A margine del post di Edoardo Chiti. La tutela europea degli ecosistemi e le prospettive per il governo del territorio italiano

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di Marzia De Donno

1. Il post di E. Chiti mette in evidenza, su tutti, un punto essenziale. E cioè che il processo di transizione ecologica avviato dall’UE a partire dagli anni 2019-2020 è – e deve essere – solo il primo step di un processo regolatorio di tipo trasformativo che deve farsi nei prossimi mesi (e anni) sempre più ambizioso e pregnante, al fine di traguardare in maniera efficace l’orizzonte temporale del 2050.

L’analisi dei punti di forza e di debolezza dell’attuale sistema (giuridico) di tutela europea degli ecosistemi va tutta in questa direzione. Ed è da condividere, pienamente.

Tra i punti di forza vengono annoverati: l’introduzione di obiettivi di natura ecologica, la considerazione (finalmente) unitaria e composita della “natura europea”, la riscoperta della pianificazione nazionale.

Tra i punti di debolezza si considerano: a livello normativo, la mancanza di una piena formalizzazione di principi di matrice ecologica, che entrano nel quadro regolatorio europeo alla stregua di indicatori, non sempre pienamente recepiti dai piani nazionali; e, quindi, sul piano amministrativo, la proliferazione degli stessi piani nazionali, non in grado, per come attualmente disciplinati, di dialogare tra loro (e con i piani degli altri Stati membri) e di integrarsi nelle rispettive previsioni.

Tra le proposte figura quindi: la necessità di fare un uso più preciso degli indicatori, di introdurre principi ecologici e, quindi, di irrobustire il disegno organizzativo e procedurale, puntando su un più efficace sistema di monitoraggio dei suoli e, quindi, sul coordinamento e l’integrazione del nuovo sistema pianificatorio, anche attraverso un ripensamento delle strutture nazionali competenti.

2. Seguendo l’ordine di trattazione dell’Autore, si potrebbero aggiungere, a margine, alcune considerazioni ulteriori.

Guardando infatti alla proposta di revisione dei Trattati, e poi, ai due testi attualmente in discussione in materia di ripristino della natura e sul monitoraggio dei suoli (c.d. Nature Restoration Law e Soil Monitoring Law), tra i punti di forza si potrebbe forse mettere in evidenza anche una recentissima volontà dell’UE – non ancora del tutto esplicitata – di andare persino oltre la “mera” concezione unitaria di suolo, di superficie o di natura europee (per come sin qui declinate, soprattutto, nella Strategia per il suolo per il 2030).

La proposta di revisione dei Trattati approvata dal Parlamento sul finire del 2023, e, in particolare, la modifica dell’art. 192 TFUE, specie se letta alla luce delle due proposte di regolamento e di direttiva ora richiamate, sembra esprimere l’intenzione della stessa UE di farsi addirittura legislatore del “territorio europeo”, scardinando le categorie tradizionali del diritto pubblico, ma, in fondo, seguendo un processo trasformativo già da tempo registrato in dottrina (si veda, fra gli altri, C. Salazar, Territorio, confini, “spazio”: coordinate per una mappatura essenziale, in Rivista AIC, 3, 2017).

D’altronde, a ben riflettere, proprio quelle modifiche potrebbero portare l’Unione ad andare oltre le stesse attuali competenze in materia di tutela dell’ambiente, e persino a condividere con gli Stati membri una materia strategica per la tutela degli ecosistemi come il governo del territorio, rimasta, sino ad ora, di pressoché esclusiva pertinenza di questi ultimi. E sarebbe questo, se realizzato, un ulteriore avanzamento proprio nella direzione di quella regolazione trasformativa sull’uso dei suoli (e dei territori) ispirata, guidata e sorretta da principi ecologici, ancora tutti da definire.

D’altra parte, già le due proposte normative attualmente in discussione mettono in evidenza non solo quanto lo stesso governo del territorio sia divenuto un tema centrale e determinante per la transizione ecologica, ma anche quanto l’Unione intenda ormai legiferare direttamente anche su questa materia.

Si pensi, certamente, al (nuovo) tentativo dell’UE – contenuto nella proposta di Direttiva sul monitoraggio dei suoli – di “controllare” (non escludere) il consumo di nuovo suolo.

