Abuso di ufficio ultimo atto. Una abolitio criminis per limitare i processi, non gli illeciti
di Massimo Donini
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
La l. 9 agosto 2024, n. 114, tra i principali contenuti normativi, ha introdotto l’abrogazione del delitto di abuso di ufficio (art. 323 c.p.): norma cambiata varie volte dopo l’entrata in vigore con il codice penale del 1930, e sempre in chiave restrittiva. L’ultima modifica (d.l. 16 luglio 2020, n. 76) aveva limitato l’ambito di applicazione del reato, fra l’altro, alla violazione di regole di legge “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Poiché la maggior parte degli abusi si commettevano, logicamente, mediante atti discrezionali, i più difficili da scoprire e i più facili da occultare e dissimulare, la predetta riforma del 2020 aveva determinato una riduzione assai rilevante delle ipotesi perseguibili. I soggetti attivi di questo reato erano tutti i pubblici ufficiali, forse un milione di persone, mentre i sindaci, categoria privilegiata dalla pubblicità governativa abolizionista perché asseritamente bloccati da una paura della firma di provvedimenti potenzialmente suscettibili di denuncia da parte dei privati, sono circa ottomila persone.
Le denunce, tuttavia, non sono diminuite in modo significativo dopo le precedenti riforme, perché i privati non ricevono una tutela adeguata dai ricorsi amministrativi, che non sostituiscono il provvedimento illegittimo, e che hanno come base di verifica giurisdizionale non i motivi e gli scopi illegittimi perseguiti dai soggetti pubblici, ma figure oggettive di violazione di legge, incompetenza o di sviamento di potere. Censure amministrative, che non riescono a catturare le condotte illecite se non nei limiti di quelle violazioni del tutto cartolari, diremmo quasi carenti di sostanza umanistica.
Le riforme intervenute sul codice del processo amministrativo non hanno veramente inciso sulla prassi dei Tar. Occorre aver ben presente quella che è la realtà applicativa di queste norme, appiattita su una tradizione cartolare e oggettivistica condizionata da due limiti normativi insuperabili: 1) al Tar e al Cds non si discute veramente delle intenzioni illecite e prevaricatrici di un p.u. che sono eccentriche rispetto alla illegittimità dell’atto amministrativo, sia pur affetto da sviamento di potere o violazione di legge; 2) non è possibile sentire testimoni (mezzo di prova inammissibile) per dimostrare le finalità illecite di privilegiare un soggetto diverso o di danneggiare qualcuno. Occorre quindi trovare la figura tipica di una violazione obiettiva risultante per tabulas, e che non coincide mai con la figura tipica di un reato. Illiceità vs. illegittimità. I margini per sfuggire all’annullamento dell’atto sono pertanto assai ampi se ci si basa su aspetti soggettivi di scopi, intenzioni, vantaggi o addirittura moventi che hanno sorretto la condotta penalmente tipica di un singolo soggetto indagato.
E del resto, anche salendo nel grado di gravità dei fatti, quanti processi per corruzione sono compatibili con la presenza di atti amministrativi legittimi? La corruzione neppure suppone un atto amministrativo illegittimo nella sua tipicità penale. L’abuso di ufficio, invece, almeno era fondato su violazione di specifiche disposizioni di legge o di divieti di astensione: ma non in relazione alle finalità di vantaggio o di danno di terzi, che non definiscono l’area di illegittimità amministrativa.
Ecco perché la ricerca di una tutela giurisdizionale amministrativa capace di sostituirsi a quella penale non è mai stata davvero premiante o risolutiva.
Ed è qui che si registra una più che sospetta violazione del principio di sussidiarietà penale, vale a dire la mancata verifica della tenuta della prevenzione generale in caso di abolitio: perché noi potremmo abolire molti più reati, se avessimo una garanzia di proteggere comunque i diritti fondamentali. Ma se tali diritti rimangono sguarniti di adeguata tutela, in caso di abrogazione, l’atto legislativo ne rimane inficiato soprattutto di fronte agli obblighi di protezione sovranazionali e nel nostro caso europei. È una incongruità derivata e specifica, non astratta, non per “titoli di reato”.
