Che fine ha fatto il diritto pubblico dei vaccini?
di Alessandra Pioggia
Quale ruolo sta giocando il diritto pubblico nella questione dei vaccini che dovrebbero immunizzarci dal Covid-19?
Non si tratta solo di una curiosità da cultrice di questo diritto, ma della legittima domanda, che come cittadini possiamo ben porci, sul ruolo che sta interpretando lo Stato in tutto questo.
Scegliere quale diritto usare, infatti, non è senza conseguenze, ed è una scelta che solo lo Stato ha il potere di fare. Il diritto pubblico è il diritto delle scelte comuni, della tutela degli interessi generali, della visione politica delle cose. Impiegarlo vuol dire anche decidere responsabilmente di utilizzare il potere (pubblico) per modificare l’equilibrio delle relazioni che la società e il mercato raggiungerebbero spontaneamente se lasciati a loro stessi. Un diritto, quindi, diverso da quello privato che invece incide molto debolmente sui rapporti di forza, basati sulla differenza fra chi ha la proprietà di qualcosa e chi ha bisogno di quella cosa e, quindi, con il primo deve venire a patti.
Per dare ordine al ragionamento possiamo domandarci quanto il diritto pubblico sia entrato nella vicenda dei vaccini nelle fasi in cui questa si è snodata sino ad ora.
La prima è quella relativa alla ricerca e sviluppo del vaccino. Qui il diritto pubblico è entrato poco e tardi. Pubblico è in buona parte il finanziamento della ricerca, ma non è pubblica la ricerca. Sorprendente questa rinuncia, dal momento che da sempre gli Stati commissionano ricerche utili alla cura degli interessi pubblici, nella forma, per l’appunto, di contratti di ricerca, che prevedono in quasi ogni caso la proprietà pubblica del prodotto della ricerca. Questa è la regola nei contratti di ricerca a fini militari, ma non lo è stata per la produzione di un farmaco, fondamentale nella lotta alla pandemia, come il vaccino.
Fra le tante conseguenze di questa rinuncia ad una ricerca pubblica, c’è ne è una che ha inciso sulle scelte di sperimentazione: non sappiamo se le persone vaccinate restino o meno vettore di contagio, anche perché questo dato non è stato oggetto di specifica ricerca. Certo, ciò è avvenuto anche per velocizzare i passaggi della sperimentazione, ma c’è da dire che si tratta un dato che è stato facile sacrificare, perché non è un fattore che l’impresa farmaceutica ritenga strategico conoscere in prospettiva commerciale. Strategico sarebbe invece stato per le politiche pubbliche di contenimento della pandemia.
La seconda fase è quella di approvvigionamento del vaccino. Anche qui incontriamo poco diritto pubblico e debole. La mancanza di ricerca pubblica ha determinato la necessità di acquistare vaccini privati. E gli Stati hanno scelto (non era l’unica possibilità) di farlo muovendosi come acquirenti privati nel libero mercato. Le misure “pubbliche” assunte sono state molto marginali. Quella essenziale riguarda il coordinamento europeo delle opzioni di acquisto. Ma, anche qui, l’esito non è quello della costituzione di un interlocutore pubblico sovranazionale, ma di un super-acquirente privato, che non è stato in grado, peraltro, neanche di strappare, nonostante la dimensione, accordi contrattuali particolarmente vantaggiosi. Basti pensare alle clausole che proteggono i giganti farmaceutici dalle conseguenze dei possibili effetti avversi dei vaccini o la mancanza di condizioni contrattuali che vincolino le consegne anche di fronte a cambi di strategia commerciali del venditore. Le conseguenze sono i continui tagli sulle consegne, che stravolgono settimanalmente la programmazione vaccinale del nostro Paese, e una politica vaccinale, anche a livello internazionale, completamente in mano alle case farmaceutiche, per cui vaccina di più chi paga di più.
C’era, c’è un’altra strada?
E qui mi esprimo da studiosa di diritto pubblico per confermare che esiste una via diversa, definita dal senso e dal fine stesso del potere pubblico. Una autorità e un diritto che servono, per l’appunto, a descrivere una prospettiva alternativa a quella che prende spontaneamente corpo nel libero incontro di poteri privati (economici o di fatto). Gli strumenti sono diversi. Possiamo richiamarne alcuni, a partire da quelli meno incisivi, che riguardano la trasparenza nei contratti pubblici, o l’inserimento di clausole a garanzia del contraente pubblico, fino alle requisizioni, alle espropriazioni, e ai limiti alla proprietà brevettuale. Questi ultimi sono stati richiamati come possibile misura nel dibattito internazionale sul vaccino come bene comune, soprattutto da parte dei Paesi che hanno minore capacità di acquisto. Ne esistono di carattere nazionale (la licenza obbligatoria prevista dal d.lgs. 30 del 2005, art. 141) e sovranazionale (la sospensione temporanea di tutti gli obblighi contenuti nella Sezione I, Parte II dell’Accodo TRIPs – quella concernente copyright e brevetti). La sospensione del brevetto servirebbe a rendere i vaccini autorizzati producibili ovunque, da ogni casa farmaceutica, rendendoli disponibili in gran numero, più velocemente, a costi minori. Si tratta di una misura ammessa in caso di emergenze sanitarie, che, tuttavia, non è stata in alcun modo presa in considerazione, nonostante le pressioni internazionali di alcuni paesi come Sudafrica e India in questa direzione. E non c’è dubbio che, anche a prescindere dal suo effettivo impiego, la disponibilità a valutarne l’uso avrebbe rafforzato anche la posizione contrattuale dell’Unione. Ma quest’ultima non è propensa a farsi autorità pubblica con strumenti di questo genere, basti pensare che per tutto il primo decennio di questo secolo ha inserito negli accordi commerciali con paesi extraeuropei l’obbligo a non utilizzare questa clausola degli accordi TRIPs.
