Disegno di legge “sicurezza”: un manifesto politico culturale
di Gaetano Azzariti
Università degli Studi di Roma “Sapienza”
Nel disegno di legge in materia di ordine pubblico (A.C. 1660-A) – non a caso denominato “sicurezza” – si delinea un vero e proprio “manifesto” del pensiero politico-culturale della destra al governo. Un sistema ispirato al diritto penale illiberale che è proprio della tradizione della destra storica. Una risposta al “bisogno di sicurezza” che attraversa le nostre società inquiete di natura puramente repressiva, ma che segna anche il definitivo abbandono delle politiche di integrazione che dovrebbero rappresentare il cuore della nostra democrazia costituzionale anche in materia di sicurezza. L’ordine pubblico è diventato quello “ideale”, imposto ai devianti, senza che ci si debba più limitare a conservare solo un ordine pubblico “materiale” (ordre dans la rue), per poi assicurare la massima espansione delle libertà e del dissenso. Una sconfitta culturale prima ancora che giuridica delle forze politiche progressiste, che non sono state in grado di dare risposte sociali a problemi di volta in volta sollevati. La strada repressiva è evidentemente la più facile e diretta per tutelare la sicurezza dei cittadini, ma è anche la meno efficace per garantire una convivenza pacifica e rispettosa del dissenso e del conflitto. Scomparse le politiche sociali, non poteva che affermarsi la società del controllo. La cultura illiberale dell’attuale maggioranza ha vinto puntando le sue carte sulla paura, ma anche per l’assenza di politiche sociali alternative credibili.
In fondo, basta passare in rassegna alcune delle misure contenute nel d.d.l. “sicurezza” per intendere lo spirito esclusivamente securitario che lo attraversa.
1. Daspo urbano (art. 13)
La legalità ordinaria è considerata un ostacolo e il potere dei giudici un intralcio per la tutela dell’ordine pubblico, si comprende pertanto come diventi necessario trovare altri soggetti che siano in grado di garantire il decoro della città. Naturale diventa guardare alle autorità di pubblica sicurezza, aumentando i casi in cui queste possono applicare misure preventive limitative della libertà personale e di circolazione. Lo strumento già collaudato è il c.d. Daspo urbano che dopo il decreto Caivano si estendeva anche ai minori, e che ora si vuole possa colpire chiunque sia stato anche solo denunciato per reati contro la persona o il patrimonio senza bisogno di una valutazione in concreto di “pericolosità sociale”. Come si possa conciliare questo con quanto stabilisce la nostra costituzione agli articoli 13 e 25 è un mistero.
2. Blocchi stradali e grandi opere (artt. 14 e 19)
Le misure assunte per assicurare la libera circolazione a scapito del diritto di manifestare sono ancor più esemplari. Già da tempo sono previste misure per contrastare i blocchi stradali, soprattutto quando questi determinano interruzioni di pubblico servizio. Ora, in odio agli “eco-attivisti”, si punisce qualsiasi blocco stradale, aggravato se posto in essere “con il proprio corpo”. Invece, è in odio ai No-Tav o per il timore che si possa contestare la costruzione del Ponte sullo stretto di Messina che si prevede una specifica aggravante qualora le azioni di contrasto (almeno si specifica che tali azioni devono configurare il reato di violenza o minaccia) siano rivolte ad impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica. C’è da chiedersi cosa rimanga delle libertà di riunione e di manifestazione del pensiero.
3. Terrorismo (art. 1)
Anche le misure assunte in materia di terrorismo appaiono allontanarsi dai principi propri del diritto penale liberale. Non basta più, infatti, la norma che già punisce “comportamenti univocamente finalizzati alla commissione di condotte con finalità di terrorismo” (art. 270 quinquies c.p.), ora si punisce anche chi si procura o detiene materiale potenzialmente idoneo a compiere atti di terrorismo. Un diritto penale di prevenzione di assai dubbia efficacia, ma di sicuro impatto simbolico.
4. Occupazioni di immobili (art.10)
Sulle occupazioni abusive si esprime il massimo della forzatura ideologica. Si prescinde infatti del tutto dal considerare le condizioni reali di disagio che possono portare a occupare immobili, magari abbandonati al degrado e di utilizzo pubblico. Si equiparano queste situazioni a quelle – già ora ovviamente penalmente rilevanti – di chi approfitta dell’assenza momentanea del legittimo proprietario per insediarsi in appartamenti altrui (secondo l’icona televisiva della vecchietta che esce per far la spesa e al suo ritorno trova la casa occupata). Si riduce un dramma – quello della carenza abitativa e dell’ineffettività del diritto alla casa – ad una farsa ovvero ad una nube di fumo che tutto equipara. Lo dimostra non solo l’assenza di misure di contrasto alla carenza abitativa, ma anche l’estensione delle pene previste (sino a sette anni!) a chiunque cooperi nell’occupazione. Introducendo così il “reato di solidarietà”. Nessuno potrà più sostenere chi è in situazione di disagio estremo: chi vive in alloggi occupati deve essere lasciato al suo destino e guai a chi si vuol far carico dei bisogni primari dei diseredati. Verrebbe da chiedersi se anche il Papa sarà incriminato, visto che ha espresso in più occasioni solidarietà e il suo “elemosiniere” si è spinto persino a riattaccare la corrente ad un palazzo occupato.
