Difendere le Camere senza scardinarne l’autonomia regolamentare: il vicolo stretto tracciato dalla sent. n. 192 del 2024
di Renato Ibrido
Università degli Studi di Firenze
Con una decisione fortemente attesa, la Corte costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale della legge “quadro” di attuazione dell’art. 116, c. 3 Cost. in materia di regionalismo differenziato (l. n. 86 del 2024). Pur considerando non fondata la questione di costituzionalità della legge nella sua totalità, la sent. n. 192 del 2024 Corte cost. (relatore: Giovanni Pitruzzella), ha ritenuto illegittime specifiche disposizioni sottoposte al proprio esame. Inoltre, facendo ampio ricorso alla tecnica dell’interpretazione conforme a Costituzione, la Corte ha cercato di correggere il significato di alcune ulteriori disposizioni, le quali sono state così “salvate” dalla dichiarazione di incostituzionalità.
È questo in particolare il caso di due norme incidenti sulla fase parlamentare di esame della legge chiamata a recepire l’intesa ai sensi dell’art. 116, c. 3 Cost.: l’art. 2, c. 6, il quale – nella lettura proposta dalle Regioni ricorrenti – riservava al Governo la titolarità dell’iniziativa legislativa; e l’art. 2, c. 8, interpretato da alcune Regioni nel senso di escludere l’emendabilità della legge contenente l’intesa. È a questi due profili – apparentemente collaterali rispetto all’impianto complessivo della decisione ma in realtà ricchi di implicazioni sul piano sistemico – che si intende dedicare le riflessioni che seguono.
Procediamo innanzitutto con ordine.
Come è noto, l’art. 116, c. 3 Cost. prevede due fasi nel processo di devoluzione alle Regioni a Statuto ordinario delle speciali forme e condizioni di autonomia previste dalla legge cost. n. 3 del 2001. Nella prima fase, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, il Governo negozia con la Regione l’intesa. Nella seconda fase, le Camere sono chiamate ad approvare, a maggioranza assoluta dei componenti, la legge volta a recepire l’accordo precedentemente raggiunto. Il momento di raccordo fra le due fasi è costituito dalla presentazione del disegno di legge contenente l’intesa. Essendo quest’ultima negoziata dal Governo, l’esecutivo è anche l’organo statale “naturalmente competente” ad esercitare l’iniziativa legislativa. Ed è in questa logica che l’art. 2, c. 6 della legge quadro ha stabilito che «[c]on lo schema di intesa definitivo, il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, delibera un disegno di legge di approvazione dell’intesa, che vi è allegata».
Al tempo stesso, non risultava chiaro se, in caso di inerzia del Governo, un altro dei soggetti titolari del potere di iniziativa legislativa (art. 71, c. 1 e 2; art. 99, c. 3; art. 121, c. 2 Cost.) – ed in particolare i Consigli regionali – potessero presentare il progetto di legge alle Camere.
Un problema simile si era posto in relazione all’iter di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali in forma solenne (art. 80 Cost.). Infatti, anche a seguito di alcuni cambi di governo, il nuovo esecutivo aveva cercato di bloccare il processo di ratifica astenendosi dal presentare il relativo disegno di legge. Con un revirement interpretativo, a partire dalla XIII legislatura, le Giunte per il Regolamento delle Camere avevano risolto tale nodo riconoscendo in materia l’ammissibilità di iniziative legislative dei parlamentari. Analogo principio era stato affermato dalla prassi parlamentare in relazione alle intese con le confessioni acattoliche.
Chiamata a valutare la legittimità dell’art. 2, c. 6 della l. n. 86 del 2024, la Corte ha fatto esplicita applicazione della c.d. “dottrina Zagrebelsky”: «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (sent. n. 356 del 1996 Corte cost.).
La norma impugnata è stata dunque interpretata nel senso di ritenere ammissibili iniziative da parte di soggetti diversi dal Governo: la sent. n. 192 del 2024 menziona esplicitamente i Consigli regionali, la cui iniziativa legislativa – stando alla precedente giurisprudenza costituzionale – può riguardare anche leggi statali rinforzate e leggi costituzionali (sentenze n. 496 del 2000 e n. 470 del 1992).
Secondo la Corte, infatti, alla legge ordinaria è precluso sia individuare soggetti titolari di iniziativa legislativa (in virtù della riserva di legge costituzionale ex art. 71, c. 1 Cost.), sia istituire casi di iniziativa legislativa riservata ulteriori rispetto a quelli richiamati dalla Costituzione. Di conseguenza, le ipotesi di iniziativa legislativa riservata stabilite dagli artt. 77, c. 2 Cost. (disegni di legge di conversione dei decreti-legge) e 81, c. 4 Cost. (bilancio e rendiconto consuntivo) devono considerarsi tassative.
Tale passaggio della decisione (considerato in diritto n. 10) presenta alcuni potenziali riflessi di ordine sistemico, i quali oltrepassano il tema del recepimento delle intese concernenti il regionalismo differenziato. In effetti, la legislazione vigente prevede alcune forme di iniziativa legislativa che fino ad oggi erano state considerate, formalmente o quanto meno di fatto, riservate al Governo. Ad esempio, l’art. 29 della l. n. 234 del 2012 individua nel Governo l’organo chiamato a presentare i d.d.l. contenenti la legge europea e di delegazione europea. Un modello per alcuni aspetti analogo è previsto in relazione alla legge di semplificazione (art. 20 della l. n. 59 del 1997) nonché alla legge per il mercato e la concorrenza (art. 47 della l. n. 99 del 2009). Sebbene la Corte abbia evitato obiter dicta sul tema, deve ritenersi che queste “leggi madre” vadano interpretate in senso conforme al modello “diffuso” di iniziativa legislativa previsto dalla Costituzione, senza dunque riservare al Governo il potere di presentazione della “legge figlia”.
