Democrazia a senso unico o Costituzione antifascista? Il contesto ideologico del premierato all’italiana

di Stefano Civitarese Matteucci

Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara

In Democrazia afascista (Feltrinelli, 2023, pp. 157) Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati sostengono che alla base della politica di Giorgia Meloni vi è il disegno di superare la democrazia costituzionale. Questo disegno si manifesta principalmente, anche se non solo, nella riforma costituzionale per introdurre il cosiddetto premierato.

Confesso che ho letto questo libro incuriosito dall’articolo a esso dedicato da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 25 maggio 2024, intitolato “La democrazia a senso unico che piace agli intellettuali progressisti”. In sintesi, Galli della Loggia sostiene che Pedullà e Urbinati esprimerebbero non soltanto il desiderio di promuovere un programma politico socialista, ma «il miraggio inquietante di una società omogenea, senza divisioni tra maggioranza e minoranza al proprio interno, regolata per l’appunto da una Costituzione su misura». Il libro costituirebbe, addirittura, un salto di qualità nell’opera di delegittimazione degli avversari politici storicamente tipica della sinistra, in quanto proclamerebbe «il sistema democratico e ogni sua regola costituzionale, proprio in quanto tali, come uno spazio politico programmaticamente e interamente “di sinistra”».

Occorre una buona dose di interpretazione non-caritatevole per raccontare in questo modo il contenuto del libro in questione, ma possiamo utilizzare la provocazione di Galli della Loggia per enucleare dal discorso di Pedullà e Urbinati alcune questioni centrali per il diritto pubblico e questo Diario.

In primo luogo, vediamo di cosa parla realmente il libro nei suoi dieci agili capitoli. La prima parte è dedicata a ricostruire storicamente il concetto (la parola) di afascismo nel contesto italiano, sebbene esso possa anche essere impiegato per designare il processo globale di decadimento della democrazia cui stiamo assistendo.

Il termine afascismo era comparso ripetutamente durante il ventennio, pronunciato da Mussolini stesso, in un discorso che preludeva alla svolta autoritaria del gennaio 1925, in un’accezione che riprenderà Giovanni Gentile nel 1936. Nel lanciare lo stigma contro il Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce, il filosofo del regime derubricava i primi da antifascisti ad afascisti, vale a dire «poveri filosofi e storici che non amavano altra storia che la passata», non veri avversari in quanto incapaci di comprendere la «storia presente e viva». Sebbene non all’altezza di essere considerati avversari, questi intellettuali costituivano, secondo Gentile, una massa inerte «da cui bisognava sgombrare il terreno per edificare su solide fondamenta l’edificio dell’Italia fascista». Questa accezione, che dal punto di vista del fascismo denuncia l’apatia o disfattismo degli intellettuali, subisce una torsione in Assemblea costituente, ove il liberale monarchico Roberto Lucifero d’Aprigliano sostiene che la Costituzione repubblicana avrebbe dovuto essere non antifascista ma afascista. La posizione di Lucifero sulla struttura della costituzione è tipicamente proto-liberale, il suo modello è lo Statuto albertino e qualunque riferimento a diritti e vincoli sostanziali per il legislatore è da questi considerato un attentato alla libertà dei cittadini. Secondo Pedullà e Urbinati è questa concezione minimalista a saldarsi con l’idea che la nuova costituzione non debba fare alcun riferimento al fascismo: solo nominarlo ne sancirebbe la sopravvivenza, meglio ignorarlo.

Lucifero sostiene che occorre «debellare ogni sopravvivenza fascista, bisogna chiudere il periodo del metodo fascista perché il fascismo va definitivamente eliminato. Quindi la costituzione dovrà essere e deve essere non antifascista soltanto ma qualcosa di più: dovrà essere afascista» (seduta plenaria del 4 marzo 1947, p. 1728). In proposito, Lucifero esprime nel modo più esplicito l’avversione per l’antifascismo come ideale autonomo: «l’antifascismo ha avuto una nobilissima missione finché c’era il fascismo, poiché era la negazione del fascismo ed era la lotta contro di esso. Ma se l’antifascismo volesse continuare a sopravvivere al fascismo, diverrebbe semplicemente un fascismo alla rovescia» (id.).

Di qui possiamo cogliere il succo dell’argomento del libro, che promuove un’idea della democrazia diametralmente opposta a quello stato democratico afascista “che non ammette aggettivazioni” (sono sempre parole di Lucifero), oggi, secondo Pedullà e Urbinati, reincarnato nel progetto politico di Giorgia Meloni.