Sennonché i profili di illegittimità costituzionale solo in spazi marginali si espongono a un sindacato che si addentri nelle prassi, perché tale sindacato rimane normativistico, e opera sulle regole. Non solo. Tutte le eccezioni di illegittimità costituzionale attualmente sollevate da vari tribunali in relazione alla Convenzione di Merida non avrebbero pregio se ci si limitasse a eccepire che il reato di abuso di ufficio quale figura generale e residuale, accanto a tanti altri abusi tipizzati, non dovrebbe essere eliminato perché previsto come fattispecie consigliata (non imposta) dalla Convenzione. In realtà, questa fattispecie generale non esiste più da tempo per esempio in Germania, dove ce ne sono altre (la Rechtsbeugung, distorsione o perversione del diritto, da parte del magistrato, § 339 del codice penale, e la violenza aggravata dall’abuso di poteri del p.u., che non è più, in questa forma, violenza “privata”, ma pubblica, § 240, co. 4, n. 2 del codice) ed è diverso pure il sistema di tutela giurisdizionale di fronte al giudice amministrativo. Dunque, l’abolizione di una figura generale residuale e sussidiaria non è un tabù, rientrando nelle linee politiche di un diritto sempre più selezionato su illeciti tipizzati. Ma l’art. 323 c.p. era già molto tipizzato, ben distante dall’originario indeterminato delitto del 1930, mai dichiarato incostituzionale.
È utile capire quali fossero le tipologie principali di comportamenti illeciti che il reato di abuso di ufficio ora abrogato intendeva perseguire e comunque limitare e prevenire.
Si trattava di più fattispecie, ma in particolare di tre tipologie fondamentali nei rapporti con i privati (ma spesso anche nei rapporti tra soggetti pubblici di diverso livello gerarchico): i meri favoritismi, i favoritismi con pregiudizio di terzi, e le prevaricazioni. Dal 2020 dovevano essere atti intenzionali di violazione di legge finalizzati a pregiudicare e danneggiare un terzo o a recare un vantaggio ingiusto di tipo patrimoniale a sé o a un terzo.
I meri favoritismi (es. si concede un permesso di costruire, una licenza, un beneficio, o si attribuisce un posto, un appalto in modo illegittimo) si limitano a beneficiare un terzo, senza pregiudizio di altri.
Essi possono peraltro anche recare danno a terzi concorrenti (es. si concede un ruolo pubblico o un contratto pubblico a un soggetto con pregiudizio di altro più meritevole o titolato), e dunque sono in tal caso atti dannosi che producono disuguaglianze di trattamento.
Infine, ci sono le condotte di mero pregiudizio o prevaricazione verso terzi, che producono solo danni al cittadino, arrecati però in modo volontario. Queste ultime sono le più odiose, quelle dove il consociato è particolarmente esposto al potere pubblico, perché è in uno stato di giuridica soggezione.
Fra l’altro le prevaricazioni possono consistere anche in semplici atti, e non in provvedimenti, e in tal caso non hanno rimedi giurisdizionali amministrativi.
Il dato più sorprendente di tutta questa vicenda abrogativa è la sottovalutazione dei più elementari criteri di politica legislativa del diritto penale moderno. Un sistema giuridico laico e garantista non ha lo scopo di punire attraverso il diritto penale, ma persegue l’obiettivo di prevenire i reati. L’effetto preventivo delle leggi penali costituisce l’essenza politica del loro esistere, dall’illuminismo in poi: tale essenza non è il castigo.
Se abolisco un reato devo o ritenere che i fatti che perseguiva non meritano nessuna sanzione, essendo da reputarsi del tutto leciti, oppure (ed è questo il caso dell’abuso di ufficio, restando tutti illeciti i fatti non più sanzionati penalmente), devo sapere come l’ordinamento potrà gestire la prevenzione.
