Il caso-Milano: tra interpretazioni e innovazioni legislative

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di Emanuele Boscolo

Università degli Studi dell’Insubria

1. Nelle prime settimane del nuovo anno il Senato sarà impegnato nella discussione del d.d.l. A. C. 1987 (‘Disposizioni di interpretazione autentica in materia urbanistica ed edilizia’: cd. Salva-Milano), il cui testo, con rilevanti emendamenti rispetto alla proposta originaria, è stato approvato nel novembre scorso dalla Camera, pressoché senza discussione. Nelle settimane successive l’appello sottoscritto da centoquaranta accademici, le prese di posizione dell’INU e di altri hanno innescato un serrato dibattito. Anche tra i partiti che a Montecitorio hanno votato il d.d.l. (uno schieramento trasversale) sono in atto ripensamenti.

Come noto, a Milano innumerevoli interventi di demo-ricostruzione, con conversione di spazi produttivi dismessi in edifici in elevazione, anche ben oltre i 25 mt., sono avvenuti – in estrema sintesi – in carenza di pianificazione attuativa e quindi senza assunzione da parte dei promotori di impegni prestazionali per il rafforzamento delle dotazioni territoriali o cessione di aree. Sovente questi interventi sono stati veicolati mediante segnalazione certificata di inizio attività e, in quanto qualificati come ristrutturazione, hanno beneficiato di significative agevolazioni decontributive (per i volumi in sostituzione). La Magistratura ha avviato delle inchieste nei confronti di funzionari comunali, progettisti, costruttori, etc. contestando, tra l’altro, il reato di lottizzazione abusiva.

L’iniziativa parlamentare è stata ‘occasionata’ dalle vicende contingenti milanesi, ma le previsioni interpretative di cui si propone l’introduzione assumerebbero una portata generale (a tratti innovativa, ad onta dell’intitolazione che ha assunto il d.d.l. nella versione emendata) e inciderebbero su profili strutturanti del sistema urbanistico. Evitando ogni riferimento alle indagini in corso, si possono formulare valutazioni più strettamente legate al testo e considerazioni di ordine più generale.

2. Con il dichiarato obiettivo di superare i rilievi circa la pretermissione dei piani attuativi (anche in presenza di edifici oltre i 25 metri o di interventi con densità superiore a 3 mc/mq, nei quali, secondo la legge urbanistica del ’42, si deve parlare di lottizzazione cd. obbligatoria), il d.d.l. propone una interpretazione nel senso della non obbligatorietà di un previo piano particolareggiato o di lottizzazione ove si intervenga su un lotto ricompreso un ambito edificato e urbanizzato. Altra norma oggetto di interpretazione sarebbe quella contenuta nel decreto ministeriale sugli standard (d.m. 1444/1968) secondo cui nelle zone B, salve diverse previsioni esprimibili necessariamente in sede di pianificazione attuativa, l’altezza delle costruzioni non può superare quella degli edifici circostanti. Secondo il d.d.l. la pianificazione attuativa sarebbe obbligatoria solo ove il comune abbia preventivamente accertato, in sede pianificatoria ovvero con provvedimento motivato, il ricorrere di un interesse pubblico concreto e attuale al rispetto dei limiti di altezza fissati dal citato decreto ministeriale. Il ricorso a concetti non determinati e le incertezze circa il tipo di atto (a carattere generale ovvero assumibile caso per caso) denunciano altrettanti limiti del testo in discussione.

