Garantire una tregua in Ucraina: quale ruolo per la Politica di sicurezza e difesa comune dell’UE?

image_pdfimage_print

di Stefano Saluzzo

Università del Piemonte Orientale

1. L’avvicinarsi dell’insediamento di Donald Trump, previsto per il 20 gennaio 2025, riaccende le pressioni statunitensi per una rapida risoluzione del conflitto russo-ucraino. Nell’attuale scenario, in realtà, l’obiettivo più immediato parrebbe essere quello di un accordo per una tregua tra le due parti e di un potenziale coinvolgimento di forze di pace dell’Unione europea a garantirne il rispetto.

La prospettiva, che muove da un’iniziativa francese non ancora formalizzata, costituirebbe certamente un ulteriore banco di prova per la tenuta e la credibilità della Politica di sicurezza e difesa comune dell’Unione europea (PSDC). Se è vero che questa ha subito un’accelerazione a seguito dell’aggressione russa, tanto sul piano istituzionale che su quello del finanziamento, è altrettanto vero che i prossimi mesi vedranno l’UE doversi districare tra le aspettative della Presidenza Trump sull’assunzione di un ruolo più chiaro della difesa europea sul fronte dell’Europa orientale, le necessità di coordinamento con la NATO e la definizione delle risorse economiche da destinare all’industria europea della difesa. Segnale dell’attenzione che anche la nuova Commissione europea ha posto su questi aspetti è quello proveniente dalla individuazione di un Commissario ad hoc per la difesa e lo spazio. Si tratta di una figura inedita, che, stante la natura peculiare della PSDC, dovrà trovare la propria collocazione nel quadro istituzionale europeo, intervenendo con cautela in un settore su cui gli Stati membri conservano ancora gelosamente un elevato grado di controllo.

Il più limitato obiettivo di questo breve commento, tuttavia, è quello di offrire una riflessione sulla capacità della difesa europea di istituire e gestire una operazione di pace volta a garantire un’ipotetica tregua tra le parti.

2. La PSDC si configura nel Trattato sull’Unione europea come una politica peculiare, ancora fortemente ancorata al c.d. metodo intergovernativo. Sebbene essa sia inserita a tutti gli effetti nella più ampia Politica estera e di sicurezza comune dell’Unione (PESC), i meccanismi decisionali e operativi della PSDC seguono una logica che il TUE stesso ha voluto attenta alla tutela delle prerogative nazionali.

L’obiettivo generale della PSDC è fissato dall’art. 42 TUE e si sviluppa lungo due direttrici principali: da un lato, assicurare che l’Unione disponga di una capacità operativa ricorrendo a mezzi civili e militari, potendosene avvalere in missioni e operazioni al suo esterno; dall’altro lato, il graduale sviluppo di una “difesa comune europea”, da non intendersi nel solo significato –limitante e per certi versi desueto – di “esercito comune”[1].

La competenza ad attuare la PSDC è attribuita alle due istituzioni in cui si riflette la componente intergovernativa dell’assetto istituzionale europeo: il Consiglio europeo e il Consiglio. Il primo definisce le linee strategiche e gli obiettivi generali della politica di difesa, mentre al secondo spetta un ruolo più operativo, di attuazione materiale degli orientamenti adottati dal Consiglio europeo. Come noto, la Commissione non riveste in questo contesto un ruolo rilevante: non esercita il potere di iniziativa, non ha compiti esecutivi né assume la rappresentanza esterna dell’Unione in materia di difesa comune. Tali funzioni sono in parte assolte dall’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, insieme con gli Stati membri. L’impostazione qui delineata è ulteriormente confermata dalla impossibilità di adottare atti legislativi e dalla regola generale dell’unanimità per l’adozione degli altri atti. Rimane tendenzialmente escluso il Parlamento europeo, il quale deve essere regolarmente consultato dall’Alto rappresentante e può formulare semplici raccomandazioni (art. 36 TUE). Così come esclusa è la giurisdizione della Corte di giustizia sugli atti della PSDC.

Le missioni e le operazioni dell’UE possono essere di natura civile o militare. È sempre l’art. 42 TUE a definirne gli obiettivi generali, richiamando la necessaria conformità con la Carta delle Nazioni Unite: mantenimento della pace, prevenzione dei conflitti e rafforzamento della sicurezza internazionale. Il successivo art. 43, par. 1 TUE delinea, in un elenco non esaustivo, alcune tipologie di missioni e operazioni: “azioni congiunte in materia di disarmo, le missioni umanitarie e di soccorso, le missioni di consulenza e assistenza in materia militare, le missioni di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace e le operazioni di stabilizzazione al termine dei conflitti”. Si tratta di iniziative che attraversano uno spettro ampio di ipotesi, da quelle di carattere più marcatamente civile (missioni umanitarie o di soccorso) fino a quelle che comportano l’impiego diretto di forze armate (missioni di peace-keeping o di peace-enforcement). 

