G. Gardini, C. Tubertini, “L’amministrazione Regionale”, Torino, Giappichelli, 2022

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GIANLUCA GARDINI, CLAUDIA TUBERTINI, L’amministrazione Regionale, Torino, Giappichelli, 2022.

Questo volume nasce anzitutto da una constatazione relativa alla produzione scientifica riguardante il diritto regionale. Sin da quando si è iniziato a riflettere sulla fisionomia e sulle funzioni delle Regioni, ossia ben prima della loro effettiva istituzione, l’attenzione della dottrina italiana si è concentrata, in massima parte, sul profilo costituzionale di questi enti: il potere legislativo regionale, l’autonomia statutaria, i rapporti tra le fonti, la forma di governo, e più in generale i limiti derivanti dall’innesto delle Regioni all’interno di uno Stato che aveva da poco, e faticosamente, raggiunto la propria unità politica. La riprova di ciò si può ottenere da una rapida disamina della letteratura giuridica in tema di Regioni, in massima parte alimentata da studiosi di diritto costituzionale e, per tradizione, delimitata dagli argini robusti – quantomeno nel nostro sistema giuridico e universitario – del relativo settore disciplinare. In quest’ottica, le Regioni sono state percepite principalmente come articolazioni istituzionali della Repubblica, nel loro rapporto di permanente tensione con il centro e con la spinta centripeta che da esso proviene, nell’ambito di una più generale riflessione sulla forma di Stato italiana e sui suoi elementi differenziali rispetto ai più consolidati ordinamenti federali.

Questo approccio ha finito per lasciare parzialmente in ombra un aspetto che ha assunto crescente importanza: la natura di grandi apparati amministrativi delle Regioni, che occupano una parte rilevante, in termini di competenze e mezzi, della vasta galassia delle pubbliche amministrazioni. La crescita costante delle dimensioni dell’apparato amministrativo regionale diretto e indiretto, sintomo evidente di una torsione amministrativa rispetto al modello politico originario, è divenuto un elemento chiave, che non può più essere ignorato né sottovalutato per comprendere a fondo il funzionamento reale del nostro ordinamento. La progressiva affermazione delle Regioni come enti di amministrazione oltre che come centri di produzione legislativa, la loro attitudine a proporsi come rappresentanti degli interessi generali della comunità regionale, il rapporto (non sempre agevole) con gli enti territoriali minori, impongono all’analisi scientifica un diverso approccio. Il difficile equilibrio tra poteri autonomi, la complessità dei livelli di governo compresenti all’interno nel medesimo ambito territoriale, la formazione di nuove organizzazioni per la rappresentanza e la cura degli interessi delle collettività, rappresentano oggi la ricchezza e, al tempo stesso, uno dei principali fattori di complessità dell’ammini­strazione italiana.

Un simile quadro è ben diverso da quello che si offriva ai Costituenti al momento di disegnare la fisionomia delle Regioni. Questa diversità ci ha spinto a proporre un’analisi dell’ordinamento regionale che pone al centro l’amministrazione nelle sue principali declinazioni (principi, organizzazione, attività, relazioni intersoggettive), pur senza trascurare la forma di governo e i tratti costituzionali delle Regioni, tradizionalmente oggetto dell’attenzione dottrinale. L’analisi si è concentrata prioritariamente sul­l’esperienza delle Regioni a statuto ordinario, tenendo però in considerazione anche le principali differenze (e le relative criticità) derivanti dalla loro coesistenza con le Regioni speciali.

La seconda ragione che ha ispirato questo lavoro è legata all’ondata di critiche che, negli ultimi dieci anni, ha investito e continua a investire le Regioni italiane.

A far data dall’inizio della violenta crisi finanziaria che, nel secondo decennio del XXI secolo, ha travolto l’economia globale, tutte le autonomie territoriali, incluse quelle regionali, sono state sottoposte a un ripensamento radicale, e l’intero fenomeno che va sotto il nome di decentramento autonomistico è stato messo in discussione nella propria ragione di esistenza.

