Alimentare la fiammella dell’eguaglianza, in un mondo terrificante
di Rocco Alessio Albanese
Università del Piemonte Orientale
Cinque anni fa Aldo Schiavone dava alle stampe un volume titolato “Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia”.
L’autore non ha bisogno di presentazioni, essendo uno dei più importanti storici del diritto al mondo. Dedicando una vita di ricerche alla storia del ius civile romano, egli ha insegnato che il diritto – con la sua ciclopica ambizione di apprestare una (il più possibile) integrale formalizzazione delle esistenze e delle cose che capitano – è un’infrastruttura sofisticata, chiamata a sorreggere con la potenza delle sue astrazioni la cooperazione e la conflittualità sociale. Come ogni infrastruttura, però, anche il diritto germoglia dalla storia e nella storia è invischiato. Se, sempre con Schiavone (il rilievo apre un altro volume, “Ius. L’invenzione del diritto in Occidente”), il diritto può essere pensato «come un’analitica del potere e della sua normalizzazione razionale», allora fare storia del diritto significa anche, e sempre, fare una critica delle forme giuridiche assunte dal potere. Una tale indagine riguarda gli stessi attori attivi nella “produzione della storia”: sicché storia del diritto è anche storia della storiografia e delle strade – sovente arbitrarie e non certo lineari – percorse da una nozione mitica come quella di “tradizione giuridica”.
Ora: per via della pandemia da covid-19, le riflessioni e le proposte contenute in “Eguaglianza” hanno circolato meno di quanto avrebbero meritato. Oggi, però, riprendere le fila di quel discorso è opportuno – meglio: è necessario, dato che il mondo ha assunto sotto molti profili, nell’ultimo lustro, sembianze sempre più terrificanti. La ragione di un simile senso di urgenza si coglie già dal sottotitolo del libro di Schiavone. Se di una “nuova visione”, non dimentica degli apporti che una seria storicizzazione offre, si sente il bisogno, ciò significa che la “vecchia” concezione dell’eguaglianza risulta stanca, in affanno, in crisi. Sui contorni di tale crisi occorre però intendersi, così riflettendo anche sulla portata dell’eguaglianza in seno al grandioso progetto politico, istituzionale e giuridico della modernità occidentale. L’eguaglianza, in effetti, è un pilastro e una bandiera: ma di quale eguaglianza stiamo discorrendo?
Al riguardo Schiavone propone una genealogia impressionante per densità di trattazione e per vastità di riferimenti culturali mobilitati. Non essendo possibile isolare tutti i fili di questa trama, sarà sufficiente segnalare come Schiavone scorga in «una radicalità individualista senza confronti» (p. 92) una delle maggiori premesse moderne della concezione occidentale di eguaglianza. A essere formalmente eguali, in questa visione del mondo, sono infatti soggetti – ben inteso: maschi – individui e liberi perché autonomi, capaci di trasformare e appropriare la natura tanto con il lavoro, quanto con l’intelligenza. Una tale base individualista annuncia e moltiplica le differenze, agendo come un principio di soggettivazione dirompente. Sicché non è esagerato vedere nello Stato una sorta di antidoto alla differenza: lo Stato, individuo speciale perché dotato di potere sovrano, è chiamato a governare i rischi di disgregazione sociale generati dall’individualismo, operando come fattore di ordine e di pacificazione. Sono così poste le fondamenta per quella che Michele Spanò ha definito come «topologia moderna», l’epocale “divisione del lavoro istituzionale” che separa e oppone, a partire da un comune ceppo individualista, il privato e il pubblico. Ed è nel dispiegarsi della topologia moderna che emergono certe ambiguità della visione moderna di eguaglianza. Gli esseri umani, infatti, per un verso sono “eguali” in quanto cittadini, attori della sfera pubblica e politica; per altro verso sono “eguali perché differenti” nella loro qualità di homini oeconomici, soggetti del diritto privato e attori delle sfere (solo apparentemente non politiche) dell’economia e del mercato.