Ma non è stato previsto neppure un illecito amministrativo sostitutivo di quelli penali.
C’è quindi un profilo di irragionevolezza nella specifica carenza concreta di prevenzione per come risulta dall’abolitio criminis che si innesta nel nostro ordinamento.
Non solo. Una ulteriore “irragionevolezza di sistema” (oltre alla assente valutazione di sussidiarietà) è costituita dal permanere di delitti di rifiuto o omissione di atti d’ufficio che sono autonomamente reato, mentre se si realizzano verso l’evento abusivo del danno a terzi (l’evento dell’art. 323 c.p.) diventano improvvisamente leciti, perché non più preveduti dalla legge come reato. Perché si ha un bel dire che il rifiuto di atti di ufficio (art. 328 c.p.) può restare punito anche se poi sfocia nel danno dell’abuso (se commesso con quel fine): la verità è che si può sostenere in giudizio, almeno per i fatti pregressi all’abrogazione, che il concorso di reati fra l’art. 328 e l’art. 323 c.p. non era legittimo già prima, restando l’omissione-rifiuto assorbita nel delitto maggiore di evento: sì che chi deve rispondere oggi dell’art. 328 c.p. residuo e punibile può eccepire la sua sopravvenuta liceità se addirittura era finalizzato all’evento maggiore dell’abuso, che non costituisce più reato. Una “irragionevolezza di sistema” che non ha bisogno di commenti.
Ed è ben vero che la fattispecie era un reato-spia di possibili corruzioni o violazioni maggiori: ma qui non è in discussione la sufficiente prevenzione della corruzione, per es., da parte del nostro ordinamento, perché l’abuso ha un suo spazio applicativo autonomo, indipendente da quei reati maggiori che in effetti sono assistiti da un apparato normativo molto rilevante, anche se purtroppo sempre insufficiente sul piano dell’effettività di un’etica pubblica del tutto assente.
Come è stato opportunamente evidenziato a conclusione di una pregevole analisi dei rapporti tra funzione amministrativa e azione penale, «la teorica dei vasi comunicanti….non è applicabile nei rapporti tra funzioni ontologicamente e funzionalmente diverse, ciascuna rispondente a proprie logiche legittimanti e di responsabilità, come sono l’amministrazione e la giurisdizione»[1].
Per questa ragione, si può dire che, senza che si sia data una vera risposta preventiva all’abolizione del reato di abuso di ufficio, ci si è preoccupati in via esclusiva di impedire indagini e condanne, non di prevenire gli illeciti sottostanti a fatti spesso davvero ingiusti ed esecrabili e, come detto, privi di rimedi efficaci extrapenali: ciò che spiega, nel nostro ordinamento, il permanere di numerose denunce anche quando gli spazi per una condanna penale sono diventati sempre più ridotti.
La verità è che non ci si è preoccupati della prevenzione degli illeciti sostanziali che i soggetti pubblici possono commettere, dai primari o medici ospedalieri ai magistrati, dai professori universitari ai gestori di appalti, agli ufficiali di polizia giudiziaria, e per finire ai vari amministratori comunali, provinciali, regionali o di enti pubblici anche economici. Come se gli illeciti sostanziali non esistessero, come se non ci fosse bisogno di protezione dei consociati anche nei confronti di puri autoritarismi lesivi di diritti, che disvelano il volto illiberale della gestione della pubblica amministrazione. Un fraintendimento per cui ai potenziali destinatari di soprusi che non travalichino in illeciti più definiti (arresti illegali, perquisizioni arbitrarie, violenze sessuali, percosse, violenze fisiche o morali, concussioni etc.), non resta che commettere una resistenza o violenza a pubblico ufficiale, scriminata dall’avere il soggetto pubblico ecceduto con atti arbitrari dai limiti delle proprie attribuzioni (art. 393-bis c.p.): paradossalmente, commettere un reato di violenza o di oltraggio, per es., e confidare che venga riconosciuta – per bontà giudiziale – quella “causa di non punibilità”. Strumenti di tutela giurisdizionale, come detto, sono ora o esclusi (con la liceità penale dei fatti) o del tutto disincentivanti (la protezione in sede amministrativa, ordinaria o giurisdizionale).
