Appendice. Spunti a margine del dibattito in materia di immigrazione
di Vincenzo Desantis
1. Il dibattito sui recenti interventi normativi in materia di immigrazione è, come è noto, più vivo che mai e i contributi e le analisi che, da mesi, si affastellano su questa materia lo testimoniano con evidenza. In modo intuibile, un contesto di questo tipo rende piuttosto arduo offrire delle riflessioni originali su un tema che è già stato indagato, anche in altri interventi pubblicati su questo Blog. Facendo tesoro di questi e di altri spunti, si proverà, però, a sollevare un altro paio di quesiti.
Cominciando con il “decreto Cutro” (d.l. n. 20/2023) e la sua normativa di attuazione (soprattutto il c.d. decreto Piantedosi, cioè il d.m. 14 settembre 2023), considerando i possibili effetti pratici che le novità introdotte dai testi potrebbero avere, resta un aspetto su cui soffermarsi, cruciale per l’esito dell’operazione normativa. L’interpretazione delle previsioni del decreto, complici anche alcune sue formulazioni non del tutto felici, rischia, infatti, di produrre esiti diversi da quelli ipotizzati dal legislatore e, in particolare, di paralizzare, almeno in parte, l’attuazione del decreto.
2. Il riferimento corre, in particolare, all’estensione della procedura di frontiera a chiunque cerchi di eludere i controlli delle autorità all’ingresso nello Stato. Operando un’interpretazione neanche troppo estensiva del tentativo di elusione di cui parla il legislatore, sembra difficile non ricomprendere nell’applicazione della nuova normativa (e, quindi, nell’estensione delle ipotesi di procedura accelerata) i casi di pressoché tutti i migranti che provengano dal mare.
Quasi ontologicamente, il fatto stesso di approssimarsi alle coste italiane con l’intenzione di procurarsi un approdo proietta ogni migrante nella possibile fattispecie dello straniero che tenti di entrare sul territorio dello Stato eludendo i controlli delle autorità: una condizione, questa, che, oltre a integrare un reato, è anche un’opzione di viaggio alla quale la maggioranza dei migranti non può, verosimilmente, sottrarsi.
Se fosse questa l’interpretazione prevalente, la rivoluzione in tema di procedure di accesso sarebbe evidente e realizzerebbe un risultato pratico che era, forse, proprio quello agognato dal Governo (e che sembrerebbe confermato anche dalla lettura sistematica del testo, che estende la procedura di frontiera anche a chi provenga da Paesi sicuri, indicati dall’esecutivo). Insomma, con il nuovo testo, l’espansione della procedura di frontiera (che, fino agli ultimi sviluppi, era ordinariamente riservata a casi residuali) sembrerebbe indicata come quella di default. Questo approdo, a causa di un filone decisorio noto e discusso, è stato, però, almeno per il momento, “disinnescato”.
I motivi del “disinnesco” sono gli stessi che hanno fatto invocare a qualcuno un sabotaggio: un nuovo episodio zero dello scontro tra poteri esecutivo e giudiziario, che ha guadagnato, anche più di recente, gli onori della cronaca. A prescindere, però, dalle posizioni che si vogliano assumere sul punto, un aspetto sembra dover essere ulteriormente chiarito: il fatto che la procedura di frontiera, con annesso trattenimento, fosse residuale aveva, eccome, la sua ragione: segnatamente, quella di individuare, in ipotesi determinate, tassative, e previste dalla legge, le situazioni nelle quali il legislatore potesse limitare la libertà dello straniero. Di questi tre elementi, la nuova soluzione normativa sembra fare, almeno in parte, a meno e, per quanto uno Stato abbia l’ineludibile dovere di sorvegliare le proprie frontiere, oltre che il diritto di determinare quali sono i criteri di accesso al suo territorio, un combinato di norme come quello indagato non sembra immune da dubbi di costituzionalità.
A ben guardare, la regola che esaminiamo ha, anzi, tutto l’aspetto di una clausola generale: una regola omnium, potenzialmente applicabile a tutti i casi (quale tassatività?), davvero poco circostanziata (quale principio di determinatezza?) e davvero poco orientata al paradigma della legalità sostanziale che deve, in ogni momento, circoscrivere l’esercizio del potere autoritativo.
3. Venendo, poi, alla “fideiussione” (che, invero, sembra più una cauzione), la situazione sembra altrettanto deludente. Il riferimento è alla garanzia che i migranti dovrebbero corrispondere all’amministrazione per evitare il trattenimento forzato. In assenza di cauzione, la detenzione può, sì, essere altrimenti evitata, ma a condizione che l’immigrato clandestino abbia un documento valido per viaggiare.
Le due ipotesi sono l’una meno probabile dell’altra: la prima lo è perché il denaro dei migranti viene sistematicamente depredato lungo il corso del loro estremo viaggio verso l’Europa; la seconda lo è perché l’assenza di documenti validi per viaggiare è uno dei motivi per cui i migranti sono costretti a raggiungere illegalmente il territorio italiano.
Non solo, la previsione del versamento di una cauzione, esplicitamente finalizzata a tenere indenne lo Stato delle spese sostenute per fronteggiare le esigenze dei trattenuti, applica un’impostazione “retributiva” al rapporto tra l’autorità statale e lo straniero in difficoltà che solleva problemi di ordine tanto politico quanto etico. Questo aspetto dischiude un’altra area di discussione rispetto all’analisi della nuova normativa e desta, a ragion veduta, più di qualche perplessità. Tra le molte, una tra le più interessanti è costituita dal fatto che la Corte costituzionale ha da tempo affermato che l’assenza di mezzi per fronteggiare i “crediti” nei confronti dello Stato non può trasformare il debito in una restrizione della libertà personale (sul punto, tra le altre, sent. n. 131/1979, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 136 c.p. sulla conversione della pena pecuniaria in detentiva in caso di insolvibilità del condannato). C’è spazio per un’analogia?
