Diritto al clima: negato o riconosciuto?
di Marco Magri
Per ora – vedremo cosa accadrà nei successivi gradi di giudizio – la causa ribattezzata Giudizio Universale non si è iscritta nel firmamento delle “cause del secolo”, né ha dato origine a una sentenza “storica”. Si è chiusa anzi con una declaratoria di inammissibilità per difetto assoluto di giurisdizione (la pronuncia è del Tribunale di Roma, sezione II civile, 26 febbraio 2024, RG n. 39415 del 2021), argomentata in parte negando che il giudice civile possa condannare lo Stato (Presidenza del Consiglio dei Ministri) all’adozione di una politica normativa di protezione del clima capace di assicurare il “preciso risultato” voluto dagli attori, in parte per essere la questione devoluta al giudice amministrativo: probabilmente l’esito peggiore per chi si aspettava una solenne proclamazione del diritto – per la precisione, di un diritto soggettivo – “al clima”. Lo dimostrano anche i primi commenti, gran parte dei quali ha rivolto al Tribunale di Roma l’accusa di aver dimostrato una scarsa sensibilità all’importanza della tutela dei diritti umani di fronte alla minaccia del cambiamento climatico.
Prima di dire perché queste critiche mi sembrano complessivamente fuori bersaglio, credo sia opportuna qualche considerazione sui termini della questione su cui il Tribunale si è espresso.
La tesi di fondo degli attori è questa: che in conseguenza della oramai irrefutabile capacità predittiva della scienza climatica, gli obblighi internazionali di approntare un quadro giuridico idoneo all’abbattimento delle emissioni non possano più essere accollati allo Stato in una prospettiva di solo diritto internazionale, in quanto la loro violazione è anche fonte di un debito di natura risarcitoria o, in subordine, da “contatto sociale qualificato”, assoggettato alle disposizioni interne sulla responsabilità civile.
Lo Stato può quindi essere evocato dai cittadini (creditori dell’obbligazione) e condannato in sede giurisdizionale a un comportamento di maggior tutela, integralmente determinabile con l’applicazione di norme tecniche; vale a dire, in concreto, con l’ausilio di periti. Cosa che gli attori di Giudizio universale hanno fatto, avvalendosi della consulenza di un’organizzazione non profit di Berlino (Climate Analytics), che ha quantificato nella misura del 92% la riduzione delle emissioni che lo Stato italiano dovrebbe raggiungere per rimanere fedele agli obiettivi fissati dagli Accordi di Parigi. Le conclusioni della citazione chiedono infatti che lo Stato sia condannato ad assumere ogni iniziativa (in subordine, anche mediante adeguamento del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima) per l’abbattimento, entro il 2030, del 92% delle emissioni di CO2-eq rispetto ai livelli del 1990 (o della diversa percentuale che sarà accertata in corso di causa).
Non è chiaro, visto che gli attori non hanno speso una parola sulla loro legittimazione, se il diritto al clima azionato in questa causa sia un diritto dei soli cittadini associati (come gli attori) o se corrisponda a un interesse diffuso, tutelabile solo mediante l’attività di un ente esponenziale. Nella citazione non si parla della posizione soggettiva di cui si chiede la tutela, coerentemente alla logica del giudizio civile, che annette la legittimazione alla semplice affermazione di agire per un diritto proprio. Non è chiaro, perciò, se gli attori agiscano per conto proprio o come sostituti processuali e, in questo caso, di chi. Mi si lasci aggiungere che tutto il contenzioso climatico, non solo in Italia, è drammaticamente lacunoso su questo punto, poiché se lo si osserva da vicino denota un complesso intrecciarsi di diverse logiche dell’azione collettiva: da quella “rappresentativa”, che vede nell’associazione un soggetto riconosciuto in ragione del suo carattere esponenziale (in Olanda, la legittimazione nei casi Urgenda e Shell si basava sull’art. 3:305a del Codice civile), a quella di “allineamento”, basata sulla coincidenza tra il fine protettivo delle norme e lo scopo per cui l’associazione è stata costituita; fino alla semplice, libera “querela”, dove vediamo l’associazione agire in giudizio insieme a singoli individui, dando vita a una parte processuale fortemente eterogenea, la cui ragion d’essere unitaria si recupera solo annettendo un certo rilievo a una logica di enforcement, ossia all’importanza che determinate violazioni siano denunciate (schema per certi versi simile all’azione popolare). Questo coacervo di meccanismi legittimanti genera, al suo interno, oltre a evidenti benefici, qualche interrogativo, se non altro là dove, come nella causa Giudizio universale, fa emergere un’oggettiva difficoltà di accertare “chi siano” gli individui nel cui interesse la parte agisce: è il problema che P. Cane (Standing up for the public, Public Law, 1995) ha sintetizzato nella formula della “posta in gioco democratica” della legittimazione associativa. La causa Giudizio universale pone una questione di rappresentatività degli attori; oltre tutto, resa ancora più cruciale dal fatto che il Regolamento 2021/1119 (cd. legge europea sul clima), entrato in vigore a processo iniziato, stabilisce una percentuale di abbattimento del 55% in meno rispetto al 1990. Diventerà quindi sempre più difficile dimostrare che quel 92% è esattamente la misura del “diritto al clima” che lo Stato deve garantire ai cittadini, dal momento che un atto-fonte conferisce adesso, per tabulas, ai cittadini, un diritto diverso; e coloro che non sono parti del processo potrebbero non percepire affatto, nella misura del 55%, la lesione di un proprio diritto.
