I giudici prendono sul serio il diritto all’identità personale? A margine di una sentenza del TAR Lazio sul cognome materno

di Edoardo Caterina

1. Avanguardie e retroguardie del diritto costituzionale all’identità personale

La recente sentenza della Corte costituzionale n. 143 del 2024 ha giustamente suscitato il più vivo interesse tra studiosi e operatori del diritto. La Corte, pur con sapiente cautela, ha valorizzato l’art. 2 della Costituzione e il principio personalista per riconoscere che quella dell’identità di genere rappresenta una problematica di “tono costituzionale” e ha implicitamente invitato il legislatore a intervenire. «La percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)» – si legge al punto 5.4 del considerato in diritto. Dimostrazione veramente di grande sensibilità, quella di richiamare il “disagio” vissuto da una persona appartenente a una stretta minoranza e costretta a confrontarsi con leggi noncuranti della sua particolare condizione. Per riprendere le parole dell’ex giudice costituzionale tedesca Susanne Baer, la Corte ha saputo ascoltare con orecchie allenate alla differenza e, pur rigettando la questione, ha voluto trasmettere un messaggio: «anche se sei diverso tu fai parte della comunità, e la Costituzione non si disinteressa della tua condizione esistenziale».

Purtroppo, questa sensibilità così avanzata non è condivisa in tutti i rami del nostro ordinamento. È certo ben diffuso tra i giudici un atteggiamento di segno diverso nei confronti dei diritti fondamentali garantiti dalla nostra Costituzione, e in particolare di quelli promananti dall’art. 2 Cost. Un atteggiamento che non definirei tanto di ostilità, quanto di scarsa considerazione, di benevola indifferenza.

Di esempi se ne possono fare diversi. Qualche mese fa la Cassazione civile (9428/2024) ha rigettato il ricorso che era stato proposto da alcune persone transgender che, per via della suddivisione delle liste elettorali tra “uomini e donne”, si sentivano “costrette dalla legge ad un coming out pubblico, non sempre voluto e sicuramente non necessario, da cui possono derivare sentimenti di ansia, disagio e vulnerabilità, e l’esposizione ad atti violenti” (così Paola Pannia che ha commentato la sentenza su Lacostituzione.info). Qui il “senso di disagio e imbarazzo” è liquidato come un mero fatto, privo di una vera e propria rilevanza giuridica.

2. Il problema dei cognomi declinabili al maschile e al femminile

Esattamente negli stessi giorni di fine luglio in cui è stata depositata la sentenza della Corte costituzionale n. 143/2024, è stata pubblicata anche un’interessante sentenza del TAR Roma, la n. 147979/2024, su cui mi vorrei brevemente soffermare. La questione oggetto del giudizio era ben diversa da quella delicata dell’identità di genere affrontata dalla Corte costituzionale, ma, pur nella sua minore complessità, era comunque di tono costituzionale e richiedeva un’attenta considerazione del parametro dato dall’art. 2 Cost.

Il ricorrente, italiano con madre russa, aveva domandato alla prefettura di aggiungere al proprio cognome il cognome materno nella forma maschile. Come noto, in Russia (e in molti paesi slavi) i cognomi, fatte poche eccezioni, hanno una forma maschile e una femminile, e le donne di regola aggiungono al proprio cognome la desinenza -a o -aia (ad es. Medvedev e Medvedeva, Tolstoj e Tolstaja, ecc…).

La materia è disciplinata dall’art. 89 del d.P.R. 396 del 2000, il quale configura pacificamente un potere di natura discrezionale dell’amministrazione. Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, nell’esercizio di tale discrezionalità l’amministrazione deve eseguire un bilanciamento tra l’interesse del richiedente e quello pubblico alla stabilità degli elementi identificativi della persona e alla corretta identificazione dell’individuo (da ultimo si veda: Consiglio di Stato, sez. III, 10 ottobre 2023, n. 8840).

La prefettura rigettava l’istanza in quanto, a suo modo di vedere, poteva essere concessa solo l’aggiunta del cognome della madre, nella forma femminile, e non anche in quella maschile, come richiesto dal ricorrente. Il ricorrente poteva quindi, secondo la prefettura, ottenere l’aggiunta del cognome della madre solo a patto che lo mantenesse nella declinazione femminile, senza considerare che si sarebbe così costretta una persona di sesso maschile a portare un cognome femminile.

Come potrebbe essere questo un risultato accettabile, in un ordinamento costituzionale sensibile alle esigenze della persona e improntato al pluralismo sociale?

La Corte costituzionale ha affermato a più riprese che il nome è “autonomo segno distintivo della identità personale” (sentenza n. 297 del 1996), nonché “tratto essenziale della personalità” (sentenza n. 268 del 2002), «riconosciuto come un “bene oggetto di autonomo diritto dall’art. 2 Cost.”» e, dunque, come “diritto fondamentale della persona umana” (sentenze n. 13 del 1994, n. 297 del 1996, n. 120 del 2001, n. 268 del 2002 e, da ultimo, nn. 131 del 2022 e 135 del 2023). Anche il Consiglio di Stato, sulla scorta della Corte costituzionale, ha dimostrato nella sua più recente giurisprudenza una certa apertura alle ragioni del diritto all’identità personale in relazione ai cambiamenti di nome o cognome (si legga, oltre alla sentenza sopra richiamata, la sentenza della sez. III, 19 settembre 2023, n. 8422).