La politica ha sicuramente mentito sulle ragioni dell’abrogazione, presentando come sufficiente la tutela (la fuga) dal processo penale di un numero esiguo di pubblici ufficiali, quali sono i sindaci. Si è, con questa cripto-amnistia per il passato, e patente di liceità per il futuro, celato il ben diverso scopo di questa riforma: l’obiettivo della perdita del controllo delle Procure della Repubblica sulla legalità amministrativa dei pubblici amministratori. Non si vuole la presenza di indagini penali disturbanti l’ azione della p.a., salvo che emergano già e altrove i fatti più gravi di corruzione e concussione.
Mantenere l’abuso di ufficio significava invece esporre tutta la p.a. a questo rischio: perché va detto con chiarezza che anche la magistratura non è esente da una sicura corresponsabilità rispetto alla politica, per avere spesso male applicato le varie riforme dell’abuso, sempre in chiave estensiva, e dunque contraria alla volontà legislativa, così da provocare una reazione abrogatrice, come era accaduto a suo tempo nella vicenda del falso in bilancio, parimenti applicato per ampliare il controllo della magistratura sulla legalità.
Questo raffronto è davvero illuminante, perché rispecchia una “visione berlusconiana” del rapporto tra processo e diritto, alla quale si è ispirato il governo attuale nel predisporre quest’ultima abolitio.
Il tema comune e costante è il controllo di legalità. La magistratura penale ha effettuato un sistematico controllo sull’attività degli amministratori privati di società commerciali attraverso il grimaldello del reato di false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.). Esso serviva per sindacare la presenza di altri reati patrimoniali, o contro la p.a., fiscali, associativi etc. nella gestione delle società private. Attuando una promessa elettorale (non sui media, ma in riunioni con destinatari mirati), il parlamento che aveva espresso il governo Berlusconi, con d. lgs. n. 61 del 2002 realizzò una sostanziale abrogazione del falso in bilancio. Furono così di fatto “amnistiati” i reati già commessi e la fattispecie, sdoppiatasi in due illeciti dimezzati, una contravvenzione e un delitto di problematico accertamento, contro il patrimonio e non contro la trasparenza contabile, sopravvivrà fino alla abrogazione realizzata con la l. n. 69 del 2015.
Allo stesso modo, il reato di abuso di ufficio è stato il reato-mezzo per controllare la legalità dei pubblici amministratori (non solo sindaci!) quando non constavano già indizi di delitti più gravi come la corruzione, la concussione, il peculato etc. Anche dopo la riforma del 1990, che ha abbassato le pene per l’abuso di ufficio, e reso impossibile adottare la misura delle intercettazioni, era pur sempre possibile contestare (spesso strumentalmente) l’associazione per delinquere, anziché il concorso di persone, e disporre così sia intercettazioni, sia misure cautelari personali. Finché in vita, quella norma restava così uno strumento investigativo rilevante nelle mani delle Procure. Il regolamento dei conti con una parte della magistratura accusata di travalicare la divisione dei poteri ha visto pertanto nell’eliminazione dell’abuso di ufficio uno step qualificante.