Ora però non vorrei entrare in una critica del fenomeno del “contenzioso climatico” nel suo complesso e men che meno delle posizioni dottrinali da cui muove la causa Giudizio universale. Tornando ai commenti pubblicati in margine all’esito del processo, la mia impressione è che la sentenza sia meritevole di una lettura più pacata rispetto alle reazioni, forse un poco eccessive, dei primi momenti (concordo dunque con G. Tropea Il cigno verde e la separazione dei poteri, in Giustizia insieme, 2024).
Sembrerà un’opinione che pecca di superficialità, ma a me pare che la questione, come tutte quelle oggetto del contezioso climatico d’impostazione civilistica (valga ancora una volta l’esempio olandese), non sia l’esistenza di un diritto al clima, con cui cause di questo genere hanno ben poco a che vedere. Il diritto al clima, inteso come situazione soggettiva, è un diritto di adattarsi ai cambiamenti climatici che appartiene a ogni individuo in ragione della sua stessa esistenza. Non sto ovviamente sostenendo l’esigenza di ridare lustro alle antiche dottrine del “diritto naturale”. Voglio solo osservare che una responsabilità dello Stato per lesione del diritto al clima, se di questo parliamo, dev’essere immaginata fuori dalla cornice dogmatica che declassa i diritti a meri “riflessi” dell’adempimento di un dovere dello Stato. Si pensi per esempio al diritto di emigrare allontanandosi dai luoghi in cui sono proprio gli effetti del cambiamento climatico – non la guerra, né la violenza di altri esseri umani – a rendere la vita inumana e degradante. La sentenza della Corte di cassazione del 2021 e, prima ancora, il pronunciamento del Comitato per i Diritti Umani dell’ONU sul caso Teitiota, riguardo ai cosiddetti “migranti climatici”, sta a dimostrare che gli Stati nazionali non possono nulla, quando si tratta del diritto delle persone di fuggire da un ambiente che, a causa di eventi naturali estremi, metta in pericolo la loro esistenza. Se non fosse stato ricavato dal principio del non-refoulement, il diritto di queste persone ad essere accolte in Italia sarebbe stato ricondotto, dalla Cassazione, a qualcosa d’altro: appunto, sarebbe stato ricostruito in termini di responsabilità dello Stato verso l’individuo, a prescindere dall’esistenza di una norma che espressamente preveda la protezione internazionale delle vittime del clima.
Il Tribunale civile di Roma, nella causa Giudizio universale, non doveva, né poteva decidere – e non lo ha fatto – sull’astratta esistenza di un diritto al clima, per il semplice motivo che la titolarità di quel diritto in capo agli attori è assolutamente fuori discussione. Ha deciso, piuttosto, sull’attualità del fatto lesivo, o, se si preferisce, sulla mancanza di protezione, da parte dell’ordinamento, di una pretesa individuale a che lo Stato abbatta, entro il 2030, le emissioni del 92% rispetto ai livelli del 1990. Perciò a me sembra che accusare il Tribunale di Roma di scarsa attenzione ai diritti umani sia fuori bersaglio. Si permetta l’esempio: se un tribunale civile dà ragione a un’azienda ospedaliera citata in giudizio per responsabilità civile, escludendo che i medici abbiano tenuto un comportamento lesivo del paziente, non sta negando che il paziente abbia un diritto alla salute; sta negando che esista l’illecito: manca la lesione, non l’astratta “possibilità giuridica” dell’azione.
Certo – va da sé, a questo punto – la sentenza del Tribunale di Roma avrebbe potuto anche respingere la domanda nel merito, anziché declinare la propria giurisdizione, che non sarebbe stata travalicata, a mio avviso, per il solo diniego di accordare tutela a un interesse non “meritevole”.
