Continuità e discontinuità nel diritto pubblico: fili e nodi
di Pierluigi Portaluri
1. Per iniziare
Riprendo testualmente due punti della colta riflessione di Leonardo Ferrara, che condivido (non accade spesso: l’oraziana concordia discors…):
– possono considerarsi ancora «attuali le ragioni della necessaria discontinuità» nel diritto pubblico, ma a patto di riconoscere «che continuità e discontinuità sono in dialettica perenne e che quella che era una discontinuità può essere ora vista come una continuità», potendosi in questo senso parlare di «continuità delle ragioni della necessaria discontinuità»;
– «le ragioni più elevate della discontinuità corrispondono alla ricerca a tutti i livelli della somiglianza», perché quando il diritto pubblico pone gli individui in condizione di «vedere somiglianze che non vedono», li rende «meno intolleranti e forse anche più interessati all’altro». Ci tornerò alla fine.
2. Continuo e discontinuo (contraria sunt complementa)
Meritorio l’accento posto da Ferrara sul fatto che, anche nel diritto pubblico, continuità e discontinuità siano immerse «in un giuoco di specchi» (traggo dal titolo del suo bel saggio di otto anni fa).
Penso a Pugliatti. Un Maestro che nel 1972-1973 – ultimo anno di insegnamento – dedicò il corso alle ibridazioni fra diritto civile e diritto amministrativo (le lezioni furono raccolte da Trimarchi: Id., 2017).
La tensione continuità/discontinuità lo affascinò per tutta la vita. Il suo Continuo e discontinuo nel diritto (siamo a metà degli anni ’50) riproduceva originariamente una lezione universitaria da lui tenuta nel 1941. La Nota su continuo e discontinuo, una sorta di postilla allo scritto precedente, restò incompiuta: fu assemblata e riordinata da Falzea (che ne avvicinò il valore, nella sua non finitezza, alla Pietà Rondanini) poco prima della morte di Pugliatti, nel 1976 (entrambi i contributi sono in Grammatica e diritto, 1978 e negli Scritti giuridici, 2011).
Allo stesso modo si avverte, dietro e dentro le parole di Ferrara sulla dialettica continuità/discontinuità, l’eco di altri pensatori: Calasso (la celebre relazione nel X congresso internazionale di scienze storiche del 1955, Pensieri sul problema della “continuità” con particolare riguardo alla storiografia giuridica italiana, ora in Storicità del diritto, 1966); o Ascarelli, che riconosceva una «discontinuità nella continuità» quando «la discontinuità giuridica […] non va a discapito della continuità ordinamentale» (Grondona, Premesse per una discussione sul rapporto tra continuità e discontinuità nel diritto civile. A partire dalla lezione di Tullio Ascarelli, 2021).
Pugliatti accostava il diritto alla fisica (lo sottolinea Pinelli, Variazioni su stabilità e mutamento nel diritto costituzionale, 2014), alle ricerche della Scuola di Copenaghen che, per spiegare il rapporto tra discontinuo (corpuscolo) e continuo (onda) nella luce, aveva teorizzato il principio di complementarità (Bohr, 1927): se discontinuo e continuo non possono manifestarsi simultaneamente, ciò accade solo perché ogni esperimento che permetta di osservare l’uno impedisce di osservare l’altro; a essere osservabile non è infatti l’in sé dell’oggetto, bensì quell’oggetto in condizioni determinate. Per cui il presentarsi sotto una forma o sotto l’altra dipende dal tipo di strumento con cui si cerca di rilevarlo. Ma le due nature – corpuscolare oppure ondulatoria – si integrano indissolubilmente, senza alcuna contraddizione logica: solo considerandole entrambe contemporaneamente può aversi una comprensione completa dell’oggetto. Contraria sunt complementa è il motto che Bohr incise nel suo stemma nobiliare, sopra il simbolo del Dao.
Non entro nella discussione sulle vedute “fisicaliste” del diritto pubblico (Bin, A discrezione del giudice. Ordine e disordine: una prospettiva “quantistica”, 2013 e la critica di Buffoni, La filosofia della scienza e lo studio delle fonti del diritto: appunti per una critica del “fisicalismo” giuridico, 2014). Credo che il principio di complementarità possa comunque estendersi, nella sua portata metodologica, anche alle scienze sociali (tanto da essere stato esplicitamente ripreso da Morin per sue riflessioni transdisciplinari sulla complessità) e, dunque, nello studio del giuridico.
Il suggerimento di Ferrara è prezioso per il giuspubblicista: pensare continuità e discontinuità come concetti non contradittori (o meglio, tali solo nel loro apparire), ma complementari (nel loro essere). Proprio perché discontinuità e continuità si implicano e si esigono reciprocamente, può (deve) riconoscersi la necessità di una continuità della discontinuità.