Una simile lettura della modernità occidentale e delle sue matrici profonde non è inedita. In questa ottica, peraltro, Schiavone sembra suggerire che il Novecento – e i Trenta Gloriosi in particolare – può essere interpretato come la fase di massima curvatura, in senso progressista ed egualitario, di un assetto che è però rimasto sostanzialmente moderno, nei propri fondamenti epistemologici e istituzionali. Si pensi, così, alla diffusione e alle pretese di generalizzazione di un modello democratico scandito da suffragio universale, sistema rappresentativo e principio di maggioranza: una “triade moderna”, questa, apparentemente astratta e data una volta per tutte; ma in realtà figlia, con i suoi caratteri e limiti, di irruzioni dei soggetti senza voce e senza potere nella storia. Si pensi, ancora, all’indiscussa centralità del cittadino-lavoratore (esempio: art. 1 Costituzione) nella concettualizzazione e nell’implementazione di una “società politica” tanto improntata all’eguaglianza da poter conformare il funzionamento della società economica nel senso dell’utilità sociale, perseguita in un periodo in cui, almeno al livello degli Stati nazionali, fu possibile il compromesso fordista tra capitale e lavoro. Si pensi, infine, alle promesse solidaristiche e universalistiche – spesso realizzate, altre volte disattese – del welfare state.
Schiavone riassume questa vicenda alludendo a «una sorta di complesso polittico dell’emancipazione occidentale: democrazia, lavoro, individualità, genere, con le sue componenti disposte in un intreccio espansivo ma instabile» (p. 232). Ebbene: se oggi l’eguaglianza appare sempre più non come una bandiera, ma come una chimera, è esattamente perché questo polittico è crollato.
Menzionare alcune dinamiche esemplificative di questo crollo è perfino banale, ma opportuno. Negli ultimi decenni, negli Stati c.d. a capitalismo avanzato (e particolarmente in Italia) le diseguaglianze sono esplose per ragioni ben note. La liberalizzazione della circolazione di capitali e merci, unita alla globalizzazione delle catene del valore e della produzione, ha accelerato processi di deindustrializzazione e reso il dumping (esempi: nell’organizzazione dei sistemi fiscali; nella disciplina di condizioni e retribuzioni del lavoro) un perno della competizione tra sistemi nazionali. Le rivoluzioni finanziaria e informatica-digitale, insieme alla terziarizzazione delle economie, hanno stravolto i modi “tradizionali” non solo di lavorare, ma anche di accumulare e valorizzare la ricchezza. Più in generale, l’orizzonte in cui si inscrivono simili vicende è – come Schiavone non smette di ricordare – quello di una vera “unificazione capitalistica” del pianeta. Al netto di varianti anche sensibilmente differenti non sembra oggi possibile, nostro malgrado, mettere in discussione il capitalismo come relazione sociale chiamata in via dominante a organizzare la produzione e la riproduzione dell’umanità e del mondo.
In un quadro del genere, una crescente “eguaglianza” a livello globale è solo in apparenza controintuitiva. Essa in realtà non desta stupore, essendo spia sia della redistribuzione della ricchezza tra regioni del mondo ed entità statali, sia di una fuoriuscita progressiva (benché costellata di innumerevoli ingiustizie e sofferenze) di milioni di persone dalla peggiore povertà. Del resto, sia detto per inciso, è questa transizione verso un mondo multipolare e “più eguale nelle differenze” a essere osteggiata da molte classi dirigenti europee e nordamericane, le quali – più che tentare, per esempio, di promuovere interventi su concentrazioni private della ricchezza mai viste prima nella storia dell’umanità – sembrano spesso disposte a perseguire inquietanti politiche di difesa del privilegio occidentale.
Ciò che semmai dovrebbe stupirci è quella che Schiavone ha reputato una «spaventosa rarefazione di pensiero nuovo sull’umano». In un mondo completamente diverso da quello di un secolo fa ma, mutatis mutandis, sempre alle prese con sfide che Ulrich Beck ha definito “globali” – il rischio ecologico, quello finanziario, quello terroristico; a cui occorre oggi aggiungere quello della guerra mondiale –, il diritto e le scienze sociali sono chiamati a elaborare strategie nuove, se non vogliono accettare come un destino ineluttabile il declino dell’eguaglianza.
