Ancora una replica in tema d’immigrazione

di Gianluca Bascherini

1.

La recente introduzione di una garanzia finanziaria tra le possibili alternative al trattenimento dei richiedenti asilo (art. 6-bis, c. 1, d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142) e la prima disapplicazione della misura per contrasto con il diritto Ue in materia in sede di convalida del trattenimento (Tribunale di Catania) costituiscono effettivamente, un “caso istruttivo”. Nella diversità delle analisi che propongono di queste vicende, i post di Mario Savino ed Elisa Cavasino confermano quanto l’immigrazione costituisca oggi uno degli ambiti in cui più aspra ed evidente si manifesta la tensione tra i lemmi del trinomio che anima questo Diario: democrazia, politiche, conflitti.

Io vorrei tornare sulle premesse dell’intervento di Mario Savino, in cui si legge che il diritto dell’immigrazione “è un diritto essenzialmente amministrativo poco studiato dagli amministrativisti” e che, non di rado, gli studi giuspubblicistici in materia assumerebbero una chiave di lettura “individualista”, “monoculare, a tratti militante, che impoverisce la comprensione dei problemi”. Infatti, ‘fascinati dal discorso sui diritti umani’, questi studi faticherebbero a cogliere l’altro elemento del dipolo attorno a cui si sviluppa il dibattito e il diritto dell’immigrazione: “la dimensione collettiva dell’interesse pubblico”.

Condivido solo in parte queste affermazioni. Di seguito, proverò a sintetizzare un duplice ordine di obiezioni, per raccogliere l’invito che viene dal Manifesto di questo Diario a far risaltare alcune “contrapposizioni” tra le diverse possibili letture di un tema, quello migratorio, che oggi più che in altri tempi sollecita i giuspubblicisti, e non solo, a interrogarsi e ad approfondire le questioni che solleva.

2.

Concordo con Savino che gli amministrativisti dovrebbero studiare di più l’immigrazione, o che più amministrativisti dovrebbero studiarla; questo, tuttavia, non perché il diritto dell’immigrazione sia un diritto “essenzialmente amministrativo”, ma perché, a mio avviso, è un diritto sempre più ‘amministrativizzato’.

La “crisi” del 2015/2016 (V. ad es. F. Cortese, La crisi migratoria e la gestione amministrativa, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2/2019, pp. 435 ss.) e la pandemia (voglio ricordare C. Corsi, Migranti e immigrati di fronte all’emergenza coronavirus: tra vecchie e nuove fragilità, in Diritto pubblico, 3/2020, pp. 901 ss.) hanno alimentato una ‘ri-statalizzazione’ delle politiche migratorie, alimentata dal rilancio in sede Ue di un approccio intergovernativo mediante strumenti di soft law (esemplari l’Agenda europea sulla migrazione del 2015 e il Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo del 2020), e da un ri-accentramento nelle autorità di p.s. di funzioni a carattere sociale, riconducibili piuttosto ex art. 118 co. 1 alla competenza degli enti locali. Nonostante il tumultuoso attivismo legislativo in materia, che ha conosciuto peraltro un’ulteriore accelerazione nel primo anno della legislatura in corso, si ripropone oggi una tendenza ad appaltare la condizione giuridica del migrante a un infra-droit di circolari già caratterizzante il primo trentennio di vita repubblicana (P. Costa, Costituzione italiana: articolo 10, Roma, 2018, p. 110 s.). Questa informalizzazione multilivello genera ricadute sistemiche e sostanziali: nei rapporti tra le istituzioni e sulle possibilità di tutela dei diritti. L’evanescenza normativa che questa amministrativizzazione porta con sé getta un cono d’ombra sulle questioni migratorie che, per un verso, marginalizza (ulteriormente) il ruolo del Parlamento Ue e di quello nazionale e non agevola l’individuazione delle responsabilità dei diversi attori e livelli coinvolti e, per altro verso, riduce le possibilità di accesso alle forme di tutela giurisdizionale nazionali ed europee dei diritti fondamentali. Basti qui il richiamo al c.d. approccio hotspot, recepito in carenza di adeguate basi legali e governato da regole di incerta provenienza e collocazione, che sono costate all’Italia più di una condanna da parte della Corte EDU (Khlaifia c. Italia, J.A. e al. c. Italia, e, da ultimo i casi A.B. c. Italia, M.A. c. Italia e A.S. c. Italia)

