Austerità: colpa del debito pubblico o solo di debiti culturali?

– LONG POST –

di Sergio Bruno

Preconcetti moralistici e debito pubblico

Chi si occupa di finanza pubblica è costretto a fare i conti con preconcetti ancestrali, come quelli che nel debito pubblico vedono un onere per le generazioni future, una somma da restituire, e solo tali cose. La predica e la pratica di principi di austerità nei bilanci pubblici si fonda su di essi. L’austerità ad ogni costo, per lo più associata a regole fisse e meccaniche, limita inutilmente il benessere delle nazioni, costringendole a funzionare a livelli di reddito e produzione minori di quanto possibile con diverse politiche. Ciò concreta una infelice scelta di rinunciare alla disponibilità di beni e servizi socialmente utili per favorire interessi privati perseguiti con logiche di mercato inadatte allo scopo.

L’assimilazione meccanica del debito pubblico a quello privato e il dovere di rispettare i patti indipendentemente da qualsiasi condizione di contesto riflettono l’incapacità o la pigrizia diffuse di articolare il pensiero. I pregiudizi si prestano ad essere sfruttati da politici e lobby che portano avanti interessi particolari, affaristici, politici o ideologici.

Riconoscere ciò è una mera constatazione, non un segno di mancanza di spirito democratico. È solo uno stimolo a operare per migliorare la democrazia divulgando conoscenza.

I preconcetti, dunque, possono impedire la costruzione di economie e società migliori. A livello europeo impediscono la costruzione di una Europa basata sulle complementarietà tra i paesi e sulla solidarietà tra di essi. Una costruzione sostanzialmente bloccata dal mantra dell’austerità, che esalta l’egoismo e nasconde il perseguimento “a tutti i costi” degli interessi dei mercati. A livello planetario ostacolano qualsiasi progetto di gestione cooperativa e pacifica del mondo.

La finanza funzionale di Abba Lerner: qualche insegnamento per oggi

Parto da quanto scritto nel 1943 da Abba Lerner, in un articolo in cui argomenta il suo concetto di “finanza funzionale” (FF)[1]. Se, come dice Keynes, è la domanda finale di merci a regolare nel breve periodo il livello del prodotto e del reddito nazionale, e se le sole forze di mercato non sono in grado di garantire che tale domanda sia adeguata, occorre intervenire con politiche che, pur lasciando il mercato libero di determinare la composizione del prodotto nazionale, assicurino un livello della domanda finale che non sia né troppo, pena inflazione, né troppo poco, pena disoccupazione o mancata saturazione della capacità produttiva.

Tasse, spese pubbliche, deficit e debito pubblico, cioè le poste aggregate del bilancio pubblico, sono nelle mani degli Stati; al contempo tali poste hanno effetti sulla domanda finale. È razionale allora che esse siano dimensionate per controllare il livello della domanda finale.

Nella FF le poste di bilancio sono meri strumenti al servizio degli obiettivi pubblici. In tale ottica le tasse non servono a “coprire” le spese, ma solo a regolare la domanda dei privati dimensionando il loro potere di acquisto in funzione della piena occupazione delle risorse e del controllo dell’inflazione. La spesa pubblica serve a sostenere la domanda finale quando la spesa privata è insufficiente. Lo Stato può scegliere se finanziare la spesa stampando moneta ovvero emettendo titoli del debito, e questa scelta “di composizione” del bilancio potrà riflettere di volta in volta altre esigenze, quali quelle concernenti il tasso di interesse ovvero la volontà di offrire una sponda redditizia ad una parte dei risparmi privati.

Una partita di giro

In un sistema “chiuso”, cioè senza libero movimento dei capitali finanziari ed in cui i titoli del debito possono essere acquistati e detenuti solo da cittadini di quel paese, nessuna altra considerazione riguardante il pareggio o meno del bilancio o il debito ha razionalmente valore. Per convincersi di ciò bastino poche riflessioni. Si supponga che in un dato istante del tempo “capiti” per caso che la distribuzione dei titoli del debito tra i cittadini sia eguale alla distribuzione tra i cittadini stessi delle tasse riscosse per pagare gli interessi sui titoli. Poiché ciascun cittadino paga in tasse quel che riceve in forma di interessi, i titoli potrebbero essere stracciati e le tasse annullate. Ciò rende evidente l’essere in presenza di una partita di giro.

