A quando la fine del neo-liberismo?
di Eugenio Bruti Liberati
Quando, nel 1926, Keynes proclamò la fine, sul piano scientifico, del laissez faire, molte se non tutte le politiche che concretamente avrebbero dato attuazione al nuovo paradigma – ad un paradigma che legittimava un forte intervento pubblico nella produzione e nella distribuzione della ricchezza – erano ben lontane dall’essere state avviate.
Se per convincere gli Stati Uniti ad invertire la rotta, eleggendo Roosevelt e realizzando tra mille resistenze il New Deal, fu necessaria la grande crisi finanziaria del 1929, per larga parte dell’Europa e per altre aree del mondo si dovette attendere anche la fine della seconda guerra mondiale, con le sue distruzioni e con la sconfitta dei modelli alternativi proposti dai regimi totalitari di Germania, Italia e Giappone, perché il nuovo modello, inclusivo anche di un welfare diffuso se non universale, potesse realmente affermarsi.
Oggi, a distanza di quasi cento anni da quel proclama, dopo la crisi finanziaria ed economica del 2008 e la pandemia, con l’emergenza climatica da affrontare e una guerra alle porte dell’Europa ancora in corso, il declino del neo-liberismo – erede di quel laissez faire e dominante almeno dalla metà degli anni ’80 del Novecento – appare innegabile sotto il profilo teorico e del consenso di massa, ma stentano ancora ad avviarsi in Europa e in Italia le politiche necessarie per rimediare alle conseguenze sociali del suo lungo predominio.
Certo, a partire dalla fine del 2019 ha avuto inizio una nuova stagione di politiche pubbliche europee, con il Green Deal e la nuova strategia industriale; e tali nuove politiche assegnano alle istituzioni europee e nazionali un ruolo – di guida e di indirizzo dei processi economici, per orientarli verso gli obiettivi pubblici della decarbonizzazione, della digitalizzazione e dell’autonomia strategica dell’industria europea – ben lontano dai canoni del liberismo.
Ma, aldilà delle forti resistenze che la nuova Green Industrial Policy sta incontrando in alcuni suoi capitoli essenziali (come quelli inerenti alla riconversione ecologica dell’industria automobilistica e dell’edilizia e al ripristino degli eco-sistemi), solo labili tracce si scorgono per ora delle politiche sociali, fiscali e del lavoro indispensabili per ridurre le disuguaglianze, il disagio sociale e i conflitti.
Dal ricco dibattito politico-culturale su questi temi sono già venute, anche in Italia, proposte e sollecitazioni molto puntuali (v., quanto meno, M. Salvati – N. Dilmore (2021) e i contributi pubblicati sui due numeri quasi monografici de Il Mulino n. 4/22 e 2/23); ma è purtroppo evidente che interventi incisivi ed organici di carattere redistributivo non sono – con talune limitate e insufficienti eccezioni (come in Italia quella relativa alla possibile introduzione del salario minimo) – al centro dell’Agenda politica europea e nazionale e non rappresentano affatto una priorità né per le istituzioni europee né per molti governi nazionali.
Eppure, a prescindere da qualsiasi considerazione di carattere morale, dovrebbe essere ormai chiaro che l’assenza di una reale prospettiva di mobilità e di crescita sociale e il permanere (e anzi l’espandersi) di vaste aree di disagio e di emarginazione sono causa di conflitto, di lacerazione e di violenza. E sono terreno fertile per movimenti populisti e illiberali: come si è ben visto in questi anni in quasi tutti i paesi europei e negli Stati Uniti, e come del resto era avvenuto – con tutte le differenze del caso – negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso.
Non basta Keynes, né per rendere possibile una credibile lotta al cambiamento climatico, con i suoi ben noti effetti “disruptive” e i conseguenti costi sociali (v. E. Bruti Liberati (2021), né per restituire alla larga maggioranza degli elettori quella prospettiva di benessere o almeno di sicurezza economica da cui anche dipende la fiducia nei complessi meccanismi politici propri dei sistemi liberaldemocratici.
Occorre anche Beveridge, con una politica di finanziamento pubblico dei diritti e un welfare realisticamente universalistico.
Né si può credibilmente obiettare che, in una dimensione europea, manchino le risorse finanziarie per sostenere grandi investimenti – e, più in generale, una grande mobilitazione – nell’istruzione, nella sanità pubblica e nelle politiche di inclusione e di coesione. Quelle risorse ci sono, come il recente Next Generation UE ha dimostrato; e, a parte il problema di alcuni Paesi (come l’Italia) della insufficiente capacità amministrativa necessaria per utilizzarle tempestivamente, la questione è semmai che non si vuole neanche discutere apertamente, in sede politica, delle misure di ordine finanziario o fiscale adottabili – senza abbandonare i canoni della necessaria serietà di bilancio – per incrementarle ulteriormente (su tali misure, dall’aumento della progressività delle imposte, alla lotta ai paradisi fiscali e all’evasione, sino alla possibile emissione di altri titoli obbligazionari europei, v. ancora Salvati-Dilmore (2021)).
