I cultori del diritto amministrativo e la trasformazione della Pubblica Amministrazione
di Alessandra Pioggia
La prima questione sulla quale vorrei ragionare è quella che apre l’articolo di Vincenzo Visco: la nostra amministrazione viene percepita, anche da chi dovrebbe orientarne l’azione servendosene per raggiungere gli obbiettivi di interesse generale che si è candidato a curare, come un apparato pesante e poco efficiente. Questo sarebbe alla base del ricorso a soluzioni derogatorie (caso Expo, Ponte Morandi) ogni qual volta ci sia bisogno di fare bene e in fretta.
Vero. Ma siamo sicuri che il ricorso alle misure emergenziali sia solo l’effetto di questa situazione che vede l’amministrazione inadeguata ad operare rapidamente e con piena efficienza, e non sia invece anche parte della causa? Il ricorso reiterato a soluzioni in deroga, oltre ad essere pericoloso e certamente non auspicabile, è il segno di una rinuncia ad investire sulla qualità della pubblica amministrazione. Cosa questa che va fatta con continuità per non trovarsi sguarniti quando è l’ora di utilizzarne le risorse di competenza, conoscenza e garanzia. Allora, forse, occorrerebbe guardare alle politiche di questi anni sulla pubblica amministrazione, che hanno smantellato strutture, tagliato e impoverito apparati che oggi appaiono, nel migliore dei casi, poco efficienti e, nel peggiore, addirittura resistenti nella loro inerzialità. Perché si, è vero, a volte l’amministrazione sembra interpretare il ruolo di chi rallenta e appesantisce quel che si potrebbe fare più velocemente. Ma la domanda è se questo sia inevitabile.
Mi ha colpito il racconto di Visco sul suo arrivo al Ministero e sulla scoperta del fatto che per assumere personale, con le regole del pubblico concorso, ci sarebbe voluto almeno un anno. Invece di domandarsi se valesse la pena di migliorare le cose per riuscire a far bene in meno tempo, la scelta è stata quella di sottrarre un settore “alla tirannia e (sovente) alle incongruenze del diritto amministrativo”. Se ci domandiamo però cosa ci stava a fare il pubblico concorso e ci rispondiamo che stava lì per garantire l’accesso all’impiego con criteri di imparzialità e merito, possiamo probabilmente convenire sul fatto che un tentativo per non buttare via il bambino con l’acqua sporca valeva la pena di farlo. La questione però è che, per mettersi nelle condizioni di farlo, non si può continuare a considerare l’amministrazione una spesa da tagliare, salvo poi accorgersi che, quando c’è bisogno di amministrazione, quello che resta, dopo blocchi delle assunzioni e depauperamento delle competenze, non funziona come dovrebbe.
E qui veniamo ai “cultori del diritto amministrativo”. Visco li (ci) accusa tutti di spirito conservativo. Con questo intende, mi pare di capire, resistenza a ridurre la “tirannia” del diritto amministrativo sull’amministrazione.
Al netto del fatto che non si può che convenire sulla circostanza per cui molte delle normative sui diversi aspetti dell’amministrazione e dell’amministrare sono da razionalizzare, alleggerire, ripulire e, in parte, ripensare, dobbiamo intenderci sul ruolo dei cultori del diritto e probabilmente fare delle distinzioni.
Certamente guardare al diritto che regola l’amministrare unicamente nella prospettiva del vincolo e delle conseguenze della sua violazione può contribuire a far percepire questo insieme di norme come una gabbia dentro la quale viene costretta e quindi immobilizzata una macchina che invece dovrebbe lavorare per il bene di tutti. Anche insegnare il diritto amministrativo in questo modo può contribuire a formare funzionari più preoccupati di non far male che di far bene.
Ma c’è anche un altro modo di pensare al diritto amministrativo, che pure ha i suoi cultori: prima ancora che come limite al potere, come sistema di principi e norme che guida e orienta l’amministrazione, definendone funzioni e obiettivi. Un diritto amministrativo che dà forma ai diritti attraverso i doveri posti in capo all’amministrazione, un diritto dell’organizzazione, oltre che dell’azione. Un diritto profondamente democratico e certo non tirannico, perché attraverso di esso si dà sostanza al disegno costituzionale di una società di persone libere perché uguali. Chi è cultore di questo modo di pensare al diritto e all’amministrazione non ignora certo i limiti e i problemi che affliggono quest’ultima, ma non pensa che la soluzione sia meno amministrazione, ma più buona amministrazione.
E la qualità dell’amministrazione si fa, prima che con le riforme, con il personale, adeguato nel numero, di qualità, ben formato, selezionato con attenzione, capace di portare dentro gli uffici competenze non solo giuridiche. E qui certamente i cultori del diritto amministrativo possono avere un ruolo importante: nella formazione, ma anche nella promozione di un approccio all’amministrare che non sia solo doveroso rispetto dei vincoli imposti dalle norme, ma anche sforzo attivo, dinamico e dedicato a realizzare i diritti che quelle norme tutelano.
Credo che questo approccio potrebbe essere utile anche a quella trasformazione del diritto amministrativo che pure è necessaria, se è vero, come è vero, che molte azioni dell’amministrazione ci appaiono appesantite oltre il ragionevole. Di nuovo qui io intravedo quella differenza di modi di guardare al diritto. Se l’idea è che l’amministrazione vada regolata con i vincoli, ogni nuovo bisogno di garanzia si tradurrà in un precetto, e poi un altro e un altro ancora, fino a sommergere l’azione, facendole, a volte, perdere il suo senso originario. Ma se la prospettiva è invece quell’altra, del diritto come fine e dell’organizzazione come garanzia, si potrà lavorare su quest’ultima perché sia proprio l’organizzazione, con la sua integrità e con la responsabilità di chi ne anima il funzionamento a rispondere alle esigenze di garanzia, liberando, quando possibile e ragionevole, l’azione da quell’eccesso di vincoli che aggrava e rallenta tanti interventi. Di nuovo un investimento sulla qualità dell’amministrazione come organizzazione.
C’è una sentenza della terza sezione del Consiglio di Stato, la prima del 2020, che contiene un passaggio interessante. Nel condannare una Azienda sanitaria territoriale a risarcire una persona disabile, alla quale non erano state erogate tutte le giornate di assistenza dovute a causa dell’oggettiva mancanza di risorse, i giudici ritengono la direzione aziendale, che pure ha agito nei limiti della legalità dell’azione, colpevole di non essersi adoperata a verificare se esistesse una diversa possibile soluzione organizzativa. Un modo questo per ribadire che l’amministrazione ha la propria ragion d’essere nel diritto che deve assicurare e tutta l’organizzazione deve servire quel diritto in ogni modo possibile.
È vero che a volte quella stessa organizzazione sembra, invece, tiranneggiare, il portatore del diritto, affliggendolo con irragionevoli complicazioni. Ed è indubbio che su questa cultura sia necessario intervenire, ricordando alle amministrazioni la propria alta funzione. Perché quando l’amministrazione si sente investita di un ruolo riconoscibile e riconosciuto, dà buona prova di sé, come abbiamo potuto constatare in questi mesi di pandemia, quando trasformazioni (digitalizzazione, lavoro agile, ecc…) che procedevano da anni stancamente, si sono compiute in pochi giorni, e senza, peraltro, dover ricorrere a norme derogatorie.
Una risposta
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