Gli ostacoli all’accesso al diritto d’asilo e la nozione di Paese sicuro: prime prove di applicazione del Protocollo Italia-Albania

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di Chiara Favilli

Università degli Studi di Firenze

Il Nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo

Nonostante che la competenza attribuita all’Unione in materia di immigrazione e asilo sia sulla carta piuttosto ampia, a distanza di 25 anni dalla sua acquisizione l’Unione non è riuscita ad adottare quello che può definirsi il cuore delle politiche migratorie, vale a dire la disciplina dell’immigrazione per motivi di lavoro anche, e soprattutto, non qualificato. Questa mancanza, unitamente alla previsione dei visti da quasi tutti gli Stati di emigrazione e ad una tendenziale riduzione dei canali di ingresso regolare a livello statale, hanno reso l’immigrazione irregolare, eventualmente con successiva richiesta di protezione internazionale, uno dei pochi modi per entrare e rimanere nello spazio europeo.

Nel sistema europeo sono così diventati centrali gli strumenti che dovrebbero essere ancillari e periferici: il sistema Schengen, sul controllo delle frontiere esterne e l’eliminazione dei controlli alle frontiere interne ed il sistema europeo comune di asilo, con un ruolo centrale attribuito al regolamento Dublino.

Ma Schengen e Dublino sono due strumenti intrinsecamente antagonisti: Schengen favorisce la libera circolazione, mentre in base al regolamento Dublino una persona dovrebbe rimanere sempre in uno Stato membro, sulla base del criterio prevalente dello Stato di primo ingresso irregolare. Dublino peraltro non ha mai funzionato perché è complesso riportare una persona in un altro Stato (non siamo di fronte a merci che possono essere impacchettate e spedite ad un indirizzo noto) e non si è mai avuta un’autentica cooperazione tra gli Stati membri. La sua conferma, di riforma in riforma, è l’esempio paradigmatico dell’incapacità dell’Unione di individuare misure lungimiranti e basate sull’analisi della realtà.

Al persistere di Dublino e dei suoi criteri ha fatto eco la riforma del codice Schengen, con l’introduzione di una maggiore flessibilità nella sua applicazione, in particolare nel consentire il ripristino dei controlli alle frontiere interne: 450 dal 2016 con il risultato principale di un vulnus al mercato interno e, dunque, all’economia europea.

Dopo anni di tentativi di riforma, nel 2024 le istituzioni europee giungono all’approvazione del Nuovo patto sulla migrazione d’asilo, costituito da dieci atti, quasi tutti regolamenti sostitutivi di direttive, già in vigore ma con efficacia differita a giugno 2026.

Nonostante l’imponenza della riforma, perdurano gli aspetti profondamente critici sopra evidenziati: continua a mancare una misura sulla migrazione economica che non riguardi i lavori altamente qualificati e una riforma effettiva del regolamento Dublino. Duole constatare, infatti, che permane il criterio dello Stato di primo ingresso irregolare, con tutte le tensioni che ha determinato in mare, sulle operazioni di ricerca e soccorso e, a terra, per la vana invocazione del principio di solidarietà tra gli Stati membri. Qualche novità positiva su quest’ultimo principio esiste; il Patto mira, infatti, a scongiurare che si ripetano in futuro tensioni offrendo alla Commissione la regia delle situazioni di crisi e consentendo agli Stati di scegliere à la carte tra un menù d’azioni possibili per applicare in concreto il principio di solidarietà: ricollocazione, contributi finanziari, contributi operativi e anche addirittura contributi nell’azione nei Paesi terzi.

L’accesso al diritto di asilo: finzione di non ingresso e paese sicuro

La parte più significativa delle nuove misure riguarda il contrasto dell’abuso del diritto di asilo e dell’ingresso irregolare attraverso il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne, con la modifica radicale del sistema di accesso al territorio e al diritto di asilo, secondo il già noto approccio hotspot. La frontiera e le zone di transito diventano luoghi dove si esplicano varie procedure prima che la persona sia giuridicamente ammessa nel territorio pur essendo fisicamente presente: procedure di accertamento, procedure di asilo e procedure di rimpatrio, tutte corredate dal possibile trattenimento in frontiera, che può tradursi in una detenzione, in presenza di alcuni specifici presupposti ed in mancanza di misure alternative.

Per coniugare questo severo regime di accesso al territorio e al diritto di asilo con il necessario rispetto dei diritti fondamentali delle persone che si trovino sotto la giurisdizione degli Stati membri si introduce la finzione di non ingresso: si finge che le persone non siano ancora tecnicamente entrate nel territorio, ritenendo che questo sia sufficiente per impedire l’instaurazione di un legame giuridicamente rilevante tra lo straniero e lo Stato ospitante ed ostacolare il diritto di accesso ad un giudice.