Attingo da un interrogativo retorico che Pareto poneva in una corrispondenza tra studiosi (cito a memoria) per chiarire ulteriormente: le prime guerre coloniali italiane sarebbero state approvate in ogni caso dal Parlamento italiano dell’epoca, allora eletto su base censuaria, o sono state invece approvate solo perché il loro finanziamento era basato sull’emissione del debito anziché ricorrendo ad imposte straordinarie? Il punto era, per Pareto, che tali imposte le avrebbero pagate solo i ricchi, mentre il servizio del debito per anno, molto più esiguo, lo avrebbero pagato con tasse più diluite nel tempo anche i più poveri, mentre al contempo ricchi e poveri avrebbero, tutti insieme, pagato gli interessi solo ai più ricchi, quelli che all’epoca della guerra avevano “anticipato” i soldi per la guerra acquistando i titoli del debito. In altri termini, per Pareto, la scelta riguardava quale parte della collettività, quali individui (presenti e futuri) avrebbero finito per pagare. Dunque un mero conflitto distributivo, nascosto invece da una questione che appariva essere tecnica.

Altri miti, altri tabù

Queste riflessioni ci danno una diversa base per valutare altre proposizioni moralistiche, che giornali e discorsi di politici producono a tratti con non richiesta generosità: “ogni cittadino nasce con un debito di X unità monetarie”, “l’onere per le generazioni future”.

La prima affermazione è corretta ma omissiva. Ci si dimentica infatti di dire che, se il debito è sottoscritto solo da cittadini del paese ogni cittadino nasce anche con le stesse X lire di credito. Inoltre l’esempio rende chiaro che i riferimenti aggregati devono essere completi e chiari: se il problema è di ripartizione degli oneri tra cittadini ricchi e poveri (e loro discendenti), l’onere medio del finanziamento della spesa è nullo e, per vedere se il l’azione finanziata -nel caso prospettato la guerra- costituiva o meno un vantaggio per la collettività, presente e futura, occorre vedere, cinicamente, solo l’esito della guerra: vittoria o sconfitta.

Quanto al fatto che esista o meno un onere per le generazioni future, di nuovo, si tratta di esaminare il problema in tutta la sua complessità. Non c’è evento che non abbia effetto sia sul presente che sul futuro. Tutti noi viviamo sempre anche sulla base di quello che hanno costruito, ovvero mancato di costruire, le generazioni precedenti. Quanto qualsiasi generazione gioisce o soffre dipende anche da quanto eredita. È un debito (o un credito) non ripagabile, se non operando bene “in funzione” delle generazioni future.

Si rifletta allora su questo interrogativo: se l’abbassamento del rapporto tra debito pubblico e prodotto nazionale, voluto dalla maggioranza dei governi europei, viene perseguito con l’austerità e questa, come è quasi ovvio, implica minore spesa, e quindi anche minori investimenti produttivi e di innovazione, le generazioni future si troveranno meglio o peggio?

Il punto è che raramente si ragiona sulla base di controfattuali.

Aggiornamenti

Il quadro di Lerner va aggiornato per tener conto delle trasformazioni successive alla Seconda Guerra Mondiale, che hanno infatti cambiato il quadro entro il quale si collocano i debiti pubblici nazionali: (i) l’accelerazione della patrimonializzazione delle economie, per ciò intendendo l’aumento dei valori connessi ai patrimoni improduttivi, in gran parte imperniati su attività finanziarie e speculazioni; (ii) la successiva liberalizzazione della circolazione internazionale dei “capitali finanziari”, aspetto essenziale della c.d. “globalizzazione”. Vediamo solo le ripercussioni sul quadro europeo.

Il debito non è più un fatto nazionale, il pagamento degli interessi all’estero pone costi effettivi per il paese nel suo complesso come qualsiasi prestito estero, emerge un problema di sostenibilità che titoli detenuti da soli cittadini dello stesso paese non avrebbero, in ogni caso i paesi con un maggiore rapporto debito/PIL hanno margini di spesa più ristretti a parità di pressione fiscale.