Certamente non è d’aiuto la coazione a ripetere insegnamenti che la tradizione moderna ci consegna con l’autorevole fascino del mito. Se è vero che gli elementi costitutivi del polittico sopra menzionato hanno avuto la funzione storica di orientare nel profondo lo sviluppo delle società occidentali, occorre altresì ammettere che oggi serve un serio lavoro di ripensamento. Dire che un progetto di emancipazione è crollato, infatti, significa dire che i pilastri di quel progetto hanno perso presa sulla realtà. O, peggio ancora, che la realtà li travolge, con buona pace del loro pedigree – si pensi a cosa resterebbe, anche formalmente, della democrazia costituzionale in Italia, se le revisioni della Carta in materia di magistratura e di c.d. premierato venissero varate insieme all’implementazione dell’autonomia differenziata.
Lungi da posture velleitarie perché dimentiche della gravità del momento storico, o da speculari atteggiamenti nostalgici e in ultima analisi moralistici, Schiavone ci offre spunti di riflessione preziosi per tornare a vedere nell’eguaglianza non una chimera, ma una fiammella da alimentare. La proposta è nel senso di relativizzare (senza abbandonare) la portata dell’individualismo. Se il campo delle differenze può restare appannaggio di questo schema di soggettivazione, l’eguaglianza può intraprendere una strada nuova separandosi dall’individuale e candidandosi a diventare «forma per eccellenza dell’impersonale umano» (p. 281). Per prospettare una forma alternativa di istituzione giuridica dell’umano Schiavone si rivolge, dunque, alla filosofia e all’antropologia dell’impersonale. Questa sfaccettata corrente di pensiero, resa celebre in Italia anzitutto dal lavoro di Roberto Esposito, si raccoglie attorno alla contestazione di quello che è stato definito il «dispositivo-persona»: è nella costitutiva opposizione binaria tra persona e cosa, per esempio, che «avere diritti (…) significa propriamente essere soggetti della propria oggettivazione» (R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Torino, 2007, p. 16). Per Schiavone, invece, un diritto e un’economia dell’impersonale sono chiamate a rendere possibile «la formazione, intorno a una serie definita di beni ritenuti indispensabili nelle condizioni storiche date, di spazi di condivisione che aggregano isole di eguaglianza nell’oceano multiforme delle diseguaglianze individuali. Contesti nei quali le soggettività provvisoriamente svaniscono (…)» (p. 284). Non è un caso che Schiavone scorga il più chiaro esempio di questa istituzione dell’impersonale nelle risorse che, negli ultimi due decenni, abbiamo imparato a conoscere come beni comuni. Né sembra da sottovalutare che una epocale sentenza della Corte EDU (Verein Klimaseniorinnen Schweiz e al. c. Svizzera, 9 aprile 2024), nell’accertare per la prima volta una violazione della CEDU per danno climatico, abbia ammesso che associazioni per la giustizia climatica abbiano legittimazione ad agire “in rappresentanza” non degli associati (vittime, attuali o potenziali, di una violazione della Convenzione), bensì di diritti pensati al di là di un orizzonte binario, personalistico e individualistico. Un approdo, questo, che consente di affermare che il diritto al clima è di nessuno e di chiunque, di chi c’è stato di chi c’è e di chi ancora non c’è ma ci sarà (una conclusione che suona come una provocazione solo per chi non riesca a mettere in discussione i paradigmi del passato).
Per quanto vertiginosi, gli scenari appena prospettati (due esempi tra i diversi possibili) risulterebbero capaci di produrre un inedito aggancio tra discorso sull’eguaglianza e problema della giustizia distributiva. È agevole capire gli scetticismi verso simili tesi. Eppure, in proposito occorre ricordare che solo pensieri e prassi umili, ma anche lungimiranti e ambiziose, consentono di alimentare la fiammella dell’eguaglianza a beneficio della presente e delle future generazioni. Come osservato da Pasquale Femia in una recente voce enciclopedica, del resto, «l’eguaglianza formale è soltanto la prima strategia immaginata nel diritto moderno per risolvere il problema della diseguaglianza (sostanziale)».