Alcune Regioni avevano poi impugnato l’art. 2, c. 8 della legge quadro, ai sensi del quale il disegno di legge al quale è allegata l’intesa «è immediatamente trasmesso alle Camere per la deliberazione, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione». Secondo le ricorrenti, tale norma precluderebbe alle Camere la possibilità di emendare il disegno di legge, in violazione degli artt. 5, 70 e 72 Cost.
Anche su questo punto, la sent. n. 192 del 2024 ha seguito la strada di una interpretazione conforme a Costituzione (considerato in diritto n. 11). La Corte ha così negato che la legge di differenziazione potesse essere ricondotta ad un modello procedurale di mera approvazione dell’intesa (“prendere o lasciare”), il quale svuoterebbe oltremodo il ruolo delle Camere. Nel silenzio della Costituzione e dei Regolamenti parlamentari, il giudice delle leggi ha così ritenuto configurabile un potere di emendamento delle Camere. Naturalmente, essendo la legge di differenziazione caratterizzata da una “condizionalità” derivante dall’intesa, qualora il Parlamento dovesse apportare modifiche sostanziali all’accordo concluso, esso dovrà essere rinegoziato tra il Governo e la Regione richiedente: il consenso di quest’ultima è infatti elemento essenziale della procedura. In attesa della riforma della l. n. 86 del 2024 risultano tuttavia ancora poco chiare la struttura, la portata e gli effetti della legge promulgata contenente l’intesa emendata che dovrà essere rinegoziata con la Regione interessata. Sul piano del drafting occorrerà un po’ di creatività per mettere nero su bianco il modello di “ping pong” indicato dalla sent. n. 192 del 2024 Corte cost.
Al netto di queste difficoltà tecniche, la Corte sembrerebbe essere riuscita a individuare un ragionevole punto di equilibrio fra due esigenze paradossalmente contrapposte: da un lato difendere le prerogative delle Camere, a maggior ragione in una stagione storica nella quale il Parlamento è sempre meno legislatore e sempre più meta-legislatore, ossia un centro di smistamento di competenze di decisione verso altri luoghi: verso l’“alto”, attraverso il trasferimento di importanti competenze normative ad autorità sovrannazionali; verso il “basso”, mediante l’approvazione di intese concernenti il regionalismo differenziato (art. 116, c. 3 Cost.) nonché leggi cornice contenenti i principi che le Regioni devono rispettare nell’esercizio delle competenze legislative di tipo concorrente (art. 117, c. 3 Cost.); verso il Governo, tramite gli strumenti della legge delega, della delegificazione e dell’autorizzazione all’esercizio della potestà regolamentare; verso le autorità indipendenti, le quali esercitano penetranti poteri regolatori sulla base delle rispettive leggi istitutive.
Dall’altro lato, la Corte ha evitato di comprimere oltremodo il perimetro della riserva di Regolamento parlamentare, ossia la fonte che ai sensi dell’art. 72 Cost. è chiamata a disciplinare l’iter legis in tutti gli aspetti non espressamente regolati dal testo costituzionale (sent. n. 78 del 1984 e 379 del 1996 Corte cost). Il punto di equilibrio viene raggiunto riconoscendo l’emendabilità del disegno di legge di recepimento dell’intesa quale opzione, per così dire, “di default”. Come si legge nel considerato in diritto n. 11.2, l’«art. 2, c. 8, può essere inteso in senso conforme a Costituzione, cioè nel senso di rinviare alla deliberazione delle Camere come regolata dalle fonti competenti (cioè, dalla suddetta norma costituzionale e dai Regolamenti parlamentari, qualora integrino in futuro l’art. 116, c. 3 Cost.)». L’interpretazione delle Regioni ricorrenti non è invece «da accogliere perché renderebbe la disposizione in questione costituzionalmente illegittima» per aver disciplinato «un oggetto (il procedimento legislativo) spettante alla Costituzione e ai Regolamenti parlamentari». I Regolamenti delle Camere – questa per lo meno la nostra lettura della pronuncia – rimangono dunque liberi di escludere o restringere l’emendabilità del disegno di legge. Una decisione diversa sul punto avrebbe prodotto effetti paradossali: per difendere il ruolo delle Assemblee rappresentative si sarebbe finito infatti per scardinare la loro autonomia regolamentare iper-espandendo in via pretoria il raggio regolativo delle norme costituzionali sul Parlamento.
Se, dunque, l’approccio della Corte appare sul punto condivisibile, resta da chiedersi se i principi da essa enunciati in materia di emendabilità possano trovare applicazione anche in relazione ad altri provvedimenti che presentano alcune affinità procedurali e strutturali con le leggi di recepimento delle intese sul regionalismo differenziato: la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali nonché le leggi contenenti le intese con le confessioni acattoliche. Potrebbero ad esempio i Regolamenti delle Camere – in discontinuità con l’attuale prassi parlamentare – introdurre un meccanismo di emendabilità del trattato? Sul punto occorre ricordare che gli accordi internazionali – a differenza dell’intesa con le confessioni acattoliche – costituiscono un allegato alla legge, senza invece confluire nel testo dell’articolato (cfr. G. Piccirilli, Gli “Accordi preliminari” per la differenziazione regionale. Primi spunti sulla procedura da seguire per l’attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., in Diritti regionali, 2018).
Anche questo rappresenta uno dei molteplici nodi lasciati aperti dalla sent. n. 192 del 2024 Corte cost.
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