3. Discontinuità e Costituzione
In Continuo e discontinuo nel diritto Pugliatti distingueva tra decostituzionalizzazione (come processo «graduale e insensibile» in cui una serie di «infinitesimi leibniziani […] sono, come molteplici singolarità, irrilevanti, perché rilevano unicamente nell’unità e nel suo moto o ritmo vivente») e rottura della Costituzione (come fatto «brusco e visibile»).
Ferrara assume una posizione chiara: i giuspubblicisti, senza esitazioni, si devono impegnare per difendere il Libro e le «ragioni della discontinuità» in esso trasfuse (sebbene mai attuate pienamente) con i «valori liberaldemocratici», da un lato; il «fondamentale progetto sociale sottostante al principio di eguaglianza sostanziale», dall’altro.
È questo il senso con cui Ferrara parla di difesa della Costituzione: guardando cioè non tanto al suo testo formale (passibile di mille letture, disletture e storture: più o meno in buona fede, come dirò), quanto alla «identità dell’ispirazione di ieri e di oggi». Ispirazione che fonda la «necessità di una continuità» (da garantire per il futuro) «di un ideale, di un progetto, di una finalità»: le «ragioni della discontinuità» segnata irreversibilmente dalla Costituzione.
Vero: «la necessaria discontinuità è una condizione perenne […] perché la realtà corre sempre più veloce delle idealità: non c’è progetto che possa dirsi realizzato una volta per tutte». Ne viene – per Ferrara – l’avversione a progetti di riforma che, tradendo questa ispirazione, rischino di innescare una discontinuità della discontinuità.
Si può non condividere il giudizio negativo sui progetti di riforma presidenzialista o semipresidenzialista che – secondo Ferrara – aggraverebbero fenomeni corporativi e meccanismi di do ut des; esaspererebbero contrapposizioni, semplificazioni, personalizzazioni; aumenterebbero le diseguaglianze, concentrerebbero il potere e indebolirebbero il controllo.
Si deve però concordare, nel metodo, con l’appello a restare tetragoni su alcuni fondamentali del progetto costituzionale, che è ancora inattuato, come ha ricordato Cassese nel fascicolo sulla Costituzione dimenticata nella RTDP 2021: «certo è […] che il disegno complessivo della Costituzione voluto dai costituenti sia stato tradito».
Quei fondamentali sono almeno due:
– il primato della persona, anche contro tentazioni organicistiche e corporativistiche;
– l’eguaglianza sostanziale.
È molto bello, circa il tema delle diseguaglianze, il collegamento che Ferrara istituisce tra «le ragioni più elevate della discontinuità» del progetto costituzionale e la «ricerca a tutti i livelli della somiglianza».
Quella somiglianza – nel suo rapporto con la differenza e l’uguaglianza – su cui riflette, in prospettiva antropologica, Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza, 2019, criticando «la guerra contro le somiglianze» condotta dalla tradizione filosofico-culturale dell’Occidente e parteggiando invece per «la forza delle somiglianze»: onde il nuovo, denso lemma di con–dividuo.
Ma forse non v’è neppure necessità dell’imaginifico, del verborum conditor. Basta iniziare il desiato viaggio fantastico a ritroso nel tempo, abbracciati a una parola. Come Louis Lambert, l’eroe dell’omonimo romanzo di Balzac: «Spesso […] ho compiuto viaggi meravigliosi negli abissi del passato a bordo di una parola, come un insetto che galleggi sopra a un filo d’erba in balia del fiume. Partito dalla Grecia, arrivavo a Roma e attraversavo la distesa delle epoche moderne. Che libro meraviglioso si potrebbe comporre narrando la vita e le avventure di una singola parola! È probabile che ogni vocabolo sia stato modellato dalle diverse occasioni in cui se n’è fatto uso e, secondo i luoghi, abbia significato concetti differenti […]. Ma non è forse così per ogni parola? Tutte sono impregnate di un potere vitale che ricevono dall’anima, a cui lo restituiscono in virtù dei misteri di un’azione e reazione meravigliose tra parola e pensiero».