È, in particolare, nella lettera della Presidente del Consiglio al Corriere della Sera del 25 aprile 2023, in cui la parola antifascismo è accuratamente evitata, che si rivela l’adesione a tale concezione, soprattutto attraverso l’accusa rivolta alla sinistra di continuare a utilizzare la categoria del fascismo «come strumento di delegittimazione di qualsiasi avversario politico». Dichiararsi antifascisti, in altre parole, secondo l’argomento di Giorgia Meloni, implicherebbe negare lo spirito unitario e inclusivo (anche di «chi aveva combattuto tra gli sconfitti») che informa la costituzione.

L’idea di una costituzione afascista, tuttavia, fu espressamente dibattuta e rigettata nel processo costituente. Contro tale idea si espressero costituenti tra loro ideologicamente lontani come Palmiro Togliatti, Emilio Lussu e Aldo Moro. Al di là del significato che si voglia attribuire alla XII disp. trans. e fin. (che vieta la ricostituzione del partito fascista in qualsiasi forma), ciò che emerge dai loro interventi è l’idea di collegare la Resistenza e l’antifascismo alla costruzione di una società che sia di fatto un antidoto al fascismo. Se per Togliatti la garanzia che libertà e democrazia non possano essere più calpestati comporta che «alla testa dello Stato avanzino» le forze del lavoro, «democratiche e rinnovatrici per la loro stessa natura» (seduta plenaria dell’11 marzo 1947, p. 1995), per Moro non si sarebbe «detto nulla» se ci si fosse limitati «ad affermare che l’Italia è una repubblica, o una repubblica democratica». Il senso della comune opposizione al fascismo sta nella difesa «dei valori della personalità umana e della solidarietà sociale» e per questo il processo costituente comporta «l’impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale» (seduta plenaria del 13 marzo 1947, p. 2040).

Ecco perché, secondo gli autori, è l’impianto della Repubblica democratica nel suo complesso a rappresentare una dichiarazione di antifascismo. Non sembra, questa, affermazione radicale o sorprendente; direi, anzi, esprimere un’idea diffusa tra gli studiosi di diritto costituzionale. Scrive Antonio Ruggeri che «la Costituzione è tutta quanta, a partire appunto dai suoi principi fondamentali, nei quali nel modo più immediato e genuino si rispecchiano i valori della Resistenza, antifascista, non semplicemente afascista, come pure in modo edulcorato ma appunto mistificatorio, talora si dice. La Carta repubblicana delinea infatti, in modo mirabile, il modello di una società fatta di uomini laboriosi (artt. 1 e 4), liberi (art. 2), eguali, effettivamente eguali (art. 3), partecipi del governo della cosa pubblica» (L’antifascismo della costituzione).

Per Pedullà e Urbinati «tutte le democrazie hanno un alter», non possono essere neutrali, nascono con un obiettivo, che può persino essere quello, riprendendo le parole di Ruggeri, di indicare un modello di società.

Sembra, quindi, difficile negare che la Costituzione italiana accolga un’ottica interventista e che i padri costituenti considerassero questa un portato dell’antifascismo. Di là dalla grottesca inferenza di Galli della Loggia – secondo cui sostenere qualcosa del genere violerebbe il principio del suffragio universale, squalificando come anticostituzionali orientamenti non socialdemocratici – restano sul tavolo domande complesse.

La prima riguarda, lungo la linea del “programma” costituzionale, il delicato equilibrio tra garanzia costituzionale e indirizzo politico, e quindi tra corti e legislatore, nel determinare in concreto i modelli di convivenza che la costituzione delinea. Essa si inscrive nell’ambito del cruciale dibattito moderno e contemporaneo sul rapporto tra stato, costituzione e società, oggetto di fiumi di letteratura che Galli della Loggia mostra di ignorare. Per fare un banale controesempio, ipotizziamo che un partito si presenti agli elettori promettendo la flat tax, vale a dire un programma in contrasto con la regola costituzionale della progressività dei tributi; se vince le elezioni ha diritto di governare (Galli della Loggia si domanda, ironicamente, se il responso delle urne dovrebbe essere dichiarato nullo). Ciò non esclude che – anche a garanzia di chi quel partito non ha votato – la Corte costituzionale avrebbe l’obbligo, alla prima occasione, di dichiarare incostituzionale una legge che eliminasse la progressività dei tributi, ammesso che un Presidente della Repubblica avesse potuto promulgarla.