Anche la previsione che esclude la punibilità nel caso in cui l’occupante “collabori all’accertamento dei fatti e ottemperi volontariamente all’ordine di rilascio dell’immobile” esprime in modo esemplare uno specifico indirizzo repressivo. Gli occupanti trattati alla stregua di “terroristi”, cui sembra estendersi la normativa in materia dei pentiti: se collabori con la giustizia avrai il premio che in questo caso si conforma come causa di non punibilità. È poi la “collaborazione” richiesta che inquieta. Si presume che l’occupante non solo si penta dall’aver preteso di abitare in un immobile non di sua proprietà, ma anche che denunci i suoi sodali. Cos’altro può infatti significare la richiesta di chiarire lo svolgimento dei fatti che hanno portato all’occupazione illegittima ed ora così gravemente punita? Una cultura della delazione che viene utilizzata per dividere e rompere il fronte di solidarietà che sostiene le esperienze delle occupazioni delle case.
5. Carceri, CPR e CAS (artt. 26 e 27)
La prigione, si sa, è stata in passato a lungo considerata un’istituzione totale, disumana e finalizzata ad umiliare la dignità delle persone recluse. La nostra Costituzione dispone, invece, che anche chi deve scontare una pena sia trattato con senso di umanità, nel rispetto dei diritti fondamentali di ogni persona e che il fine della reclusione sia quello della rieducazione del condannato. Le nuove misure introdotte dal d.d.l. sicurezza ci fanno fare grossi passi verso la ricomparsa del primo dei due modelli richiamati: un ritorno al carcere come luogo di alienazione disumanizzante. Lo dimostrano due misure selvagge.
La prima cancella il differimento obbligatorio del carcere per le donne incinte o le madri con figli sino ad un anno. Si esige che il carcere travolga tutto, i rapporti familiari e in particolare quelli dell’infante. “L’interesse superiore del minore” che è il principio che informa la normativa di tutti i paesi che si ritengono civili cede il passo di fronte ad una visione che non rispetta nessuno, neppure i diritti di chi non solo non ha colpe ma è pure in culla. Innocenti come vittime: “danni collaterali” si dirà, utilizzando l’osceno linguaggio bellico ormai in uso.
L’altra misura punisce chiunque all’interno delle strutture carcerarie si oppone ad un ordine di un agente di polizia, opponendo una resistenza passiva. Anche in questo caso mettendo sullo stesso piano il comportamento di chi rifiuta di sottostare ad un comando – magari illegittimo – e chi partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia (ipotesi quest’ultime già sanzionate e che non avevano bisogno di essere ulteriormente regolate). È stata definita la norma “anti Gandhi”: ed in effetti oggi c’è da temere che Gandhi sarebbe in carcere a scontare la sua pena.
Che poi analogo trattamento sia previsto nei confronti delle persone migranti trattenute nei CPR o nei CAS non può certo stupire. La paura nei confronti dello straniero – “nemico” in via di principio – non prevede il rispetto dei diritti di persone che non hanno commesso reati, ma sono ugualmente costrette in centri assai spesso peggiori delle carceri. A dimostrazione della “minorità” dei migranti v’è pure l’ultima misura introdotta nel disegno di legge sicurezza che vieta di vendere le SIM a chi non possiede il permesso di soggiorno. Prima ancora che incostituzionale è una previsione surreale. Chi può pensare possa funzionare? Impedire di comunicare al tempo di internet è come voler tornare nella preistoria. In fondo, forse, è proprio questa la direzione di marcia.
6. Armi agli agenti di pubblica sicurezza (art. 28)
Un grande passo indietro è anche permettere agli agenti di pubblica sicurezza di portare le armi senza licenza quando non sono in servizio. In questo caso più che all’età della pietra si guarda alla cultura del Far West. La libertà dei singoli è rinchiusa nella fondina della pistola.
7. Obblighi e convenzioni con i sevizi segreti (art. 31)
Concludo questa rapida analisi del d.d.l. sicurezza con quella che appare la misura ideologicamente più devastante: l’obbligo cui sono tenute le pubbliche amministrazioni, le società a partecipazione o controllo pubblico, i soggetti che erogano servizi di pubblica autorità di collaborare con e assistere i servizi segreti per indefinite ragioni di tutela della sicurezza nazionale. Convenzioni che possono anche essere stipulate con le Università e con gli enti di ricerca. Accordi che possono prevedere “la comunicazione di informazioni (…) anche in deroga alle normative di settore in materia di riservatezza”. Dunque, si deve dedurre che si rende possibile, se non doveroso, trasmettere informazioni “riservate” (sui comportamenti tenuti o le opinioni manifestate) da parte dei fruitori dei servizi pubblici. Nel caso delle Università, persino informazioni inerenti alla ricerca o alla cultura di docenti e studenti. Il grande fratello è in agguato, la libertà di opinione invece è in pericolo.
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