Quella parola è cives. Ne abbiamo perso il senso profondo. Questo: «Il termine cives, che viene definendo il suo significato, non designa originariamente coloro che abitano una città: esso è il termine matrice di civitas. Il suffisso –tas in latino indica una “condizione”, un “modo di essere” e quindi civi-tas indica innanzitutto la “condizione giuridica, lo status di civis”, e, come è stato sottolineato, esso, spesso accompagnato dall’aggettivo possessivo ‘mio’ fin da usi antichi, esprime un significato di “con-cit- tadino”: cives sono i “con-cittadini” l’uno dell’altro, in una strutturale relazione di reciprocità, di mutualità, di condivisione» (Schipani, Le vie dei codici civili. La codificazione del diritto romano comune e l’interpretazione sistematica in senso pieno. Per la crescita della certezza del diritto, 2023, che rimanda a Benveniste: «La costruzione con il possessivo rivela di fatto il vero significato di civis, che è un termine di valore reciproco e non una designazione oggettiva: è civis per me colui del quale io sono il civis meus; per cui civis non può significare altro che “il mio concittadino”» (Benveniste, Deux modèles linguistique de la cité, in Échanges et communications, in Mél. Lévi-Strauss, 1, Mouton-L’Aia, 1970, 589 ss., ora in Id., Problèmes de linguistique général, II, Parigi, 1974, 274).
Nel lessico costituzionale moderno, il dovere repubblicano ex art. 3, comma 2, Cost., di «rimuovere gli ostacoli» che, anche «di fatto», limitano «la libertà e l’eguaglianza» e «impediscono il pieno sviluppo della persona umana», la sua partecipazione «effettiva» alla «organizzazione» del Paese, richiede di attuare processi di riequilibrio delle disparità esistenti (da quelle personali a quelle socio/economiche e territoriali), di non lasciare nessuno escluso o sfavorito in partenza, di federare le diversità attraverso l’accrescersi dei punti di contatto, delle comunanze, dei ponti, dei collegamenti, anziché arrestarsi alla mera declamazione di somiglianze puramente formali/legali.
Gli stessi principî personalistico e solidaristico, che postulano la necessaria relazione di ciascuno con gli altri nel concorso al progresso spirituale e materiale della società, resterebbero mere mitografie in un contesto di conflittualità solipsistiche e di silos non comunicanti, di chiusura nell’assolutizzazione delle differenze e refrattarietà nei confronti di una ricerca ostinata delle somiglianze. La tolleranza, la compassione, il Mitleid verso l’altro essere sarebbero a rischio e, con essi, la tenuta dell’edificio costituzionale che li esige.
Verso l’altro essere – dicevo – umano o non. Non intendo occuparmi dell’inutile riforma dell’art. 9 Cost., nata vecchia. E persino pericolosa, poiché ha osato poggiare la mano sulla sacertà dei dodici apostoli, i Principi fondamentali del Libro. Qui preferisco pensare alle altezze del Parsifal, quando parla il mistagogo Gurnemanz e ricorda il vaticinio del Re colpevole, Amfortas: «Vor dem verwaisten Heiligtum in brünst’gem Beten lag Amfortas, ein Rettungszeichen bang erflehend: ein sel’ger Schimmer da entfloss dem Grale; ein heilig’ Traumgesicht nun deutlich zu ihm spricht durch hell erschauter Wortezeichen Mahle: “durch Mitleid wissend, der reine Tor, harre sein’, den ich erkor”» («Davanti al santuario deserto Amfortas si prostrò con fervida preghiera, ansioso supplicando un segno di salvezza: ed ecco dal Graal un divino bagliore fluire; una sacra apparizione ora a lui chiaro parla in rilievo di parole luminose alla vista: “per compassione sapiente, il puro folle, costante attendilo, che io ho eletto!”». E poi: «Unerhörtes Werk! Du konntest morden, hier im heil’gen Walde, des’ Stiller Friede dich umfing? Des Haines Tiere nahten dir nicht zahm, Grüssten dich freundlich und fromm?» («Opera inaudita! Hai potuto uccidere, qui nella foresta sacra, la cui pace silente t’avvolgeva? Non ti si accostarono mansuete le creature del bosco, salutandoti insieme pie ed amiche?)». Nota Isotta, 2017, che Parsifal volge il suo primo Mitleid proprio alle creature non umane.
Per significare l’entanglement indissolubile fra uguaglianza e libertà forse non v’è bisogno d’un lemma nuovo: “égaliberté” (Balibar, 2010).
4.- Ferrara e Zagrebelsky
Lasciamo perdere Coketown e gli Hard Times. Dickens non era parte del problema: lo denunciava.
Ferrara difende la Costituzione senza allinearsi con Zagrebelsky e i suoi Tempi difficili: non si concentra sul solo hortus conclusus del diritto costituzionale, né divide la dottrina in buoni (i costituzionalisti) e cattivi (i costituzionisti).
A pensarci bene, quella è una distinzione che a me piace molto. Purché la si intenda in un modo leggermente diverso. Parlo solo del secondo tipo, il costituzionista: il primo ne viene de residuo. Costui è l’erede di Schmitt prima e seconda maniera impastato insieme: rampante Kronjurist e dolente Benito Cereno.