Pedullà e Urbinati non si soffermano su questo aspetto. Il loro discorso, articolato nella seconda parte del libro, solleva una seconda domanda, a mio avviso più difficile. La tesi più forte presentata dagli autori è che una democrazia minimalista – come quella raccomandata nel Report on the Governability of Democracies del 1975 redatto da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joli Watanuki – conduce necessariamente a forme autocratiche o plebiscitarie. Nella sua versione afascista questa forma di democrazia, in quanto avaloriale, mira semplicemente a regolare la contesa per il potere tra le élite, «bloccando il processo storico di democratizzazione» caratteristico dell’esperienza occidentale del secondo Novecento. Tale processo è stato favorito dal pluralismo – di interessi e concezioni tra loro in competizione – che la costituzione garantisce e promuove attraverso la partecipazione attiva dei cittadini ai processi politici. Roberto Bin ha chiamato questo fenomeno «l’inclusione del conflitto sociale nel “giardino” delle istituzioni e delle procedure costituzionali». Questa partecipazione, secondo la Costituzione (art 49), si esprime eminentemente nei partiti politici, in cui i cittadini si associano liberamente per perseguire un progetto di futuro. Non è un caso che siano proprio i partiti, e la mediazione che per loro tramite si svolge, uno dei principali bersagli polemici dei promotori della riforma sul premierato, a sua volta alimentata da decenni di sterile polemica contro il potere dei partiti (la partitocrazia), sostituiti da partiti-azienda e leader plebiscitari.

Al suddetto obiettivo sarebbero, poi, funzionali altre tre qualificazioni della democrazia afascista: ipermaggioritaria, notabiliare, aconflittuale. Il disegno di riforma costituzionale sul premierato sarebbe, a sua volta, lo strumento in grado di assicurare tale assetto attraverso la stabilità/governabilità e l’esautoramento della democrazia parlamentare, luogo per eccellenza del conflitto e della sua mediazione.

A mio avviso quest’analisi rispecchia plausibilmente la concezione e il progetto di Giorgia Meloni. Plausibile è altresì che il suo intento di fondo sia mettere in discussione quel collegamento (certo instabile ma inscindibile) tra libertà politica, dignità umana e giustizia sociale che è alla base dell’interpretazione antifascista della Costituzione. Come può, però, la Costituzione, in quanto artefatto giuridico, difendersi da questo disegno? Difficilmente, a esempio, qualcuno si spingerebbe a sostenere che il super-principio democratico, come concretamente e storicamente assunto dalla Costituzione repubblicana, non tolleri un primo ministro eletto dal popolo, per di più con un generoso premio di maggioranza, rendendo incostituzionale la stessa legge di revisione costituzionale.

Siamo qui al cospetto della necessaria dimensione politica delle parti apicali dell’assetto costituzionale di uno stato, ove la normatività della costituzione può esprimersi soltanto sul piano morale. Naturalmente, la normatività della sfera morale non tollera alcuna coazione esterna e pertanto, in ultima istanza, la forza della costituzione dipende da un fatto, dalla sua materialità come a volte si dice. Richiamando ancora Bin, «la “forza” della costituzione, la sua prevalenza e intangibilità sono inderogabilmente legate alla sua legittimazione, la quale a sua volta si spiega solamente uscendo dall’ambito dell’analisi testuale e delle teoria giuridica». Il punto è che l’agire politico può alimentarsi di questa sfera normativa grazie all’indubbia autorità morale della Costituzione, contribuendo a (ri) costruire tale legittimazione.

Il messaggio finale di Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati è al tempo stesso di critica a coloro che pur richiamandosi ai valori della Resistenza hanno «rinunciato a battersi per attuare i sogni di benessere per tutti, partecipazione ed eguaglianza di quanti presero le armi contro Mussolini»; e di invito a «rivendicare … ciò che di positivo e di costruttivo, e non solo di difensivo, vi è nella chiara opzione antifascista della nostra Costituzione e della nostra democrazia».

Riferimenti bibliografici minimi

Bin, Che cos’è la Costituzione?, in Quaderni costituzionali, n. 1/2007, 27 ss.

Civitarese Matteucci, Costituzionalismo sociale e ruolo dei giuristi. Sul rapporto tra “rendimento” delle Costituzioni, Stato sociale e giuristi- intellettuali, in notizie di POLITEIA, 151, 2023, 5 ss.

Dogliani, Validità e normatività delle costituzioni (a proposito del programma di Costituzionalismo.it), in Studi in onore di Gianni Ferrara, II, Torino, 2005, 243 ss.

Groppi, Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale, Laterza, 2021.

Pezzini, Attualità della Resistenza: la matrice antifascista della Costituzione repubblicana, in B. Pezzini, S. Rossi, I giuristi e la Resistenza. Una biografia intellettuale del Paese, Franco Angeli, 2016.