Aldilà degli argomenti di carattere morale più o meno credibilmente utilizzati dai governi di alcuni Paesi del Centro e Nord Europa, che dall’assetto attuale traggono in realtà vantaggi finanziari evidenti e che appaiono poco inclini ad adottare una visione di più ampio (e lungo) respiro, si teme forse che politiche fiscali più progressive, come anche politiche industriali e regolazioni più ambiziose, possano indurre il capitale privato a ritrarsi dagli investimenti produttivi ed infrastrutturali necessari per garantire gli attuali complessivi livelli di ricchezza della società europea.
Per quanto tali timori possano trovare più di un appiglio anche in analisi estremamente critiche nei confronti dell’attuale assetto (v. ad esempio W. Streeck (2013), l’esperienza sembra in realtà mostrare che il capitale, pur se certamente non apprezza interventi pubblici diretti a limitare i suoi profitti e il suo potere di mercato, tuttavia è disponibile ad accettarli se il contesto politico e normativo in cui è chiamato ad operare è comunque in grado di garantire certezza, prevedibilità e trasparenza delle regole, sicurezza di una ragionevole remunerazione degli investimenti e sufficiente autonomia d’impresa nelle decisioni relative alla produzione e alla vendita.
Come ha indirettamente rilevato anche Giuliano Amato, è il ritorno ad un intervento pubblico arbitrario, opaco, pervasivo e sproporzionato – come quello che aveva finito per imporsi in molti Paesi europei negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso – e non il fatto in sé che gli Stati intervengano più incisivamente sui mercati, ad essere incompatibile con un largo mantenimento degli impieghi produttivi del capitale privato.
Non per nulla la Commissione UE, quando ha delineato la nuova strategia industriale europea preordinata ad una crescita realmente sostenibile, ha chiarito esplicitamente che essa, nonostante il suo evidente carattere finalistico, dovrà comunque rispettare (e coordinarsi con) le politiche di concorrenza, e che la libertà d’impresa, pur orientata verso gli obiettivi della transizione ecologica e digitale e dell’autonomia strategica europea, continuerà ad avere rilevanti spazi di manovra.
È un patto molto chiaro quello che le istituzioni europee hanno proposto alle imprese: in cambio del loro impegno a perseguire gli obiettivi di riduzione delle emissioni, di rapida digitalizzazione e di autonomizzazione della filiera industriale strategica europea, è stato promesso il pieno mantenimento di un contesto di mercato, anche nei nuovi ambiti economici derivanti dalla transizione ecologica e digitale, una maggiore tolleranza verso le operazioni di aggregazione coerenti con quegli obiettivi e più robusti aiuti pubblici (v. al riguardo le chiare indicazioni contenute nella Comunicazione della Commissione UE dell’11 dicembre 2019 sul Green Deal europeo e nelle Comunicazioni del 2020 e del 2021 sulla nuova strategia industriale europea).
Perché questo patto possa somigliare maggiormente al c.d. compromesso socialdemocratico che ha portato ai trent’anni di crescita inclusiva del secondo dopoguerra, e condurre ad analoghi benefici sociali e politici, è ora indispensabile che a quella strategia industriale si affianchino rapidamente politiche fiscali, del lavoro e di welfare che, senza scadere nel lassismo e nella mancanza di rigore finanziario che in passato abbiamo ben conosciuto, siano in grado di distribuire in modo più equo la ricchezza già prodotta e quella che potrà esserlo nel prossimo futuro.
Le condizioni politiche e sociali perché questo concretamente possa avvenire sono ovviamente molto complesse e non dipendono solo dall’Europa (per una lucida analisi di tali condizioni v. ancora Salvati – Dilmore (2021)). Ma la prima condizione è che coloro che hanno il potere di orientare il corso degli eventi abbiano la consapevolezza della posta in gioco e la precisa volontà di andare nella direzione necessaria.
Oppure si preferisce attendere che i movimenti populisti e nazionalistici divengano ovunque maggioritari, con tutti i rischi conseguenti sul piano della tenuta delle istituzioni democratiche e della conflittualità nelle relazioni internazionali?
Ottobre 2023
Alcune indicazioni bibliografiche
- Amato, Bentornato Stato, ma, Il Mulino, 2022
- Beveridge, Social Insurance and Allied Services, 1942
- Bruti Liberati, Politiche di decarbonizzazione, costituzione economica europea e assetti di governance, in Diritto Pubblico, 2/21, 415 ss.
- Il Mulino, 4/22, L’Italia dei divari
- Il Mulino, 2/23, Serve più Stato?
- M. Keynes, La fine del laissez faire, ora in J.M. Keynes, Democrazia e mercato. Saggi tra il 1923 e il 1946, Edizioni Società aperta, 2022.
- Salvati – N. Dilmore, Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo, Feltrinelli, 2021
- Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, 2013