Inoltre, è diffusamente impiegata la nozione di Paese sicuro, che già costituisce il presupposto per l’applicazione delle procedure accelerate nella fase amministrativa e anche della detenzione, qualora sia l’unico modo per garantire la permanenza del richiedente alla frontiera e non ci siano misure alternative (Cometti 2024, Favilli, 2023). Con il nuovo Patto la nozione è ulteriormente ampliata, consentendo di qualificare come sicuro un Paese escludendo parti del suo territorio (considerate non sicure) o solo per alcune categorie di persone (ad esempio ad esclusione delle donne o delle persone albine), possibilità che non è invece prevista in base alla vigente direttiva 2013/32/UE.

La cooperazione con i Paesi terzi ed il Protocollo Italia-Albania

Alle numerose divisioni tra i Governi sul piano interno ha fatto da contraltare la loro coesione sul piano della dimensione esterna: per gestire questo sistema così farraginoso è, infatti, necessario ridurre il numero degli arrivi, intensificando la cooperazione con i paesi di origine e di transito per contenere le partenze, nonché per cooperare ai rimpatri.

La tipologia degli accordi e delle intese informali è molto variegata, dovendo il contenuto specifico essere adattato a seconda del contesto.

Anche il Protocollo Italia-Albania può esservi incluso, perché, anche se si tratta di un accordo bilaterale tra uno Stato membro e uno Stato terzo (né di origine né di transito), si colloca pienamente sulla scia delle misure per contenere i flussi migratori e impedire alle persone di entrare nel nostro territorio. Esso inoltre richiama quelle proposte che a partire dal 2003 si sono via via affacciate nel confronto tra gli Stati europei per prevenire l’ingresso dei richiedenti asilo (ad esempio le proposte di svolgere l’esame nelle navi o di creare piattaforme di sbarco nei Paesi di transito; si permetta il rinvio a Nel mondo dei non accordi. Protetti sì purché altrove). Proposte che sono state puntualmente scartate perché è praticamente impossibile garantire all’estero lo stesso standard di diritti che si garantisce nel territorio, a meno di non affrontare ingenti oneri finanziari al punto da rendere controproducente tutta l’operazione. In altre parole, il problema non è tanto la cooperazione internazionale in sé, ma la sua realizzazione in concreto che è, appunto, praticamente impossibile (Saccucci 2024; Savino, Virzì, 2023). Ed è quello che stiamo osservando rispetto al Protocollo Italia-Albania, che presenta molteplici profili di criticità, alcuni dei quali sono emersi già in relazione alla sua prima applicazione (Masera 2023; Camera dei deputati, audizioni 2024).

La nozione di Paese sicuro tra presunzione ed eccezioni

Poiché le persone tradotte in Albania sono necessariamente trattenute con privazione della libertà personale, l’unica possibilità è applicarvi la procedura accelerata e di frontiera. Quest’ultima, a sua volta, può essere disposta solo se una persona proviene da un Paese sicuro, qualificazione che deve necessariamente dipendere dall’accertamento dei presupposti sostanziali indicati nell’allegato 1 della direttiva 2013/32/UE. È proprio il presupposto della detenzione, vale a dire il decreto sui Paesi sicuri, che non è stato ritenuto applicabile dal Tribunale di Roma, che ha di conseguenza adottato dodici provvedimenti di diniego della convalida del trattenimento. Il decreto sui Paesi sicuri, è (era) infatti basato sull’esclusione di parti di territorio e di categorie di persone, come previsto all’art. 2-bis del d.lgs. 25/2008, pur non essendo tali esclusioni contemplate nella direttiva 2013/32/UE, in attuazione della quale la nozione di Paese sicuro è stata introdotta nell’ordinamento italiano (Natale 2024). Decisiva nei provvedimenti romani è stata l’applicazione del principio di diritto enunciato nella sentenza della Corte di giustizia adottata il 4 ottobre 2024 sul rinvio pregiudiziale di un giudice della Repubblica ceca. Ivi la Corte ha chiaramente affermato che la nozione di Paese sicuro in vigore fino al 24 giugno 2026, quando sarà sostituita da quella più ampia contenuta nel nuovo regolamento, richiede la prova che in quel Paese “non ci siano «generalmente e costantemente» persecuzioni in tutto il territorio, senza alcuna esclusione geografica” (punti 68-73). La Corte impiega i consueti criteri interpretativi (CGUE, sentenze Cilfit e Consorzio italian management), tutti coerenti nel confermare tale esclusione; particolarmente netto il criterio letterale, stante che tale eccezione era in vigore in una precedente direttiva del 2005, espressamente abrogata con quella del 2013 e ripristinata a partire da giugno 2026 (punti 72-77). La stessa nozione di Paese sicuro, inoltre, costituisce una presunzione che introduce una deroga al regime ordinario di esame delle domande, che, come tale, deve essere interpretata in modo restrittivo (punti 70-71).