La situazione è più “ingarbugliata” di quanto avverrebbe nel caso di un prestito tra nazioni o con una istituzione internazionale. Quest’ultimo tipo di prestito sarebbe associato ad un insieme di patti definiti al momento della stipulazione del prestito. Nella situazione attuale invece siamo (a) in presenza di acquisti di titoli di una nazione effettuati da soggetti privati di altre nazioni, in particolare effettuati perché più redditizi quale conseguenza del fatto che sono ritenuti, a torto o a ragione, più rischiosi ma che (b) costituiscono il presupposto che ha finito per indurre gli stati con un minore rapporto debito/PIL a voler imporre con l’austerità una disciplina politica di “rientro dal debito”. Lo scopo è quello di proteggere gli acquirenti del proprio paese dai pretesi rischi di “insolvenza” associati agli acquisti dei titoli più redditizi.

Mi sembra francamente troppo. Si tratta infatti di un caso in cui il rischio privato, fonte oltremodo evidente della maggiore redditività al momento dell’acquisto, viene in modo anomalo “europeizzato per via politica” a posteriori, invece di restare solo un fatto “privatistico”, come sempre accade per chi investe in titoli rischiosi. In questo caso, cioè, i governi dei soggetti privati che hanno comprato i titoli “rischiosi” di altri paesi intervengono in sede comunitaria per proteggere ulteriormente i propri investitori speculativi.

I paesi europei sono arrivati alla liberalizzazione del movimento dei capitali e poi all’Unione monetaria sottovalutando le problematiche relative all’esistenza di diverse storie fiscali e monetarie pregresse, quelle cioè che hanno portato ciascun paese ad avere un diverso rapporto deficit/PIL al momento dell’avvento della moneta unica.

Tali storie possono essere dipese da una pluralità di scelte ed eventi anche casuali passati, non solo riguardanti l’entità del deficit annuo, ma anche la diversa proporzione in cui i deficit sono stati finanziati, con titoli ovvero stampando moneta (la stampa di moneta non lascia una storia “ufficiale” dietro di sé, riguardando solo i rapporti tra Tesoro e Banca centrale; si “gioca in casa”. Solo lo stock dei bond lascia traccia), ovvero perfino il “quando” particolari deficit sono stati fatti, essendo stati variabili nel tempo sia le esigenze che i tassi di interesse. È per l’insieme di queste ragioni che ad una stessa sequenza di deficit possano corrispondere ad una certa data rapporti debito/PIL diversi.

Il punto cruciale è che un paese che inizia a far parte di una unione monetaria con un più alto rapporto debito/PIL ha un più limitato margine di manovra dopo l’ingresso, perché il suo bilancio è annualmente gravato dal servizio di un debito relativo maggiore. Ad Unione avvenuta ciò significherà una condanna perenne ad una fatica maggiore o addirittura ad un peggioramento crescente, legato al fatto di poter spendere una proporzione sempre minore in investimenti infrastrutturali, sanità, istruzione, lotta alla povertà.

La responsabilità, allora, è del debito o del cambiamento incauto e poco ponderato in materia di liberalizzazione del movimento dei capitali finanziari e di moneta unica? E adesso che la frittata è fatta ha senso che gli stati “europeizzino” l’onere di incaute assunzioni di rischio da parte dei soggetti privati (soprattutto banche) che altrimenti avrebbero speculato con altri mezzi sopportandone in proprio i rischi? Ed è realmente vero il rischio corso dai soggetti che hanno acquistato (perché più redditizi) i titoli dei paesi con maggiore rapporto debito/PIL o è ingigantito da modi inadeguati di valutare l’effettivo rischio adottati da governi e agenzie?

Riaprire riflessioni, riaprire i giochi

Ciò che emerge da questa sequenza di riflessioni e interrogativi è che, nel procedere alla costruzione europea, prima e dopo la svolta della moneta unica, i protagonisti che hanno guidato modi e tempi della costruzione stessa hanno tragicamente sottovalutato una notevole lista di problemi la cui esistenza avrebbe dovuto suggerire cautela, una inversione di molti dei passi che sono stati fatti, il compimento di passi che sono invece mancati.

