Due CSM sono meglio di uno?

di Giorgio Repetto

Università degli studi di Perugia

Con la sua approvazione in prima deliberazione alla Camera dei deputati il 16 gennaio 2025, il d.d.l. costituzionale che mira a introdurre un regime di separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri ha superato la prima delle approvazioni richieste dall’art. 138 Cost.

Merita innanzi tutto attenzione il fatto che, contrariamente a quanto è avvenuto per altre proposte di revisione costituzionale di provenienza governativa (basti pensare alla riforma del c.d. premierato), il testo presentato dalla Presidente del Consiglio e dal Ministro della Giustizia non è stato in nessun modo emendato durante i lavori parlamentari, coerentemente con l’intenzione dei promotori di “blindarne” i contenuti.

Scelta legittima, e forse anche prevedibile, se non fosse che, nello spirito e nella lettera dell’art. 138 Cost., la prima lettura da parte delle due Camere è proprio la sede nella quale concentrare il dibattito e le proposte di modifica, tenuto conto della impossibilità di emendare il testo nella seconda deliberazione. Il che denota, con tutta evidenza, la ferma intenzione del Governo e della sua maggioranza di non mettere in discussione né la filosofia di fondo della proposta, né – e questo stupisce maggiormente – singoli aspetti di dettaglio, nonostante le non poche critiche che sono venute, in questi mesi, dagli studiosi e dal mondo della magistratura (a partire dalla presa di posizione della stessa maggioranza del CSM).

A meno di improbabili (ma pur sempre possibili) sorprese, è quindi legittimo aspettarsi che, ove anche il Senato non dovesse approvare nei prossimi mesi modifiche, il testo della riforma arriverà alla seconda lettura delle due Camere nello stesso testo licenziato dal Consiglio dei ministri, rendendo così nella sostanza impossibile il raggiungimento di una maggioranza superiore a quella assoluta, con l’esito pressoché inevitabile del conseguente referendum.

Quale che sarà l’esito dei lavori parlamentari, il mantenimento dell’impianto originario della riforma consente di riprendere il filo delle discussioni avanzate in questo blog (Fènyes/Poletto, Bartole e, da ultimo e più in generale, Merloni), anche per evidenziare una volta di più come sulla giurisdizione, e sui profili organizzativi e funzionali dell’indipendenza del giudice, si scarichino oggi problemi e tensioni proprie dell’azione di governo, più che preoccupazioni relative all’efficienza della giustizia.

Malgrado, infatti, la relazione di accompagnamento al d.d.l. n. 1917 giustifichi l’intervento di riforma alla luce della necessità di dare piena attuazione al principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., si può dubitare che gli accorgimenti organizzativi volti a costituzionalizzare la separazione delle carriere (in primis, lo sdoppiamento del CSM) abbiano a che fare con quell’obiettivo e, ancora prima, che la stessa modifica della Costituzione sia realmente necessaria rispetto al fine di accrescere l’indipendenza della giurisdizione nel suo complesso.

Su quest’ultimo punto, si può almeno ricordare che, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 37 del 2000), “[l]a Costituzione […] pur considerando la magistratura come un unico ‘ordine’, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”. E del resto, è noto che le riforme intervenute negli ultimi anni sul tema, in particolare la riforma Cartabia, hanno reso sempre più teorica la possibilità di un passaggio dalla carriera giudicante a quella requirente (o viceversa). Come dimostrano i dati, infatti, tale eventualità riguarda oggi percentuali, sul corpo complessivo degli appartenenti all’ordine giudiziario, sistematicamente inferiori all’1%, con un trend decrescente negli ultimi anni (cfr. pag. 9 del richiamato parere del CSM).

Se separazione delle carriere deve essere, pertanto, è decisamente discutibile che essa venga perseguita non eliminando in via legislativa le residue possibilità di passaggio da una carriera all’altra, ma intervenendo sugli aspetti organizzativi dell’autonomia istituzionale dell’ordine giudiziario: introducendo un doppio CSM, prevedendo la modalità del sorteggio per la designazione dei componenti (sia laici che, in forma ancora più radicale, togati), istituendo un’Alta Corte cui demandare l’esercizio della funzione disciplinare, sinora affidata all’apposita sezione del CSM.