Ma si pensi, soprattutto, alla disciplina sul ripristino degli ecosistemi urbani contenuta nella proposta di Regolamento e all’impatto che essa potrà avere sulla pianificazione urbanistica e sulla regolazione edilizia. E, in fondo, anche agli obblighi di conservazione e ripristino degli altri ecosistemi (agricoli, marini, costieri, fluviali e forestali) presi in considerazione dal Regolamento, specie quando questi sono limitrofi agli stessi confini antropici delle città. Sono proprio questi ultimi obblighi, se rispettati e intelligentemente attuati dalle amministrazioni (nazionali e territoriali), che potrebbero ambire a diventare la nuova barriera – fisica, naturale e giuridica – allo sprawl urbano.

Per quanto riguarda invece i punti di debolezza, ci si potrebbe limitare a considerare la situazione interna.

Com’è noto, giacciono attualmente in Parlamento nuovi disegni di legge in materia di governo del territorio, rigenerazione urbana e contenimento del consumo di suolo. Una proposta è stata licenziata in questi mesi anche dall’INU. Auspicando il buon esito dei lavori parlamentari, attualmente non si può che porre un caveat ulteriore.

Dinanzi, infatti, alla proliferazione di nuovi atti di pianificazione richiesti allo Stato dall’Unione – si pensi al PNIEC, al Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, al Piano per la transizione ecologica, alla Strategia forestale nazionale, e, da ultimo, al Piano di ripristino – l’ulteriore rischio che si intravede è quello di un ispessimento amministrativo delle competenze statali di riflesso anche nella materia del governo del territorio, tramite, in particolare, una verticalizzazione dei poteri di pianificazione dello Stato, non sempre predisposto, come noto, a cooperare e ad accordarsi con Regioni ed enti locali su questioni di competenza comune.

A fronte di una scelta – s’intenda – del tutto condivisibile di ripristinare gli “antichi” poteri statali di indirizzo e coordinamento, programmazione e pianificazione dello Stato, in cui è l’Unione stessa (com’è già successo con i PNRR) a richiedere uno sforzo di collaborazione con gli altri enti territoriali, il rischio è che proprio l’attuale assenza di un’adeguata e aggiornata cornice legislativa a livello statale e l’incertezza giuridica che ne deriva inducano lo Stato stesso – e, in particolare, l’Esecutivo – a ricercare nell’(apparente) unilateralità di questi piani una soluzione per dettare misure generali che non trovano approdo a livello legislativo. Per evitare questo rischio basterebbe allora recuperare il modello dell’art. 52 del d.lgs. n. 112/1998, che, come noto, richiedeva per l’esercizio dei poteri statali sull’assetto del territorio nazionale il raggiungimento di intese – si noti – in Conferenza unificata.

3. Insomma, e per concludere sulle proposte.

I principi ecologici dovranno, senza timori, essere individuati dall’UE, ma il Parlamento italiano, nel frattempo, tenga conto del mutamento di scenario in corso ora che è di nuovo al centro del dibattito politico-istituzionale l’individuazione – da troppo tempo attesa – di principi fondamentali in materia del governo del territorio. Dopo gli oltre settanta tentativi falliti di riformare la Legge urbanistica fondamentale, servono principi aggiornati e adeguati ai nuovi interessi pubblici emergenti: del resto, la stessa formazione dei principi generali dell’UE richiede di attingere, sin dalla sentenza Algera, alle tradizioni giuridiche nazionali.

Lo Stato italiano, perciò, torni ad essere legislatore, non si accontenti di un ruolo – disorganico, debole e frammentato – di pianificatore: altri partner europei (come la Francia o la Spagna) si sono già mossi in questa direzione.

Infine, l’utile ritorno sulla scena – grazie al nuovo quadro europeo – della pianificazione e (forse) dell’urbanistica nazionale non si risolva nel consueto movimento centripeto, che normalmente (e storicamente) lo Stato italiano affianca al processo di integrazione europea: ne riceverebbero un pregiudizio non solo le competenze di Regioni ed enti locali, presidi sui e dei territori, ma soprattutto e in definitiva le persone che su di essi vivono e risiedono.

Ne va della tutela degli ecosistemi e della vita delle generazioni presenti e future. Al di fuori di ogni retorica o esercizio di autoinganno.

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