La liberalizzazione del movimento internazionale dei capitali finanziari[2], in presenza di rapporti debito/PIL così diversificata, non avrebbe dovuto essere fatta. Non prima, almeno, di essersi posti il problema dell’inevitabile conflitto distributivo latente, che si sarebbe esacerbato e che avrebbe avvelenato i pozzi successivamente, ponendo seri ostacoli alla costruzione di una Europa federale.

Tutti vedono solo gli oneri del debito. Un onere reale oggi esiste certo -e l’ho detto- per i paesi a più alto rapporto debito/PIL, ma esiste per l’Europa nel suo complesso?

Nella misura in cui i titoli dei paesi europei “esportatori di titoli” fossero posseduti solo da soggetti europei si sarebbe già rientrati a livello europeo nel caso della partita di giro chiarita da Pareto e saremmo comunque in una situazione di piena applicabilità dei principi di finanza funzionale.

Ciò, addirittura, riaprirebbe la strada dei benefici associati a tutto ciò che si può fare per tutti grazie a spese pubbliche in deficit sia quando il deficit è finanziato da risparmi che difficilmente o solo in parte sarebbero andati ad investimenti produttivi, sia da quanto la BCE potrebbe finanziare stampando moneta per finanziare un deficit europeo.

Conta solo come si spende la moneta, come si usa il suo potere di comando

E dunque ritengo che all’interrogativo se oggi il debito pregresso produca effetti negativi su sviluppo e benessere dell’Europa nel suo complesso si debba dare una risposta sostanzialmente negativa. Le vicende della economia reale dipendono dalle dimensioni dei flussi e dalle modalità e dalle destinazioni che ne vengono fatte -diciamo così, periodo per periodo- e non dalle vicende distributive (a meno ovviamente che la loro regolazione non retroagisca sull’impiego dei flussi).

Quello che conta è come vengono, ora, spesi i flussi, come viene usato oggi il potere di comando sulle risorse costituito dalle unità di moneta: quanti investimenti produttivi, quante scuole, quanti ospedali, quanto personale specializzato, …, in coerenza con quali strategie industriali europee e con quali strategie geopolitiche europee.

Spesso si sente dire che le regole di bilancio servono perché in caso di crisi internazionale i paesi con maggiore rapporto debito/PIL costituirebbero “l’anello debole” dell’Europa. Ma se l’Europa si ponesse come obbiettivo la costruzione di maggiore solidità, benessere e sicurezza, fatta di una maggiore cooperazione tra stato e mercato (come bene illustrato da Mariana Mazzuccato) e tra paesi europei, non costituirebbero queste azioni la migliore difesa dall’insorgere di crisi, unitamente ad un restituito ruolo di prestatore di ultima istanza attribuito alla BCE?

Queste domande sono tanto più cruciali quanto più il dibattito sul “saving glut” (l’eccesso dei risparmi monetari di famiglie e imprese sugli investimenti produttivi) pone in evidenza la rilevante probabilità che si sia oggi in presenza sia di una carenza di investimenti produttivi sia di una eccessiva formazione di liquidità che si riversa in riserve di valore orientate alla speculazione da parte dei c.d. “investitori istituzionali”, che condizionano non solo i mercati borsistici ma anche (“vediamo come reagiscono i mercati”) la politica. E questo è molto grave. Mi domando spesso cosa ne avrebbe pensato il “grande conservatore”, Bismarck, uno dei più efficaci “domatori di mercato”, insieme a Roosevelt, che la storia abbia conosciuto, il padre dei più grandi e precoci esperimenti di politica sociale.

Alcuni spunti non risolutivi

(1) Sarebbe opportuno consentire ai singoli paesi un deficit, dimensionato in misura compatibile con l’inflazione, da usare per le sole spese per investimenti produttivi, possibilmente definiti all’interno di una politica industriale europea.