Negli anni settanta del secolo scorso, scaturì da simili premesse un atteggiamento opposto, di tendenziale disponibilità della giurisdizione civile a decidere su controversie instaurate da gruppi di cittadini, secondo la famosa formula del “diritto soggettivo all’ambiente salubre”. Erano i tempi in cui la Cassazione negava l’esistenza dell’interesse diffuso (come nel caso Italia Nostra), ammettendo tuttavia che l’ambiente potesse scindersi in molteplici beni giuridici singolari, provocando molteplici e potenzialmente infinite legittimazioni individuali, dipendenti dalla occasionale titolarità di diritti reali sulla cui garanzia si innestava un nuovo diritto soggettivo. Un diritto soggettivo a fruire di un ambiente disinquinato, autonomamente tutelabile contro il comportamento dell’inquinatore. Così, in una causa contro l’Enel, la Cassazione riconobbe la proponibilità, da parte di un gruppo di proprietari o usufruttuari (questa, la chiave di lettura), del ricorso per accertamento tecnico preventivo del danno provocato all’ambiente da una nuova centrale nucleare. La Cassazione era stata adita con ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione. Forse, dopo la decisione, il giudice locale avrebbe accolto il ricorso – e che dire della successiva, eventuale causa civile? – o forse no. Ma a rendere dirompente la sentenza delle Sezioni unite bastò il principio: che la giurisdizione, non l’amministrazione, è il potere dello Stato al quale ognuno di noi, se personalmente vicino al luogo di produzione dell’inquinamento, può rivolgersi per ottenere una pronuncia che inibisca la modifica dell’ambiente.
L’interesse diffuso arrivò poi, giacché gli sviluppi dell’ordinamento italiano videro l’amministrazione, l’amministrazione “diretta”, compiere enormi passi avanti rispetto alla giurisdizione. Fu l’amministrazione, a partire dal Ministero dell’ambiente (legge n. 349/1986) a essere individuata dalla legge quale pubblico potere al quale spetta la cura dell’ambiente come bene giuridico, ferme le garanzie offerte dal controllo giurisdizionale sulle decisioni amministrative e, ove occorra, dal controllo della Corte costituzionale sulla validità delle leggi in applicazione delle quali sono adottate tali decisioni. Ora sembra di rivedere la medesima vicenda: il contenzioso climatico è esploso sotto l’insegna del “diritto soggettivo”, ha vissuto, specie dopo gli Accordi di Parigi (2015) una stagione contraddistinta dalla “ricerca del giudice”, la quale, però, forse volge già a compimento. Il futuro, almeno da questa parte del mondo o, meglio, per i soggetti come gli attori nella causa Giudizio universale, è il contenzioso d’impugnazione sulle leggi e sugli atti amministrativi, sperando di non vedere mai il diritto al clima, quello “vero”, aver bisogno di tutela giurisdizionale. Gli espliciti riferimenti del Tribunale di Roma, nella parte finale della sentenza, al fatto che per ottenere una modifica del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima sarebbe occorsa una rituale impugnazione dell’atto dinanzi al giudice amministrativo, smentiscono quello che il Tribunale afferma poco sopra, ossia che gli atti di adattamento agli Accordi di Parigi, sostanzialmente censurati dagli attori (con la domanda di condanna), sono espressione della “funzione di indirizzo politico”. Ma ci dicono molto di un’evoluzione che, con ogni probabilità, è già iniziata. Lo si avverte anche spostando l’angolo di visuale fuori dai nostri confini: nel caso Grande-Synte il Conseil d’Etat ha ingiunto al governo francese un inasprimento della propria politica climatica pronunciandosi nell’ambito di un ricorso “pur excès de pouvoir”, la cui struttura si è rivelata perfettamente in grado di contenere la pretesa azionata; mentre quasi a contrasto la Corte europea, nella recente sentenza Carême v. France, ha dichiarato inammissibile la richiesta di risarcimento proposta dal Sindaco di Grande-Synte per violazione degli articoli 2 e 8 CEDU, non riconoscendogli la qualità di “vittima” ai sensi dell’art. 34 CEDU.
In margine alla sentenza contro l’Enel del 1979, G. Berti scrisse che la Cassazione aveva messo in “penombra” lo Stato di diritto, identificando la garanzia dell’ambiente con quella della proprietà e denotando una certa sfiducia verso la garanzia offerta ai cittadini dai procedimenti dell’amministrazione. La sentenza del Tribunale di Roma muove in direzione opposta. Probabilmente esagera dal lato opposto, perché i “principi cardine” non erano la “separazione dei poteri” e l’“indirizzo politico”, bensì gli ordinari canoni d’interpretazione delle norme sulle quali gli attori fondavano la loro pretesa. È un antico, quanto infondato pregiudizio, risalente all’epoca della legislazione processuale dello Stato liberale (legge n. 2248/1865 allegato E), che la tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione attenti all’ordine politico dello Stato. Ciò non toglie che, a parte la formula di rito con la quale è stato dato torto agli attori, nella sentenza sulla causa Giudizio universale il diritto umano al clima, anziché negato come si afferma da più parti, potrebbe essere stato riconosciuto: nella sua forma embrionale, ma anche, nonostante tutto, nella sua veste più autentica.
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