La questione non riguarda solo l’impiego puntuale di questi strumenti, che certo non è facile, ma senz’altro possibile, ma anche come si sia coscientemente deciso di non prenderli neanche in considerazione, privilegiando una logica di politica vaccinale che vede gli Stati operare nel mercato come acquirenti privati, singoli o organizzati. Ne deriva anche una politica internazionale di sostegno ai Paesi più poveri costruita unicamente come impegno di acquisto di dosi “in più” da mettere a disposizione di chi ha meno mezzi. Ma come può ben accadere in una logica di discrezionale privata beneficienza, e non di doverosa pubblica tutela dei diritti umani fondamentali, il bene dei deboli viene dopo il bene dei forti. E così tutto l’impianto del COvax (questo il programma di acquisto e distribuzione dosi ai paesi in difficoltà) è messo in crisi dal fatto che gli Stati benefattori pensano prima a loro e acquistano un numero di dosi per sé che trasforma quelle messe a disposizione in poche briciole (per ora il 50% dei vaccini sono andati al 15% della popolazione mondiale) e, anche nelle stime meno pessimistiche, alcune popolazioni nei Paesi a basso reddito potrebbero dover attendere almeno fino al 2022 per vedere qualche dose di vaccino varcare i loro confini.
Vengo alla terza fase, quella di somministrazione del vaccino. Qui troviamo una autorità pubblica che fatica ad essere incisiva, proprio perché arriva al termine di un percorso in cui il diritto pubblico è stato assente o debole. È sotto gli occhi di tutti come l’organizzazione della campagna vaccinale pubblica subisca continue revisioni, a causa dei ritardi e dei tagli nelle consegne, decisi unilateralmente dalle case farmaceutiche produttrici. In questi ultimi giorni si stanno vagliando a livello nazionale ipotesi di incremento della produzione in sede nazionale, previo accordo contrattuale con le imprese produttrici che detengono la proprietà del brevetto. Una misura di politica industriale con strumenti di promozione di accordi fra imprese, quindi, non di intervento pubblico in senso proprio. Ma comunque una misura opportuna di fronte all’urgenza di fermare le nuove varianti che non si è del tutto certi di poter contenere con i vaccini già sviluppati. Resta il dubbio che se ne cominci a parlare solo ora (la scarsa disponibilità delle dosi non è certo una sorpresa) perché la presenza delle varianti rende insicuri i ricavi dei vaccini già in commercio. Un’altra ombra sull’autonomia delle scelte pubbliche.
L’ultima fase, o meglio questione, è quella relativa al diritto pubblico come diritto dell’autorità nella regolazione della prestazione vaccinale. Qui ci troviamo senz’altro nel pieno dominio del diritto pubblico, che solo può regolare le priorità nell’accesso alla vaccinazione, un eventuale obbligo a vaccinarsi o, ancora, intervenire con misure promozionali che incentivino la libera scelta di farlo o meno. Non c’è dubbio che qui il pubblico ci sia. Ma, di nuovo, è un pubblico che subisce le conseguenze della sua assenza nelle fasi precedenti. La scarsa disponibilità dei vaccini, la cui produzione è ancora tutta privata e limitata alla casa produttrice, impone decisioni pubbliche di scrematura iniziale su chi può ricevere il farmaco e i conseguenti divieti a vaccinare chi non rientra nelle categorie alle quali si è data la priorità. E, anche una volta fatte queste scelte, non è sempre possibile garantire in tempi adeguati la soddisfazione del diritto alla prestazione e, quando da un ritardo può dipendere il mantenimento della salute o addirittura la vita di una persona, il pubblico si espone a dover rendere conto della mancata erogazione. Anche sul fronte delle conseguenze dell’avvenuta vaccinazione, si possono presentare problemi. Basti l’esempio della cosiddetta “patente di immunità”, che indubbiamente pone la questione del rapporto con il principio di uguaglianza e il diritto pubblico non può non tenere conto del fatto che, se la mancata vaccinazione non dipende da una libera scelta, ma da un limite di disponibilità del vaccino deciso dalla casa produttrice, da essa non può discendere legittimamente un diverso trattamento.
La debolezza e la scarsa incisività del diritto pubblico in tutte le fasi della vicenda vaccinale è il segnale di un arretramento culturale delle ragioni del bene comune di fronte al potere del mercato, in un quadro in cui il potere pubblico finisce per essere chiamato a governare le conseguenze di scelte fatte dall’impresa con logiche di puro ricavo economico. Quello della pandemia era ed è un banco di prova, per così dire, estremo, nel senso che se non si impiegano ora, che la collettività si presenta più fragile ed esposta, gli strumenti che sono stati pensati per proteggerla, è legittimo il dubbio che di questi strumenti si sia perduto per sempre il senso e il significato.
Alessandra Pioggia è professoressa ordinaria di diritto amministrativo presso l’Università degli Studi di Perugia, dove insegna, fra l’altro diritto sanitario. E’ autrice di oltre 130 saggi sui temi dei diritti fondamentali, dell’organizzazione sanitaria, della dirigenza amministrativa e dei servizi pubblici.