Dazi, illusioni e costi: quello che l’economia ci insegna sul protezionismo

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di Marco Leonardi

Università degli Studi di Milano “Statale”

Il ritorno dei dazi è ormai realtà. Dopo la stagione globalista degli anni Duemila, le tariffe doganali sono tornate al centro della scena, spinte da narrazioni politiche che promettono la rinascita industriale, la difesa dei posti di lavoro e la riduzione dei deficit commerciali. Donald Trump, nella sua seconda corsa alla Casa Bianca, ha rilanciato la proposta di dazi generalizzati su tutte le importazioni, colpendo Cina, Messico, Canada, Unione Europea e ogni paese con un surplus commerciale con gli Stati Uniti. L’obiettivo dichiarato: riportare la produzione in patria. Ma quanto è efficace questo strumento? E a quale prezzo?

Una lezione dalla storia recente. 

L’idea che i dazi possano “resuscitare” l’industria nazionale ha una lunga tradizione, ma la storia economica recente ne mostra i limiti. Negli anni della globalizzazione, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) aveva fortemente limitato l’uso di tariffe generalizzate. Tuttavia, restavano strumenti selettivi: barriere non tariffarie (come gli standard tecnici o sanitari, particolarmente frequenti in agricoltura) e dazi antidumping, applicati a prodotti ritenuti esportati a prezzi sleali.

Un caso emblematico, che è stato oggetto di studio di un paper accademico di grande successo per dimostrare i costi dei dazi, è quello delle lavatrici importate dalla Corea del Sud e dal Messico, colpite da dazi antidumping nel 2012. I produttori, invece di riportare la produzione negli Stati Uniti, spostarono gli impianti prima in Cina e poi in Vietnam. Questo fenomeno, noto come “country hopping”, vanificò l’effetto protettivo dei dazi: i prezzi non aumentarono e la produzione non tornò davvero a casa. 

Nel 2018, però, con il primo mandato di Trump, la musica cambiò. I dazi vennero estesi a oltre 280 miliardi di dollari di merci, colpendo non solo la Cina, ma anche tradizionali alleati come l’UE e il Canada. Stavolta i prezzi delle lavatrici salirono del 12%, anche per i modelli non colpiti direttamente dalle tariffe. I produttori approfittarono della protezione per aumentare i margini. Il costo? Circa 1,5 miliardi di dollari l’anno per i consumatori americani, in cambio di appena 1.800 posti di lavoro “riportati a casa”: più di 800.000 dollari per ogni impiego. 

Chi paga il conto? 

Le analisi economiche successive sono concordi: il costo dei dazi è ricaduto quasi interamente su famiglie e imprese americane. I prezzi dei beni colpiti sono aumentati in proporzione alle tariffe applicate, le importazioni sono crollate e la varietà di prodotti disponibili si è ridotta. Si è trattato, in sostanza, di una tassa sui consumi. Si stima che solo nel 2018 gli Stati Uniti abbiano perso 8 miliardi di dollari in termini di benessere economico, e che altri 15 miliardi siano stati trasferiti dai consumatori al governo sotto forma di entrate tariffarie. Il paper famoso delle lavatrici quantifica in ben 800 mila dollari di extra costi per i consumatori per ognuno dei 1800 lavoratori riportati a produrre lavatrici negli USA.

Il protezionismo non è dunque “gratis” nemmeno per chi lo impone. Anzi, spesso è l’economia interna a soffrirne di più. E il beneficio atteso – il reshoring della produzione – si materializza solo in parte, a costi molto elevati.

Il “Trump II” del 2025 ha imparato la lezione del country hopping: per costringere le aziende a rilocalizzare, non basta colpire un solo paese. Servono dazi generalizzati, credibili e duraturi. Ma questa strategia amplifica anche i rischi: si riduce la concorrenza, aumentano i prezzi interni e si compromette l’efficienza del sistema produttivo.

Per funzionare davvero, un regime di dazi deve essere considerato permanente dalle imprese. Solo allora esse valuteranno la rilocalizzazione della produzione. Ma la permanenza dei dazi comporta un costo fisso: una struttura dei prezzi più alta, una minore varietà per i consumatori, una perdita di competitività internazionale. In pratica, una tassa strutturale sul sistema economico.

A questo si sommano i costi indiretti: sussidi alle imprese colpite dai contro-dazi (Trump I stanziò 28 miliardi per gli agricoltori), tensioni geopolitiche e ritorsioni commerciali. La Cina, ad esempio, ha già annunciato che risponderebbe a nuovi dazi americani con misure equivalenti. 

E l’Europa? 

L’Europa, e in particolare l’Italia, osservano con preoccupazione. Il nostro modello di sviluppo si basa su una manciata di grandi esportatori che trainano la crescita. L’Italia esporta oltre 600 miliardi di euro l’anno, di cui 67 solo verso gli Stati Uniti – secondo mercato di sbocco dopo la Germania. I settori più esposti sono i macchinari, la farmaceutica, i mezzi di trasporto e l’agroalimentare.

Una stima recente suggerisce che se Trump imponesse dazi del 60% alla Cina e del 10% a tutti gli altri paesi, e questi rispondessero con misure simmetriche, l’Italia perderebbe circa il 4% del suo export manifatturiero. Un colpo sensibile per un paese così dipendente dall’export. E anche nella migliore delle ipotesi – quella in cui gli USA risparmiano temporaneamente l’UE – i vantaggi sarebbero effimeri. Il protezionismo genera guerre commerciali in cui tutti, alla fine, perdono.

Molti pensano che i dazi servano a ridurre il deficit commerciale USA. Ma questo è un equivoco. Il disavanzo commerciale degli Stati Uniti riflette il fatto che l’economia americana consuma e investe più di quanto produce. Finché questo squilibrio macroeconomico persiste, le importazioni supereranno le esportazioni. Le tariffe possono ridurre alcune importazioni, ma riducono anche le esportazioni (a causa delle ritorsioni) e spesso il saldo peggiora. È già successo nel 2018-2019.

Oggi, con consumi e investimenti in crescita, e un deficit pubblico superiore al 6% del PIL, è difficile immaginare una correzione “naturale” del deficit commerciale americano. I dazi, in questo contesto, sono solo un palliativo inefficace e costoso. 

Il protezionismo è una scorciatoia politica che promette molto ma mantiene poco. I dazi possono offrire un vantaggio temporaneo a settori specifici, ma a costo di danneggiare l’intera economia: consumatori, imprese esportatrici, e lo stesso bilancio pubblico. La storia recente insegna che riportare un lavoro in patria può costare anche 15-20 volte lo stipendio di quel lavoratore.

La sfida vera non è chiudersi, ma restare competitivi. Per l’Europa, ciò significa evitare la trappola del divide et impera, mantenere una risposta unitaria e studiare strumenti di difesa comuni, magari innovativi, anche nel campo dei servizi e del digitale. L’illusione dei dazi può avere un costo molto reale. E a pagarlo, alla fine, sono sempre i cittadini.

Autore

M. Leonardi

Università degli Studi di Milano “Statale”

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