3. Nella prospettiva di uno spiegamento di forze dell’UE volto a garantire una tregua tra le parti del conflitto russo-ucraino, vi sono almeno tre elementi meritevoli di attenzione.

Il primo attiene alle procedure decisionali e alla partecipazione degli Stati membri. La decisione di istituire un’operazione è adottata dal Consiglio (nella formazione Affari esteri), che delibera all’unanimità su proposta dell’Alto rappresentante o su iniziativa di uno Stato membro. L’onerosa previsione dell’unanimità è mitigata dalla possibilità di astensioni “qualificate”, che non impediscono l’adozione della delibera, secondo il disposto dell’art. 31, par.1 TUE. Lo Stato astenutosi non parteciperà all’attuazione della decisione del Consiglio e, dunque, alla missione nel suo insieme. Ciò consentirebbe ad alcuni Stati membri di non impegnarsi direttamente in una operazione di peace-keeping sul territorio ucraino, senza che ciò ne pregiudichi in concreto l’attivazione e lo spiegamento. Poiché l’UE non dispone di proprie forze, le missioni e le operazioni di PSDC sono condotte attraverso le capacità messe a disposizione dagli Stati membri, secondo una procedura definita di “force generation”. Va inoltre ricordato che, mentre non tutti gli Stati membri potrebbero partecipare all’operazione, questa potrebbe invece vedere la partecipazione di Stati terzi, i quali saranno ammessi a prendervi parte tramite un accordo internazionale concluso con l’UE [2].

Il secondo aspetto attiene alla base giuridica di una siffatta operazione dal punto di vista dell’ordinamento internazionale. Stante la difficoltà di immaginare una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla base del Capitolo VII della Carta, una operazione di peace-keeping condotta dall’UE dovrebbe trovare fondamento nella volontà delle parti interessate. In realtà, tutte le operazioni di peace-keeping, non avendo natura coercitiva, hanno necessità di fondarsi quantomeno sul consenso dello Stato territoriale [3]. Si consideri, peraltro, che, con molta probabilità, non ci troveremmo nella situazione di un cessate il fuoco richiesto dal Consiglio di sicurezza, bensì di una tregua concordata tra i belligeranti. Sarebbe dunque necessario che questi ultimi si accordassero anche sulla presenza di una forza internazionale di pace volta a garantire l’osservanza di un accordo di sospensione o cessazione delle ostilità. Il consenso di entrambe le parti assumerebbe rilevanza anche in ordine alla definizione del mandato dell’operazione, che dovrebbe essere improntata alla più stretta imparzialità. In quest’ottica, l’UE conosce già un precedente nell’operazione EUFOR ALTHEA in Bosnia-Erzegovina, lanciata nel 2004 per sostituire la precedente operazione SFOR della NATO. L’operazione trovava fondamento negli accordi di Dayton del 1995, mentre il successivo trasferimento delle funzioni dalla NATO all’UE era stato approvato dal Consiglio di sicurezza con ris. 1575 del 2004. Ancor più significativo è il precedente di EUFOR Concordia, un’operazione di peacekeeping spiegata nel 2003 sul territorio dell’allora Repubblica di Macedonia e che si fondava esclusivamente sul consenso espresso da Repubblica di Macedonia e minoranze albanesi attraverso l’Accordo di Ohrid del 2001. In questo caso, dunque, si trattava di un’operazione istituita autonomamente, secondo la volontà degli attori coinvolti ma al di fuori del quadro delle Nazioni Unite [4].

L’ultimo elemento di rilievo si riscontra nella definizione del mandato e delle capacità operative della missione. Si tratta di un aspetto di particolare sensibilità, foriero di numerose implicazioni per il ruolo giocato dalla PSDC in relazione al conflitto. Il Consiglio dell’UE avrebbe innanzitutto davanti a sé la scelta tra l’istituzione di una missione civile o militare o di una vera e propria operazione militare: si ricorre generalmente alla missione militare per compiti quali la protezione della popolazione civile, la sicurezza dello Stato ospitante o l’assistenza alle sue forze armate; di converso, la missione civile è istituita per compiti quali la consulenza alle istituzioni locali, la cooperazione di polizia o l’assistenza giudiziaria. Il termine operazione, invece, indica interventi militari che contemplino anche l’impiego della forza in combattimento [5]. Sebbene quest’ultima opzione possa apparire come la più confacente agli obiettivi di una operazione di pace quale quella di monitoraggio della tregua, va ricordato che l’UE ha già svolto un’attività di questo tipo ricorrendo a una missione integralmente civile. Ci si riferisce alla missione civile EUMM in Georgia, creata per monitorare la tregua tra Georgia e Russia dopo la guerra del 2008 (c.d. Guerra d’agosto o seconda guerra dell’Ossezia del Sud) e non dotata di assetti militari. La missione scaturiva dall’Accordo dei sei punti concluso tra i belligeranti dietro mediazione dell’UE e aveva anche il compito di pattugliare le linee del “confine amministrativo” tra Georgia e Abkhazia e Sud Ossezia.