La replica a questi argomenti è nota: al di là dei dati numerici sui passaggi da una carriera all’altra, a connotare in termini non pienamente garantistici l’impianto attuale sarebbe la circostanza che, appartenendo a un unico ordine garantito organizzativamente da un unico Consiglio superiore della magistratura, vi sarebbe una sostanziale contiguità tra giudici e pubblici ministeri, che li renderebbe sistematicamente allineati “dalla stessa parte” a danno, in particolare, dell’imputato nel processo penale.

Ora, al di là di altre considerazioni (su cui si tornerà più avanti), a smentire già prima facie una connivenza di questo tipo sono i dati risultanti da un’analisi recente, dalla quale emerge che, nella giustizia penale, tanto i tassi di revisione delle sentenze di condanna in appello (reversal rate), quanto la percentuale di assoluzioni pronunciate in primo grado, si attestano su grandezze non diverse da quelle proprie di altri sistemi, così da smentire l’assunto di un difetto di terzietà del giudice rispetto al p.m.

Se, quindi, né l’esigenza di arrestare un flusso di passaggi da una carriera all’altra, né la necessità di porre rimedio a una pericolosa connivenza accusatoria tra giudici e pubblici ministeri giustificano la scelta di “distinguere” le carriere dei magistrati giudicanti e di quelli requirenti (di carriere “distinte” parla infatti il nuovo art. 102, primo comma, Cost.), viene da chiedersi quali effetti possano ragionevolmente discendere dalla separazione in due distinti Consigli superiori dell’organo di garanzia della giurisdizione.

Sul punto, è difficile non essere d’accordo con chi ha osservato (soprattutto Azzariti e Gialuz, nel corso delle audizioni in Commissione alla Camera) che, dalla creazione di un CSM composto da soli magistrati del pubblico ministero separato e distinto da quello della magistratura giudicante, possa scaturire un effetto del tutto opposto a quello perseguito dai riformatori. La frattura organizzativa dell’organo di autogoverno (uso quest’espressione, diffusamente ripresa dalla relazione di accompagnamento, benché sia largamente criticabile) è ragionevolmente destinata, infatti, a produrre un’eterogenesi dei fini, secondo la quale l’unità dell’ordine giudiziario (che resta affermata nell’art. 104 Cost.) rischia di venire incrinata da una autoreferenzialità organizzativa della magistratura requirente, che non si troverebbe più a condividere nello stesso organo una comune cultura giurisdizionale con la magistratura giudicante. Il rischio, infatti, è che – una volta venuta meno la comunanza tra giudici e p.m. quanto al radicamento dell’organizzazione complessiva della magistratura intorno a una condivisa cultura della giurisdizione – per la magistratura requirente possa affermarsi l’idea di essere un corpo separato (il p.m. come “avvocato della polizia”), che persegue propri obiettivi sul terreno della prevenzione e della repressione dei reati, autonomi e forse anche contrapposti a quelle istanze di garanzia che contrassegnano in sé la giurisdizione penale.

In definitiva, oltre al fatto che la duplicazione degli organi di autogoverno non è un presupposto essenziale della separazione delle carriere, essa rischia anche di aggravare quei tratti di asimmetria che, anche nel processo accusatorio, permangono tra pubblica accusa e imputato.

A mostrare un ulteriore scarto tra aspettative dei riformatori e realtà, è risaputo – e traspare chiaramente dalla relazione di accompagnamento – che la separazione delle carriere si accompagna all’idea che il giusto processo di cui all’art. 111 Cost. sottenda una parità delle parti, intesa non solo come parità di armi processuali, ma anche (e soprattutto) come simmetria dell’organo dell’accusa rispetto all’imputato, nell’essere entrambi parti perfettamente equiparate del processo. Ora, messa da parte la facile semplificazione di un processo penale “all’americana” (che presuppone congegni del tutto estranei al nostro sistema come la generalizzazione del trial by jury e, ancora prima, la responsabilità politica degli organi di vertice della pubblica accusa), la simmetria richiesta dal processo accusatorio è meno legata di quanto si pensi normalmente agli aspetti organizzativi del sistema di autogoverno, quanto piuttosto agli aspetti funzionali dell’esercizio della magistratura requirente.