4. Proseguendo, un riferimento sembra, inoltre, opportuno agli accordi tra Italia e Albania: un oggetto di indagine, a sua volta, battuto, sia per ciò che concerne la necessità che gli stessi conoscano un passaggio parlamentare, sia per quanto riguarda le implicazioni relative alla garanzia dei diritti costituzionali e all’applicazione della giurisdizione italiana e del diritto europeo nei centri costruiti sul territorio albanese.
Al riguardo, è, ad esempio, notizia delle ultime ore che anche sul versante albanese dell’accordo siano stati rilevati profili di possibile incostituzionalità dell’intervento, perché la Corte costituzionale albanese ha sospeso le procedure parlamentari per la sua approvazione, ipotizzandone il contrasto con la Costituzione e con alcune intese internazionali.
Anche rispetto a questa parte del tema, qualche dubbio meno indagato può trovare in questa sede uno spazio di discussione. Tralasciando il fatto che tradurre dei migranti estremamente provati dai viaggi in un altro luogo, sempre via mare, potrebbe integrare, se non gli estremi della deportazione, almeno l’inflizione di un trattamento inumano e degradante, le difficoltà di ordine logistico che alimentano i sospetti di costituzionalità della disciplina non sembrano meno gravi di quelle di ordine logico.
Banalmente, la predisposizione degli accorgimenti necessari a rendere effettivo il godimento dei diritti dei migranti trasferiti in Albania potrebbe rivelarsi disfunzionale per svariate ragioni, a più riprese evidenziate. Sintetizzando, trasferire un discreto numero di migranti in Albania mantenendo intatte le regole previste per il caso in cui li si fosse fatti sbarcare sulle coste italiane (questo è, d’altronde, quanto pare imposto dal diritto europeo, oltre che dallo stesso memorandum siglato tra i due Governi), significherà garantire i diritti che sono, normalmente, riconosciuti ai richiedenti asilo, in un costoso andirivieni tra Roma e Tirana. Gli scambi tra i due Paesi saranno, in particolare, fatti di accompagnamenti e di spostamenti (oltre che dei migranti stessi, dei loro legali e, forse, dei giudici e dei membri delle commissioni territoriali). Il tutto non sembra giustificabile nell’ottica dell’economicità della gestione amministrativa.
Se i costi di questa operazione supereranno i suoi benefici è questione alla quale solo il tempo potrà rispondere.
Anche ignorando, però, le avvisaglie di chi già segnala che anche questa disciplina conoscerà, nella pratica, un’applicazione meno cospicua di quanto annunciato (destino, questo, che già riguarda settori della legislazione in materia di immigrazione, come, ad esempio, quello relativo ai rimpatri), un dato, sugli altri, merita considerazione: prestando il governo albanese il solo supporto territoriale (spese e gestione amministrativa delle domande resteranno, infatti, a carico del Governo italiano), il principale apporto che deriverebbe dall’esecuzione di un simile accordo sembra risolversi nel fatto che non ospiteremo, materialmente, sul territorio dei nostri Comuni un numero di migranti che, viceversa, avremmo ospitato. Come precisato, questo cospicuo gruppo di migranti resterà, però, in tutto e per tutto, affidato alle autorità italiane, con l’effetto che, anziché doverci occupare di persone che si trovino “vicino casa”, dovremo, nondimeno, farlo per persone che dipendono comunque da noi, ma si trovano (detenute) lontano dalle nostre case. Allora una domanda, sulle altre, sembra incombente: avevamo davvero un così grave problema di spazio?
5. In conclusione, molti commentatori hanno criticato le sentenze che hanno lasciato inapplicata la normativa in commento per contrasto con il diritto europeo, sollevando varie questioni. A prescindere, però, dal contrasto tra norme interne e diritto sovrastatale, resta l’interrogativo sul se la nuova normativa, prima di contrastare con il diritto europeo o con la Cedu, non contrasti direttamente con la Costituzione. [Sul punto, e sul rapporto squilibrato tra autorità e libertà nell’impianto della nuova legislazione sull’immigrazione si veda il contributo di Gianluca Bascherini].
La restrizione della libertà personale come opzione di carattere generale (e senza che sia sufficientemente esplicitato per quale ragione si giunga alla misura massimamente afflittiva), da un lato, e la previsione di una cauzione che, se non versata, comporta un trattamento assimilabile alla detenzione, dall’altro, se considerate in uno con la prospettata ipotesi del “dirottamento marittimo” e del successivo approdo in luoghi dove può essere più complicato l’esercizio dei diritti (anche di difesa, ex 24 Cost.), dipingono un quadro che, forse, lede i valori dell’ordinamento repubblicano quanto quelli delle Carte e del diritto sovrastatali.
Allo stato attuale, l’applicazione del decreto non gode, come si sa, di ottima salute e i giudici del filone giudiziario della “non applicazione” ne hanno ravvisato un contrasto con il diritto europeo. Nel risolvere, però, le questioni loro sottoposte, gli stessi ne hanno, immancabilmente, fatta esplodere un’altra.
Il contrasto con il diritto europeo è stata l’unica ragione che poteva fondare la non applicazione della nuova normativa o la stessa può anche essere annullata perché incostituzionale?