È bene specificare che le operazioni dell’Unione non possono avere natura offensiva, anche in ossequio ai principi e agli obiettivi dell’azione esterna dell’UE (artt. 3(5) e 21(2) TUE). Ciò non significa che l’istituzione di una operazione militare non comporti la possibilità di impiego della forza armata. Anche in questo caso, tuttavia, sarebbe necessario definire i limiti di tale impiego, potendo esso rimanere circoscritto ai soli casi di legittima difesa della forza di pace oppure consentito anche quando necessario ad attuare il mandato e gli obiettivi dell’operazione. Soprattutto quest’ultima ipotesi si rivela particolarmente delicata, se si prendono in considerazione le possibili conseguenze di una violazione della tregua da parte di uno degli attori coinvolti. Del resto, è anche difficile immaginare che la Russia possa acconsentire a una forte presenza militare dell’occidente lungo il fronte del conflitto, specialmente di Paesi che, pur se facenti parte dell’UE, sono anche contestualmente membri della NATO. Al tempo stesso, una forza di pace con capacità limitate rischierebbe di non svolgere una reale funzione di deterrenza rispetto alla ripresa delle ostilità.

A questi aspetti se ne aggiungono altri, non meno complessi, che attengono alla strutturazione della catena di comando, all’individuazione dello Stato membro cui spetterebbe coordinare l’operazione e al reperimento degli assetti operativi. Tutti fattori che assumono rilevanza non solo sul piano giuridico delle responsabilità, ma anche su quello politico dei rapporti dentro e fuori l’Unione europea.

4. Forse al momento si tratta di riflessioni puramente teoriche, per quanto il raggiungimento di una tregua sia auspicabile nel più breve tempo possibile. Se questo scenario dovesse nei prossimi mesi divenire plausibile, bisognerà innanzitutto chiedersi se l’UE possa effettivamente giocare un ruolo di “interposizione” tra i belligeranti, considerato l’approccio finora tenuto dalle istituzioni europee e dagli Stati membri nei confronti della Federazione Russa. Non va trascurato, comunque, che lo spiegamento di una forza di pace con il consenso delle parti gioverebbe al recupero di una posizione di maggiore equidistanza, inevitabilmente assente fin dall’inizio del conflitto.

Un intervento dell’UE in chiave di peace-keeping contribuirebbe anche al rafforzamento di quella “autonomia strategica” della PSDC dai partner extra-UE (e, sostanzialmente, dagli Stati Uniti e dalla NATO), intesa quale capacità “di agire autonomamente, se e quando necessario, e con i partner, quando possibile”. Tanto a lungo contemplata dai documenti ufficiali, da ultimo ancora nella “Bussola strategica” adottata dal Consiglio a marzo 2022 [5], ma rimasta finora inattuata.

[1] F. Munari, La politica di sicurezza e difesa comune nell’Unione: il tempo delle scelte, in Rivista Eurojus, 2024, p. 216 ss.

[2] R.A. Wessel, The Participation of Members and Non-Members in EU Foreign, Security and Defence Policy, in W.T. Douma, C. Eckes, P. van Elsuwege, E. Kassoti, A. Ott, R.A. Wessel (a cura di), The Evolving Nature of EU External Relations Law, L’Aia, 2021, p. 180 ss.

[3] M. Frulli, Le operazioni di peace-keeping delle Nazioni Unite: continuità di un modello normativo, Editoriale Scientifica, 2012, p. 25 ss.

[4] A. Spagnolo, L’attribuzione delle condotte illecite nelle operazioni militari dell’Unione europea, Editoriale Scientifica, 2016, pp. 45-46.

[5] L. Grossio, Le missioni e le operazioni militari dell’Unione europea, in A. Miglio, M. Vellano (a cura di), Sicurezza e difesa comune dell’Unione europea, Wolters Kluwer, 2023, pp. 148-150.

[5] C. Cellerino, La difesa europea dinanzi alla guerra in Ucraina tra “autonomia strategica” e vincoli strutturali: quali prospettive per la Difesa comune?, in Quaderni AISDUE, 18 maggio 2022.

Autore

S. Saluzzo

Università del Piemonte Orientale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Translate »