(2) Sarebbe anche opportuno dare ai paesi con più alto rapporto debito/PIL la possibilità di emettere titoli sottoscrivibili e detenibili solo dai cittadini e dai residenti nel paese che li emette. Ciò darebbe a quei paesi, ove lo vogliano, l’opportunità di compensare le difficoltà che incontrano (data la situazione pregressa) a finanziare comunque le voci più importanti di politica sociale.

(3) In ogni caso potrebbe essere opportuno finanziare la crescita della base monetaria non solo con operazioni di mercato aperto, cioè acquistando titoli di vecchia emissione stampando moneta, ma anche emettendo debito europeo per finanziare una parte degli investimenti pubblici green, complementari alle politiche industriali, educative e sanitarie dei paesi membri.

(4) Il bilancio europeo dovrebbe assumere rapidamente dimensioni maggiori, finanziandolo con

(5) imposte che adeguino il peso fiscale sui redditi patrimoniali e da capital gains a livelli comparabili con quelli della tassazione del lavoro e dei profitti industriali, anzi preferibilmente superiori, nonché

(6) con una maggiore tassazione della ricchezza improduttiva e delle fonti di rendite. Potrebbe essere saggio infine

(7) riprendere il controllo dei movimenti internazionali dei capitali finanziari, restringendo in particolare gli acquisti di titoli del debito europei da parte di privati o paesi extraeuropei.

Sarebbe infine molto importante per l’Europa riflettere sull’idea, portata avanti da Keynes a Bretton Woods, che una maggiore solidarietà internazionale possa tangibilmente rendere. Mi riferisco all’esigenza di passare da una strategia di rientro degli squilibri asimmetrica ad una strategia simmetrica. A Bretton Woods Keynes proponeva di non limitarsi a subordinare i prestiti internazionali ai paesi deficitari all’adozione di politiche che restringano le importazioni e favoriscano le esportazioni, ma suggeriva anche di sanzionare anche gli eccessi prolungati di surplus, costringendo di fatto i paesi che li hanno a praticare politiche espansive. Oggi si tratterebbe di rendere effettivi gli obblighi di praticare politiche espansive ai paesi con minore rapporto debito/PIL.

La conformazione a tenaglia della strategia suggerita da Keynes avrebbe fatto sì che le politiche di riequilibrio si realizzassero ad un livello più alto di produzione e benessere per tutti, con un volume più alto di commercio internazionale, in tempi più rapidi, limitando la durata delle giacenze di riserve di valore inutilizzate. In una Europa che applicasse strategie simmetriche tutta l’Europa marcerebbe a maggiore velocità, il quadro diverrebbe meno incerto, l’ottimismo potrebbe far riprendere strategie più cooperative.

La strategia di Keynes prevedeva di restringere il movimento internazionale dei capitali a quelli associati ad investimenti reali, idonei ad alimentare la domanda finale e ad allargare in futuro la capacità produttiva, e di reprimere attacchi speculativi ai paesi in deficit. Qualcosa di analogo dovrebbe valere oggi per l’Europa.

Solo gli investimenti in capacità “costruiscono” il futuro. In talune circostanze essi possono essere “rivali” del consumo immediato, perché investire produttivamente può implicare il rinunciare, per un tempo più o meno lungo, al consumo nell’immediato avvenire per potere avere più consumo in periodi successivi. Al contempo costruire è faticoso e rischioso, e richiede comandi monetari opportunamente selettivi. Per investire si richiedono infatti conoscenze, sacrifici, sperimentazioni, rischi ben diversi da quelli richiesti per il consumo. Per questo gli sprechi, le opzioni trascurate, il mancato uso strategico del potere di comando della moneta, sono errori che fanno rabbia. Ancor più rabbia se sono dovuti a pregiudizi moralistici.

[1] L’articolo altro non fa che disvelare le crude e dirette implicazioni della Teoria Generale (TG) di Keynes; tanto che le c.d. politiche keynesiane andrebbero secondo molti studiosi attribuite a Lerner.

[2] Un passo che ha sempre trovato, non a caso, il dissenso di Keynes, in particolare del Keynes che preparava e guidava la delegazione britannica a Bretton Woods.