Discutere, di fronte a questo disegno, delle poche sentenze di condanna dell’ultima versione dell’abuso di ufficio, è esercizio predisposto per chi crede che i messaggi della politica siano orientati a esprimere verità pubbliche, anziché a guadagnare consensi. La maggior parte dei reati economici ha un impatto di giudicati di condanna assai modesto. Solo l’1% dei detenuti in carcere ha commesso reati economici. E allora? Che cosa prova tutto ciò? Che devono essere aboliti anch’essi? E come affermare che non avrebbero nessun impatto preventivo? Sostenerlo sarebbe davvero clamoroso. Quanti reati non si commettono per la presenza di illeciti penali i quali, pur di difficile accertamento, mantengono un valore di deterrente comportamentale?
Ebbene nel caso dell’abuso di ufficio, invece, tutti questi argomenti hanno costituito la base della pubblicità ingannevole messa in scena: che occorreva tutelare gli autori degli illeciti dal rischio di processi di inutile e dannoso esercizio, ma non le vittime degli illeciti stessi.
Tutto questo dimostra il dominio di una preoccupazione processuale sulle esigenze e le logiche del diritto sostanziale. Il diritto penale è di nuovo servente rispetto al processo, che a sua volta non deve costituire un’arma politica: l’art. 323 c.p., infatti, sarebbe sempre stato utilizzabile quando non sussistessero (ancora) indizi di corruzione, concussione, peculato, malversazione etc. Il suo potenziale uso esplorativo è cioè la sua colpa d’origine. Secondo questa visione è nel processo e nell’ordinamento giudiziario che si annida il male del sistema che precipita poi sul diritto sostanziale. Del resto, le riforme processuali o gli scopi processuali che abbiamo individuato non riguardano i fatti-reati della maggior parte dei tipi di autore che finiscono in carcere. La loro selezione di classe rimane assicurata. Ecco che questo garantismo non appare affatto imparziale, perché restaura il primato della politica sul potere giudiziario, e incide sulla selezione degli autori puniti, perché mantiene e rafforza un disegno, o uno status quo, che è di privilegio.
Anche la riforma del reato di traffico di influenze si inserisce nello stesso quadro. La fattispecie (art. 346-bis c.p.) ora è molto più tassativa di quella sostituita, e reca la definizione della “mediazione illecita”. Si chiede che l’influencer abbia finalità economiche e di promozione della commissione di reati da parte di un p.u., con vantaggio indebito. Sennonché, se fosse rimasto l’abuso d’ufficio fra i target, la fattispecie avrebbe conservato una autonomia di diritto sostanziale. Invece, abolito l’art. 323 c.p. tra i possibili reati-scopo, non residua realisticamente che la corruzione. Ridotto così il traffico di influenze a poco più di una norma ancillare a indagini sulla corruzione già abbondantemente possibili, anche qui emerge che la norma non ha un ubi consistam sostanziale, ma per l’appunto solo di continenza processuale: non si cominceranno indagini anticipate, basate solo sul reato di abuso (ora che non c’è più), per cercare altro.
Si è evitato di suggerire a futuri legislatori come risuscitare il cadavere del defunto abuso, che comunque era destinato a una storica riduzione selettiva nella tutela[2]. Dovevamo qui spiegare il perché vero di una legislazione di lotta, e non di serena depenalizzazione di comportamenti avvertiti come inoffensivi, morali o socialmente accetti.
[1] G.D. Comporti, E. Morlino, La difficile convivenza tra azione penale e funzione amministrativa, in Riv. trim. dir. pub., 2019, 184 s. V. pure, nello stesso numero della rivista, l’ampio studio di Tonoletti, La pubblica amministrazione sperduta nel labirinto della giustizia penale, ibidem, 77 ss., spec. 116 ss.; G. Viciconte, Il controllo del giudice penale e del giudice contabile sulla discrezionalità amministrativa: la legalità dell’esperienza giuridica concreta, Rivista della Corte dei Conti, 2021, fasc. 3, 50 ss.; Il processo penale per i delitti contro la Pubblica Amministrazione, a cura di Adolfo Scalfati, Cacucci, 2024.
[2] M. Donini, Gli aspetti autoritari della mera cancellazione dell’abuso di ufficio, in Sistema penale, 23.6.23.
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