Fa bene Savino a invitare gli amministrativisti a contribuire più di quanto oggi non facciano al dibattito sull’immigrazione, perché i loro apporti possono favorire una migliore conoscenza e gestione delle problematiche migratorie, ma questa tendenza all’amministrativizzazione va al di là delle componenti prettamente amministrative del diritto dell’immigrazione per investire campi diversi del diritto pubblico, interno ed europeo. Già Elisa Cavasino ha rimarcato la pluralità di ambiti di ricerca intercettati dalle migrazioni. Non si tratta di ascrivere le problematiche migratorie all’una o all’altra materia, e neppure, ritengo, di definire il metodo del diritto dell’immigrazione. Piuttosto, direi che proprio la storicità delle dinamiche supra richiamate e la complessità delle loro implicazioni dovrebbero indurci a guardare alle migrazioni, come scriveva lo stesso Savino non molto tempo fa, come a un “fenomeno sociale composito, oggetto di studio da parte di tutte le scienze sociali” (M. Savino, Il diritto dell’immigrazione: quattro sfide, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2/2019, p. 382). Dal punto di vista giuridico, inoltre, l’immigrazione costituisce “un ramo promiscuo del diritto” (ibidem): alimentato da ordinamenti, fonti e studiosi di diversa provenienza.

Più che ascrivere l’immigrazione all’uno o all’altro settore disciplinare, una miglior conoscenza e gestione dei fenomeni migratori richiede che si sviluppi tra gli studiosi un dibattito aperto, in cui nessuno smarrisce il proprio ruolo e in cui ciascuno può verificare la tenuta delle proprie elaborazioni alla luce degli apporti e delle sollecitazioni provenienti dalle riflessioni altrui.

3.

Nella sua replica, Elisa Cavasino ha già evidenziato come non sia tanto un approccio “individualista” a orientare lo sguardo del giuspubblicista, quanto piuttosto il personalismo trasfuso nell’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce diritti e doveri alla persona prima che al cittadino.

Per quanto mi riguarda, non registro quella diffusa ‘monocularità’ rimarcata da Savino. Non mi sembra che, in nome delle esigenze di tutela dei diritti, gli studi in materia tendano a trascurare “la dimensione collettiva dell’interesse pubblico”. Direi piuttosto che da quegli studi emerge nitidamente il crescente squilibrio che si registra tra libertà e autorità in politiche migratorie sempre più univocamente vocate al contenimento degli ingressi e alla precarizzazione dei soggiorni. La progressiva riduzione del contenuto dei diritti e delle loro forme di tutela in nome di un interesse pubblico quello sì ‘monoculare’: sempre più assorbito dalla tutela di interessi nazionali di brevissimo respiro, utilitaristi e sicuritari; non di rado invocato a legittimazione di misure a impatto simbolico più che concreto, irragionevoli quando non irrazionali. Questo sbilanciamento tra autorità e libertà è da tempo entrato in tensione con i princìpi nazionali, sovranazionali e internazionali di legalità e di tutela dei diritti. Al pari di altre recenti pronunce di corti nazionali ed europee, le vicende giudiziarie intorno alla garanzia finanziaria esaminate nei post precedenti e le differenti interpretazioni che possono darsi del controllo effettuato dal giudice offrono un buon esempio dei conflitti che quegli sbilanciamenti nell’individuazione dell’interesse pubblico in materia migratoria aprono nella tenuta costituzionale e nei rapporti tra legislatori e giudici, tra indirizzo e garanzia.

Confesso inoltre che fatico a comprendere l’imputazione di militanza rivolta da Savino a “molta parte della letteratura sul tema”. Se bene intendo l’impiego del termine, riguardante una parzialità che non favorisce un’adeguata comprensione, non mi sentirei di escludere che una tale incompletezza possa talvolta riscontrarsi, ad es., nelle riflessioni dedicate ai più o meno riusciti tentativi di “grande riforma costituzionale” portati avanti nell’ultimo trentennio. Ma quando si parla d’immigrazione, non mi è facile individuare quale sarebbe la parte per la quale militerebbero quegli studi. Da studioso del diritto pubblico, direi che le questioni migratorie rimandano piuttosto a quei processi di attuazione costituzionale che nella vicenda repubblicana sono rimasti in buona parte monchi, incompiuti, e che ben riflettono i problematici nessi che in quella vicenda intercorrono tra democrazia, politiche e conflitti.

Una cosa è un approccio militante, altra cosa è un approccio critico, non arreso al presente e capace di riflettere sulle eventuali esigenze di mutamento degli assetti contingenti e sulla possibilità di ulteriori sviluppi interpretativi. E ritengo che non lo specialismo disciplinare, ma la consapevolezza della storicità dei fenomeni migratori e l’apertura a una pluralità di saperi e di punti di vista differenti siano le premesse necessarie allo sviluppo di un simile approccio e al ripensamento dei dualismi (economico/umanitario, regolare/irregolare) su cui riposano le vigenti politiche migratorie nazionali e sovranazionali. Queste coppie oppositive si rivelano infatti sempre meno adeguate ai fini di una gestione delle migrazioni efficace e rispettosa dei diritti e degli interessi di tutti, e comportano costi, innanzitutto umani, inaccettabili per una democrazia costituzionale.