Viene da pensare, in primo luogo, all’organizzazione degli uffici di procura e al sempre più incisivo potere di coordinamento affidato al procuratore capo, a partire dal d.lgs. n. 106 del 2006, che non ha mancato di suscitare perplessità anche in ragione della sottrazione di tali ambiti ai poteri di intervento del CSM, soprattutto quando quel potere arriva a ricomprendere la condotta del singolo p.m. in udienza. Oppure, ci si può domandare se non sia assai più utile, in vista della migliore realizzazione del giusto processo penale, rendere più effettiva di quanto non avvenga oggi una previsione poco e male osservata come quella dell’art. 358 cod. proc. pen., secondo la quale “[i]l pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati dall’art. 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”.

Insomma, è connaturato al modello costituzionale del pubblico ministero che questo sia, come scriveva anni fa Gaetano Silvestri, “parte imparziale”. Ma ciò non significa che possa essere in tutto e per tutto equiparato all’imputato, perché, mentre quest’ultimo resta un soggetto privato che difende attraverso il giudizio i propri diritti fondamentali, l’esponente della pubblica accusa resta “un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi” (Corte cost. sentt. n. 26 del 2007 e n. 34 del 2020). E un conto è che questo potere e questi interessi collettivi siano quelli propri della giurisdizione nel suo complesso e abbiano, proprio per questo, valenza e rilievo generali; un altro conto è, invece, che siano proiezione di una porzione della magistratura, che persegue un fine istituzionale proprio e specifico e non partecipa organizzativamente del complesso dell’ordine giudiziario.

Queste ambiguità, se non vere e proprie contraddizioni, fanno emergere il dubbio di fondo che suscita l’intervento di riforma, al netto delle ulteriori considerazioni che potrebbero farsi su altri aspetti controversi della riforma, come l’introduzione del meccanismo del sorteggio per la composizione dei membri togati e laici dei due CSM, nonché la previsione dell’Alta Corte disciplinare.

Se lo sdoppiamento dei CSM e l’autonomizzazione organizzativa della magistratura requirente da quella giudicante hanno poco o nulla a che fare con la separazione delle carriere e con la realizzazione del giusto processo in materia penale, diventa inevitabile chiedersi: perché mai la maggioranza ha fatto di questa riforma un vessillo dell’azione di governo, al punto da blindarne i contenuti?

Al di là di diverse considerazioni, il timore è che la posta in gioco effettiva sia un’altra, e cioè creare le condizioni affinché l’autoreferenzialità organizzativa del pubblico ministero porti con sé anche una maggiore discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, ciò che renderebbe le scelte di politica criminale pericolosamente vicine al terreno della responsabilità politica, col rischio che, se di discrezionalità e di responsabilità politica si deve parlare, meglio allora sarebbe approdare a una dipendenza funzionale (se non anche organizzativa) della pubblica accusa dal potere esecutivo. Certo, va detto che, a differenza di altri d.d.l. esaminati alla Camera congiuntamente a quello governativo, quest’ultimo non prevede una contestuale modifica anche dell’art. 112 Cost. Ma resta il fatto che la creazione di un apposito CSM della magistratura requirente è destinata a favorire l’inseguimento da parte di quest’ultima di un’autonoma legittimazione popolare, come ad esempio nel caso (non del tutto teorico) in cui un p.m. faccia appello al “proprio” CSM per stigmatizzare comportamenti di giudici non disposti a dare seguito alle pretese punitive provenienti dall’opinione pubblica.

In ogni caso, quale che sia lo scenario, resta indubbio che il modello italiano che prevede la piena inclusione del pubblico ministero nella giurisdizione – e che è servito da modello virtuoso in Europa al momento della creazione dell’EPPO (European public prosecutor’s office) ed è usato come best practice dalla Commissione di Venezia – non sarebbe più, pur con tutti i suoi limiti, quello che abbiamo conosciuto sinora.