Il d.d.l. vorrebbe dunque ‘traslare’ il confine tra l’urbanistica e l’edilizia, superando l’obbligatorietà della pianificazione attuativa nei casi in cui la legislazione vigente invece la impone (ancora). Il d.d.l. sembra muovere da una lettura riduttiva delle funzioni della pianificazione attuativa, preordinata a garantire l’innalzamento delle dotazioni urbanistiche e territoriali disponibili (con il coinvolgimento dei privati, il rapporto con i quali necessita di una disciplina pattizia) ma funzionale anche al soddisfacimento di non meno rilevanti ragioni di disegno urbano e di sostenibilità. L’elemento che consentirebbe la prescindibilità della pianificazione attuativa (con dequotazione da obbligatoria a facoltativa) sarebbe identificabile nella condizione di pregressa edificazione e urbanizzazione. Una tale valutazione deve invece vertere non solo sulle condizioni di completa urbanizzazione ma anche sulle esigenze di integrazione con il contesto ovvero di ridisegno delle funzioni e dei rapporti spaziali. La pianificazione attuativa costituisce inoltre la cornice entro la quale le amministrazioni ritraggono risorse in vista della formazione di dotazioni territoriali dislocabili anche in altri quadranti urbani deficitari, con un orizzonte che travalica l’intorno stretto del lotto di intervento. La derubricazione a ‘fatti edilizi’ di interventi che incidono sul carico insediativo e sulla morfologia urbana (verticalizzazioni e densificazioni, che specie in contesti diversi da quello milanese, potrebbero avere effetti eversivi su paesaggi insediativi consolidati) ha dunque innegabilmente un impatto significativo anche sulle possibilità di estrazione di valore pubblico (profilo che il d.d.l. non si fa carico di ‘riequilibrare’).

3. Resta l’impressione di fondo che il d.d.l. (ma a tratti anche il dibattito che su di esso si è innescato) si riferisca a figure pianificatorie e a un’idea di standard entrambe datate. Piani particolareggiati e lottizzazioni in funzione attuativa delle previsioni del piano urbanistico generale appaiono retaggi di una stagione urbanistica ormai alle spalle. L’urbanistica del presente, al di là delle etichette nominalistiche, per i quadranti della città da riqualificare privilegia vettori negoziali capaci di assolvere ad una funzione integrativa di previsioni pianificatorie di ordine ricercatamente strategico-prefigurativo (a differenza di quelle ‘finite’ per la città consolidata). Del pari, richiami all’art. 11 della l. 241/1990 e ai principi del diritto amministrativo (dalla buona fede sino alla responsabilità precontrattuale delle amministrazioni nella fase di negoziazione e in caso di rinegoziazioni successive), in uno con le semplificazioni intervenute (approvazioni giuntali, permessi di costruire convenzionati, etc.), consegnano agli attori pubblici e privati innovative tipologie di accordi ad oggetto urbanistico che non paiono costituire un fattore di appesantimento nella stagione in cui l’imperativo comune è rappresentato dalla promozione della rigenerazione urbana. Anche l’idea di adeguata urbanizzazione (in un testo in cui –per le ineludibili esigenze legate alle inchieste- risuonano ancora i richiami alla legge del ’42 e al decreto del 1968) sembra rimandare a un palinsesto infrastrutturale fatto di opere grigie di cui verificare la sussistenza, mentre nuove tipologie di dotazioni territoriali sono essenziali per la formazione di reti verdi e blu (di cui proprio in una città come Milano vi sarebbe estrema necessità, per fronteggiare la bolla di calore urbano e le criticità di drenaggio delle acque meteoriche) e, più in generale, il tema delle urbanizzazioni va ripensato, secondo il paradigma della città della prossimità (la ‘città in quindici minuti’), onde assicurare (come LEP) effettività a diritti spazialmente condizionati.

4. Sul versante edilizio, il d.d.l. indica che il rispetto della distanza minima tra fabbricati sia vincolante unicamente per gli interventi di nuova costruzione. Per contro, un solido orientamento giurisprudenziale considera soggetti alla distanza da parete finestrata tutti gli interventi, anche di ristrutturazione, per le porzioni che esorbitino dalla sagoma originaria, con l’unica eccezione degli ampliamenti finalizzati alla collocazione di incentivi volumetrici. Uno schema che ha trovato recente conferma anche nel salva-casa relativamente al recupero dei sottotetti.