Sferzati dalla crisi, gli Stati sono stati costretti a operare drastiche misure di razionalizzazione, che hanno determinato una massiccia fuga di investimenti e fiducia dalle autonomie in direzione del centro, in particolare verso gli esecutivi. Il fenomeno non ha riguardato solo l’Italia, ma l’in­tera Eurozona: osservando le riforme messe in atto in paesi come Grecia, Portogallo, Spagna, Francia, si percepisce in modo evidente il movimento in senso ascensionale del potere pubblico, che risale i diversi livelli di governo nella speranza di incontrare nello Stato un soggetto politico fornito di una visione unitaria, in grado di contenere la frammentazione delle sedi decisionali e di esercitare un controllo più efficace sulla spesa. Il «dilagante neocentralismo della legislazione della crisi» ha trovato in Italia un terreno particolarmente fertile, e il recupero da parte dello Stato di molte politiche, sia congiunturali che strutturali, già devolute alle autonomie territoriali, è divenuta la “ricetta nazionale” per la cura dei problemi economici del Paese. Le Regioni sono uscite fortemente indebolite dalla crisi, sia sul versante finanziario che nella loro capacità di legiferare, al punto che oggi molti sostenitori e promotori del regionalismo teorizzano, se non la riconfigurazione in apparati amministrativi privi di potestà legislativa, quantomeno un forte ridimensionamento del ruolo politico delle Regioni.

La battuta di arresto subita dal decentramento autonomistico non sfuma con l’attenuarsi del ciclo della crisi economica, ma viene anzi ulteriormente acuita e aggravata dall’emergenza sanitaria che si accende nel 2020, per la diffusione del virus Covid-19. Sin dall’esordio della Pandemia, molti studiosi e commentatori, con la stessa fermezza con cui in passato avevano sostenuto il progetto autonomistico, hanno evidenziato l’inadeguatezza del­l’articolazione dei poteri tra centro e periferia, nonché le eccessive differenziazioni regionali e locali (non solo nella sanità), considerate un intralcio per la guida unitaria del Paese dinanzi alle emergenze.

Tenendo conto di questi elementi, questo volume cerca di riportare il dibattito sulle Regioni e sul regionalismo entro binari più certi, più oggettivi e meno condizionati dall’emotività che inevitabilmente è associata al verificarsi di fasi storiche avverse. Alzando lo sguardo oltre il dato congiunturale, si è provato a ripercorrere la parabola istituzionale di questi enti, mettendo a confronto il progetto originario con l’immagine attuale che le Regioni proiettano nella società. Il giudizio comunemente diffuso sulle Regioni e sulla classe politica regionale, questa è stata la premessa del nostro ragionamento, è spesso acriticamente negativo, e le Regioni vengono solitamente ricordate più come centri di spesa – e di spreco – che come enti cui sono ormai da tempo intestati la regia e lo sviluppo delle politiche territoriali.

In realtà, gli Autori del volume ritengono che non sia possibile immaginare un ritorno al passato, ad uno Stato centralizzato e uniforme che dall’alto governa i territori, amministra le risorse, gestisce i servizi pubblici, cura l’interesse delle persone che abitano le diverse aree del nostro Paese.. I singoli, le collettività, le istituzioni, oggi, non potrebbero più immaginare se stessi senza le Regioni, perché il regionalismo contiene un’intuizione formidabile, vitale, che riempie di significati nuovi il concetto di cittadinanza, intercettando il bisogno di fondo delle comunità di praticare la democrazia rappresentativa nei territori e a partire da essi. Il fatto che il “tipo di Regione” sin qui realizzato, tanto al Nord quanto al Sud del Paese, non abbia corrisposto alle aspettative, non autorizza a scartare questo modello di amministrazione, bollandolo come inutile, ma deve semmai spingere ad avviare un processo di riforma e rifondazione del regionalismo. L’effi­cienza dei servizi pubblici, l’effettività delle prestazioni e la soddisfazione dei diritti dipendono in gran parte dalla capacità delle Regioni di trasformarsi in enti di governo, di assumere la funzione di agenzie per lo sviluppo dei territori, di fornire un indispensabile contributo per l’innova­zione delle regole. Senza le Regioni, questo è il senso ultimo dell’analisi svolta, viene meno la possibilità di realizzare il concetto stesso di democrazia.

All’esito di un lavoro di ricostruzione storica e giuridica, che ripercorre gli ostacoli, esogeni ed endogeni, che l’attuazione delle Regioni ha incontrato in questi cinquant’anni di esistenza, vengono formulate alcune proposte per una possibile rifondazione del regionalismo, inteso come spirito più che come architettura istituzionale. La speranza che anima quest’opera è quella di riaprire un dibattito costruttivo sulle Regioni, che non abbia come obiettivo ultimo quello di assimilarle alle altre autonomie territoriali attraverso un processo di mero downsizing di funzioni e apparati, ma di riportare questi enti al­l’originario ruolo di regia del sistema territoriale, contenendone gli eccessi di burocratizzazione e valorizzandone al contempo il profilo rappresentativo e democratico.

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