Quindi l’art. 2 Cost. tutela il nome in quanto espressione dell’identità personale, la quale a sua volta si fonda anche sulla storia familiare. Chiaramente questa identità va affermata non in astratto, ma all’interno di una specifica comunità di riferimento, in una di quelle formazioni sociali, appunto, in cui si sviluppa la personalità umana. «Il cognome – afferma la Corte costituzionale nella sentenza n. 131 del 2022 – quale fulcro – insieme al prenome – dell’identità giuridica e sociale, collega l’individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis». Nel caso di specie la comunità sarebbe (anche) quella russofona della famiglia materna, con cui il ricorrente presumibilmente sentiva un legame tale da rivendicarne l’appartenenza. Al che la prefettura aveva proposto una soluzione che, invece di suggellare tale legame, avrebbe generato solo equivoci.

Eppure, il TAR Lazio ha rigettato il ricorso facendo prevalere su questi beni di rango costituzionale la discrezionalità dell’amministrazione, esercitata nel nome di un «interesse pubblico alla stabilità degli elementi identificativi della persona ed alla corretta identificazione dell’individuo». Quale sia esattamente il rilievo costituzionale di un simile interesse non viene chiarito dai giudici amministrativi (come sarebbe stato invece opportuno, dato che tale supposto interesse è stato utilizzato per eseguire un bilanciamento con un diritto fondamentale di rango costituzionale). L’argomento, peraltro, poteva avere forza 30 anni fa (ma già la sentenza della Corte costituzionale n. 13 del 1994 sembra andare in una direzione differente – cfr. il punto 5.2. del considerato in diritto). Oggi, in un mondo in cui siamo tutti identificabili e profilabili con un clic, risulta piuttosto debole. Davvero pensiamo che con una “a” in meno nel cognome una persona risulterà di difficile identificabilità? Nella sentenza n. 131 del 2022 la Corte costituzionale aveva sì affermato «la funzione del cognome, identitaria e di identificazione, a livello giuridico e sociale, nei rapporti di diritto pubblico e di diritto privato» ma lo aveva fatto solo per chiarire che essa «non è compatibile con un meccanismo moltiplicatore dei cognomi nel succedersi delle generazioni», esigendo quindi una scelta da parte dei genitori.

Vi sarebbe poi anche il problema del rispetto del principio di eguaglianza, che si pone sotto un duplice profilo. Da un lato una simile soluzione preclude nei fatti a una minoranza, quella appartenente a gruppi linguistici in cui i cognomi si declinano a seconda del genere, di ottenere l’aggiunta del cognome materno, dall’altro viene lesa l’eguaglianza dei genitori, visto che in questa casistica uno dei due sarà fortemente disincentivato ad attribuire il proprio cognome al figlio.

3. La Corte costituzionale e i giudici di merito parlano la stessa lingua?

Tali questioni non sono state minimamente toccate nella sentenza. E però, se l’art. 3 della Costituzione non è neppure menzionato, il TAR ricostruisce diligentemente tutto il quadro legislativo e cita perfino le circolari del Ministero degli interni. Troppo spesso sembra che la Corte costituzionale e gli altri giudici parlino lingue diverse. Per non parlare della pubblica amministrazione, che, se investita di un potere discrezionale, invece di eseguire quel bilanciamento in concreto tra interessi contrapposti che sarebbe costituzionalmente richiesto, preferisce di regola decidere macchinalmente sulla falsariga di prassi, modelli e circolari.

Da ultimo occorre notare che il rigido automatismo di trasmissione del cognome senza possibilità di declinazione risulta problematico anche al di là della specifica questione dell’aggiunta del cognome materno: il disagio è provocato anche alla figlia femmina che debba assumere il cognome al maschile del padre. Si tratta chiaramente di un tema che interessa moltissimi cittadini italiani di ascendenza straniera costretti a portare cognomi storpiati o a rinunciare al cognome di uno dei due genitori. Unico rimedio offerto dall’ordinamento potrebbe forse essere costituito dalla possibilità di cambiare il nome quando questi risulti “ridicolo o vergognoso”, come previsto dall’art. 89 del DPR 396 del 2000.

Paolo Grossi amava ripetere che la Costituzione non può essere intesa come «una filosofia posta quale cappello sopra l’organismo giuridico della Repubblica», che deve rappresentare invece «una nervatura interna ad esso, con una basilare funzione identitaria». Sfortunatamente, queste vicende mostrano che da un lato c’è il “cappello” della Corte costituzionale, e dall’altro un corpo in cui la Costituzione non si è ancora del tutto innervata.