Di conseguenza, al fine di rendere operativo il Protocollo e, più in generale, le procedure accelerate e di frontiera, il Governo ha adottato il decreto-legge n. 158 del 23 ottobre 2024 (per poi decidere di farlo decadere e traslarne il contenuto in un emendamento al decreto flussi) con il quale ha espunto tre Paesi dall’elenco, non ha previsto alcuna eccezione, né per territorio né per categorie di persone e ha eliminato l’eccezione territoriale dall’art. 2-bis del d.lgs. 28/2005; inoltre, l’elenco è stato fatto confluire direttamente nella fonte legislativa, invece che in un regolamento. Questa manipolazione genetica della fonte normativa non può evidentemente incidere né sulla qualificazione dei Paesi come sicuri, né sul potere del giudice di sindacare tale qualificazione sulla base dei medesimi presupposti sostanziali (sentenza della Corte di giustizia del 4 ottobre 2024, punti 86-90; Cudia 2024). Invariato rimane anche il potere del giudice di disapplicare l’atto nazionale, anche la fonte legislativa, in contrasto con l’obbligo UE che sia sufficientemente chiaro, preciso e non condizionato. D’altra parte sono anni che, negli Stati membri nei quali tale nozione è in vigore, l’elenco predisposto dai Governi o dalle autorità comunque competenti è sottoposto a sindacato giurisdizionale; in altre parole è pacifico non solo che il sindacato giurisdizionale sia possibile, ma anche che esso non sia “limitato” ad apprezzare la sicurezza del Paese in relazione alla singola persona che ricorre avverso un provvedimento di diniego di protezione (come il caso ab origine della sentenza del 4 ottobre 2024), ma riguardi anche il rispetto delle regole sostanziali e procedurali in vigore per qualificare uno Stato come sicuro (sentenza della Corte di giustizia del 4 ottobre 2024, punto 91; si veda anche il rapporto del 2018 dell’European Migration Network, par. 5.3 e, da ultimo, la sentenza del Consiglio di Stato francese del 25 aprile 2024).

L’elenco contenuto nell’atto legislativo può però sollecitare un sindacato diverso da parte del giudice che potrebbe anche decidere di sollevare una questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 10(3) o 117(1) Cost. o un nuovo rinvio pregiudiziale sull’interpretazione della direttiva 2013/32/UE, anche per precisare alcuni profili enunciati nella sentenza del 4 ottobre 2024. Ha optato per questa seconda soluzione il Tribunale di Bologna, con un’articolata e molto approfondita ordinanza del 25 ottobre 204, nella quale il collegio adduce come principale motivo del rinvio “le manifeste divergenze tra le Autorità chiamate a dare applicazione alla disciplina dell’Unione europea”. Il collegio, infatti, pur prospettando la propria interpretazione della direttiva 2013/32/UE ed il contrasto con questa del decreto-legge di nuovo conio, non lo disapplica, ma investe della questione la Corte di giustizia, affinché siano i giudici di Lussemburgo ad indicare alle autorità statali italiane come interpretare e applicare il diritto dell’Unione europea. Una scelta condivisibile, stante che in molti casi “il rinvio pur non obbligatorio è opportuno e, di fatto, necessario” (L.S. ROSSI 2022, p. 59).

Si consideri, inoltre, che il novellato art. 2-bis presenta ancora dubbi di compatibilità con l’art. 37 della direttiva 2013/32/UE nella parte in cui mantiene la possibilità di qualificare come sicuro un Paese ad esclusione di specifiche categorie di persone. Su questo profilo la Corte di giustizia non si è ancora espressamente pronunciata, neanche nella sentenza del 4 ottobre 204, in relazione alla quale il giudice remittente aveva sollevato una questione riguardante esclusivamente l’esclusione di parti di territorio. È peraltro pendente un rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Firenze, relativamente alla compatibilità delle esclusioni per categorie di persone con la direttiva. Nelle more del giudizio, tuttavia, i principi di diritto espressi, peraltro con particolare chiarezza, nella sentenza del 4 ottobre sono applicabili anche a tale tipologia di esclusione: le due eccezioni, infatti, per territorio e per persone, sono state entrambe e contemporaneamente abrogate nel 2013, senza che emergessero differenze di sorta tra di esse da giustificare l’applicazione di principi interpretativi diversi. D’altra parte, è d’uopo precisare che la parte argomentativa della sentenza della Corte è vincolante tanto quanto il dispositivo (CGUE, Asteris, punto 27), poiché sancisce un principio di diritto che, come tale, può essere applicato ai medesimi atti o in via analogica ad atti diversi (CGUE, sentenze Cilfit e Consorzio italian management), essendo le sentenze della Corte un precedente che i giudici non possono ignorare pena la responsabilità per violazione manifesta della legge (art. 2, co. 3-bis, della legge 1988, n. 117).

Siamo dunque solo all’inizio dell’ennesima saga giuridica dovuta in ultima analisi alla strenua tensione tra l’essere e il dover essere, che è ormai una costante nel diritto degli stranieri.

Autore

C. Favilli

Università degli Studi di Firenze

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