Il d.d.l. chiarisce che, con decorrenza dal 2013 (ossia dalla novella al Testo unico dell’edilizia intervenuta sulla nozione di ristrutturazione per ricomprendervi anche la demo-ricostruzione ‘non fedele’, ossia senza più vincoli di sagoma), sono da qualificarsi come ristrutturazione anche “gli interventi di totale o parziale demolizione e ricostruzione che portino alla realizzazione, all’interno del medesimo lotto di intervento, di organismi edilizi che presentino sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche, funzionali e tipologiche anche integralmente differenti da quelli originari”. Fermi gli irrigidimenti (resi comunque più blandi nell’ultimo triennio) per gli interventi nei centri storici e negli ambiti gravati da vincoli provvedimentali puntuali, la ricostruzione può quindi mantenersi aderente al solo volume preesistente (come invero è già oggi normativamente previsto, in un quadro su cui tuttavia si innesta problematicamente il principio di indifferenza funzionale introdotto dal salva-casa e ribadito nel d.d.l.). Non va tuttavia sottovalutato il richiamo alla necessità di riedificazione sul medesimo lotto, che precluderebbe letture inclini ad ammettere concentrazioni di volumi provenienti da demolizioni su lotti diversi. La previsione interpretativa sembra giustificarsi a fronte di un orientamento giurisprudenziale (da ultimo, Cons. Stato, sez. VII, 23 dicembre 2024, n. 10307) nel senso che si possa invece parlare di ristrutturazione solo ove permangano almeno taluni elementi connotativi del manufatto originario.

Nel d.d.l. si parla di ‘sostituzione’. Il contenitore categoriale della ristrutturazione ricomprende ormai tipologie di interventi troppo eterogenei. La demo-ricostruzione (definibile anche sostituzione) meriterebbe una disciplina autonoma e, comunque, dovrebbe essere riservato al piano, unico strumento in grado di assicurare visione integrata di un territorio e bilanciamento tra i diversi interessi (C. cost. 119/2024), il compito di ‘spazializzare’ le possibilità e le condizioni procedural-contributive della sostituzione, con una netta distinzione tra interventi di mero rinnovamento edilizio e quelli con valenza propriamente di rigenerazione urbana (gli unici meritevoli di incentivazioni).

5. Il testo originario del d.d.l. recava nell’incipit la previsione, poi soppressa, di un termine di sei mesi in vista di un “riordino organico della disciplina di settore”. Pare dunque restare lontano il momento in cui verrà affrontato il nodo di una legge statale di principi (costituzionalmente necessaria) per il governo del territorio. Non mancano proposte organiche, come quella presentata dall’INU nell’estate scorsa.

Il caso milanese reclama una soluzione, che il d.d.l., almeno allo stato, non pare in grado di offrire (si pensi soltanto all’incertezza circa gli effetti dell’accertamento delle condizioni di prescindibilità della pianificazione attuativa rispetto alla contestazione della lottizzazione abusiva nei casi di lottizzazione obbligatoria). Occorre una soluzione avveduta delle particolarità del capoluogo lombardo, non necessariamente estesa all’intero Paese. La via tra una soluzione condonistica (ventilata nel dibattito sul salva-Italia e ritenuta giustamente impraticabile), un rigoroso accertamento ex post delle condizioni di urbanizzazione, il recupero di contribuzioni per una compartecipazione effettiva alle politiche urbane comunali (con eventuali maggiorazioni) e la non interferenza con l’operato della Magistratura è stretta, ma non è detto debba passare unicamente per una norma di interpretazione (che, come è stato paventato, potrebbe non reggere il vaglio di costituzionalità).

Il caso milanese fa riflettere anche perché ha evidenziato i limiti di un modello di rigenerazione urbana, ritagliato per contesti a forte attrattività, di solo rinnovo edilizio, senza significative ricadute ambientali e sociali. Incapace soprattutto di irraggiarsi nei quartieri in crisi.

Il Senato ha dunque l’opportunità di riaprire una discussione che, attraverso la lente della situazione milanese, si prefigga l’obiettivo di un rinnovamento profondo della legislazione urbanistica statale, in linea con le sfide della stagione del presente. Il recupero di un primato dell’urbanistica presuppone la consapevolezza dell’inadeguatezza della legge del ’42 e di un modello rigidamente parametrico. La risposta non può essere affidata ai giudici, ma non può essere rappresentata neppure dalla riemersione di frammenti di un impianto novecentesco, le cui norme (vigenti) presentano comunque un grado di rigidità che riduce i margini per interpretazioni attualizzanti. Più che cercare di ‘mettere il vino nuovo negli otri vecchi’, sarebbe preferibile iscrivere finalmente in agenda la discussione circa una legge per l’urbanistica della contemporaneità.

Autore

E. Boscolo

Università degli Studi dell'Insubria

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