nel secondo mandato imbarchi un nuovo partito.

Fra l’altro, questo spiega perché il premierato non risolverebbe neanche la seconda disfunzione indicata nella relazione al disegno di legge costituzionale, l’eterogeneità e volatilità delle maggioranze. Conclusioni analoghe valgono per la terza disfunzione, il trasformismo parlamentare, dato che la riforma non prevede nulla che permetta di contenere questo fenomeno, la cui radice affonda nella cultura politica e nella prassi partitica (il che riporta al punto nodale della cultura politica).

E allora, la questione vera è capire se l’abbinata fra elezione diretta e premio di maggioranza favorisca meglio dell’attuale governo parlamentare l’adozione di politiche di lungo periodo. A quel che mi risulta, non vi sono dati a sostegno di questa tesi; al contrario, la lunga esperienza di altri Paesi mostra come il governo parlamentare non impedisca affatto di affrontare i problemi strutturali sul tappeto.

Va aggiunto, e non è poco, che la scelta di perseguire la governabilità a mezzo del premierato comporta un prezzo alto sul piano dell’equilibrio dei poteri (v. nel blog Francesco Bilancia). Da un lato, un’ulteriore mortificazione del Parlamento, destinato ad andare al rimorchio del capo del governo e, dall’altro, un ridimensionamento del Presidente della Repubblica i cui margini di manovra nella gestione delle crisi di governo si riducono drasticamente, basta pensare che non si potrà più ricorrere a governi tecnici, che sono la soluzione istituzionale sperimentata nel nostro Paese nei casi di stallo dei partiti.

3. Checks and balances

Viene da chiedersi per quale ragione il governo abbia optato per il premierato, che, come s’è visto, non risolverebbe le disfunzioni che il medesimo governo indica. Perché non abbia piuttosto scelto il presidenzialismo, che costituisce un modello lungamente sperimentato nelle liberal democrazie, e che la maggioranza ha sottoposto agli elettori in campagna elettorale.

Possiamo suppore che un peso l’abbia avuto la consapevolezza che il premio di maggioranza senza soglia minima consente di conquistare agevolmente le istituzioni di garanzia. Un premio così congegnato, la cui misura viene rimessa alla legge ordinaria che la maggioranza parlamentare può approvare con le sue sole forze, avrebbe effetti rilevanti sugli equilibri del sistema costituzionale. In particolare, consentirebbe di eleggere il Capo dello Stato a partiti (in ipotesi anche uno solo) rappresentativi di una minoranza del corpo elettorale che, grazie al premio, disporrebbero della maggioranza assoluta necessaria. La riforma stabilisce un piccolo correttivo, dato che sposta tale quorum dal quarto al settimo scrutinio (nelle votazioni precedenti serve la maggioranza dei due terzi). Ma lo slittamento non cambierebbe sostanzialmente la situazione, basterà attendere qualche votazione in più.

Sarebbe piuttosto necessario innalzare il quorum per essere eletti alla carica, allo scopo di evitare che il Capo dello Stato diventi il braccio armato della maggioranza, perdendo l’attuale ruolo di garanzia. Stesso discorso per gli altri quorum previsti dal testo costituzionale. Per esempio, la soglia per l’elezione parlamentare dei giudici costituzionali (tre quinti del Parlamento in seduta comune a partire dal quarto scrutinio), benché più alta di quella per l’elezione del Capo dello Stato, non mette al sicuro la Corte costituzionale dalla (prevedibile) ingordigia della maggioranza: tutto dipenderà dall’entità del premio. Il discorso vale pure per il procedimento di revisione costituzionale: laddove la legge assegnasse un premio molto consistente, ipotesi che non si può escludere a priori malgrado le indicazioni della giurisprudenza costituzionale, la maggioranza parlamentare potrebbe decidere da sola, raggiungendo i due terzi sufficienti per modificare il testo. Va aggiunto che la logica del riequilibrio tocca anche altri punti del sistema istituzionali. Contrappesi andrebbero cercati, solo per fare due esempi, nella definizione dei diritti della minoranza parlamentare (statuto delle opposizioni) e nella riforma di istituti, come la fiducia e i maxiemendamenti, che nella prassi hanno contribuito alla grave deformazione del governo parlamentare, favorendo lo strapotere del Governo sul Parlamento.

Insomma, l’impressione è che si tenti la via dell’alleggerimento dei contrappesi, che al presidente eletto lascerebbe ampi margini di manovra per perseguire politiche lungimiranti. Conferma ne sia che la relazione al disegno di legge invoca la democrazia di investitura, un modello che implica una riduzione dei contrappesi che, ecco il punto, è difficilmente compatibile con la rigida separazione dei poteri posta alla base del governo presidenziale. Soprattutto, un simile disegno è contraddittorio con l’orizzonte del costituzionalismo liberale, fondato sull’idea che il potere debba essere bilanciato e controllato (v. nel blog Camilla Buzzacchi).