Pronto, da prima, a sguainare la Costituzione contro il Feind per difendere il Freund: a brandire chiodato la propria Costituzione, quella cioè che ha “violentato” – ovviamente “a fin di bene” (v., praticamente testuale, la feroce critica di E. Conte, 2002) – per farle dire ciò che aggrada a lui o al suo variopinto e munifico dante causa: entrambi indifferenti ai baratri di incertezza, di potere incontrollabile, che così si aprivano.
Prontissimo, di poi, a riposizionarsi intonando fervidi canti di penitenza in nome della certezza, dei suoi – prima da lui vilipesi – efori. Rappel a l’ordre. Valori plastici. Ritorno forse un po’ tardivo e non proprio libero in causa, se dovessimo per un attimo cedere alla vieta tentazione di dar retta – ricordiamo Orlando che risponde a Santi Romano sulla quaestio dei due primi Marescialli? – alle «altrui malignità».
Zagrebelsky questi eroismi li ha criticati per tempo. Ma ora possiamo rifarci – per una elegante sinopsi – a Luciani, 2023. La sposo in toto.
Torniamo al nostro squisito padrone di casa. Lo sguardo di Ferrara è ottimistico e costruttivo, sollecita a «vedere le somiglianze più che le dissomiglianze quando siamo in pochi»; a «confidare in un mutamento dell’uomo quando siamo in tanti»; a «sperare che sempre dal basso, passo per passo, confidando nel logos e nella capacità ordinante della ragione si possa arrivare a controbilanciare la bellicosità che viene soprattutto dall’alto»; a ragionare di «frontiera (una frontiera, una tra le tante) dell’unità dell’umano, senza essere tacciati di rincorrere un’utopia dal sapore della melassa».
Ferrara critica Zagrebelsky: sopra tutto, contesta «che la Costituzione, così come i principi e gli ideali di cui egli parla», siano «appannaggio esclusivo dei costituzionalisti», come invece Zagrebelsky evidentemente ritiene (il sottotitolo del suo libro, eloquente, è Gli smarrimenti dei costituzionalisti), rimproverandogli col garbo consueto un «approccio un poco elitario».
4. Discontinuità e Unione europea
Per la stessa ragione non vedo la necessità di problematizzare i rapporti tra la Costituzione italiana e l’integrazione europea, quasi a ipotizzare l’esistenza di basi assiologiche reciprocamente irriducibili, o a magnificare quei rivoli del pensiero costituzionalistico che esasperano i profili di differenza delle identità costituzionali riferibili agli Stati membri a discapito dei profili di somiglianza compendiati nelle tradizioni costituzionali comuni; o che, per altro verso (come nel caso tedesco), sono talora introflessi in una conservazione gelosa delle categorie tradizionali maturate nelle esperienze nazionali, senza aprirsi alla valorizzazione di «quanto vi è di nuovo e di originale nella costruzione europea», con parziali conati di rigetto.
Ferrara, in realtà, nel momento in cui afferma che è «il momento di abbandonare i confini nazionali per sostenere che discontinuità sarebbe altresì una stretta virata verso la Federazione europea», è perfettamente coerente con le sue premesse: «le ragioni più elevate della discontinuità» del progetto costituzionale, nella sua lettura, corrispondono alla «ricerca a tutti i livelli della somiglianza», ponendo i singuli – come ho già ricordato – in condizione di «vedere somiglianze che non vedono». Con ciò rendendoli, uti socii, «meno intolleranti e forse anche più interessati all’altro».
Questo punto di vista, se vale per gli individui tra loro e rispetto alla Repubblica, salendo di scala deve logicamente valere anche per gli Stati tra loro e rispetto all’Unione europea.
Uno di quegli apostoli laici, l’art. 11 Cost., consacra questa «ispirazione» (è il lessico di Ferrara) in maniera limpida, nel momento in cui sottopone la «sovranità» del popolo italiano, nel necessario rispetto della «libertà degli altri popoli», a «limitazioni»: le quali echeggiano «le forme» e i «limiti della Costituzione» di cui all’art. 1 Cost.; e che sono «necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», onde l’intenso favor per un ordinamento sovranazionale a ciò votato.
E così, nel nuovo testo dell’art. 97 Cost. (con disposizione di particolare rilievo per il diritto amministrativo) si richiama la necessità di cercare la «coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea».
Ancora una volta, emerge la necessità di una continuità (da sospingere nel futuro) della discontinuità (tracciata dalla Costituzione).
A mo’ di epifonema, le parole di Meuccio Ruini, Presidente dei Settantacinque, durante la discussione finale in assemblea: «l’aspirazione all’unità europea è un principio italianissimo».