Il protocollo stipulato tra Italia ed Albania in materia di immigrazione alla prova del Parlamento
di Antonello Ciervo
Con la legge n. 14/2024 il Parlamento ha autorizzato il Presidente della Repubblica a ratificare il Protocollo stipulato lo scorso 6 novembre 2023 tra il Governo italiano ed il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania “per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”: il Protocollo – che altro non è che un accordo internazionale – prevede l’istituzione di centri detentivi per migranti sul territorio albanese, quindi in un Paese non appartenente all’Unione Europea (UE), al fine di realizzare le procedure accelerate di accertamento dello status giuridico degli stranieri richiedenti asilo, intercettati su imbarcazioni di fortuna nelle acque internazionali.
Tali tipologie di trattati sono di solito definiti “in forma semplificata” perchè la loro firma non è stata previamente autorizzata dal Parlamento: in questo caso, invece, al contrario di quanto si è verificato nel più recente passato, l’Esecutivo in carica ha ritenuto opportuno presentare il testo del Protocollo alle Camere per chiederne – seppure ex post – l’autorizzazione alla ratifica.
Se dunque questa richiesta (tardiva) al Parlamento deve essere accolta positivamente, tuttavia il contenuto del Protocollo e della relativa legge di autorizzazione appare affetto da significativi e numerosi profili critici, che inducono oggettivamente a dubitare della sua coerenza con i nostri principi costituzionali e con la normativa europea ed internazionale a tutela dei diritti umani.
Entrando nel merito, all’art. 3, secondo comma della legge n. 14/2024 si stabilisce che nelle strutture detentive albanesi potranno essere condotte “esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso”.
È quest’ultimo inciso a dover essere oggetto di attenta analisi a prima lettura: ad avviso di chi scrive, infatti, la disposizione così come formulata consentirebbe il trasporto in Albania anche dei migranti salvati in acque internazionali da soggetti terzi, non necessariamente quindi da imbarcazioni dell’autorità governativa italiana. Pertanto, se in acque internazionali la nave di una ONG dovesse salvare dei migranti in un evento SAR (Search and Rescue, operazione di ricerca e salvataggio in mare) e poi, come da prassi, richiedere il POS (Place of Safety, punto di sbarco) a IMRCC (Italian Maritime Rescue Coordination Center, ossia l’autorità amministrativa interna competente al coordinamento dei salvataggi in mare) posizionandosi al limite delle acque territoriali, il governo potrebbe inviare una propria nave per il trasbordo dei migranti presenti sull’imbarcazione privata e, nel formale rispetto della legge, potrebbe poi far sbarcare i migranti “salvati” nei centri detentivi albanesi, in evidente elusione della normativa europea ed internazionale.
Di più difficile risoluzione, invece, appare il caso in cui l’operazione di salvataggio da parte di navi private dovesse verificarsi nelle acque territoriali di uno Stato membro dell’UE, ad esempio Malta: in un’ipotesi del genere, infatti, appare ragionevole sostenere che anche nell’eventualità del trasbordo dei migranti su navi dell’autorità governativa italiana, queste ultime poi non potrebbero dirigersi verso i centri albanesi perché formalmente il salvataggio si è realizzato nelle acque di uno Stato membro dell’Unione.
Un ulteriore rilievo di chiaro contrasto tra normativa interna e sovranazionale concerne le modalità di rilascio del documento di identità che certifica la qualifica di richiedente protezione internazionale a coloro che sono trattenuti nei centri di detenzione albanesi. Ai sensi della normativa italiana, che recepisce a sua volta quella europea, infatti, al richiedente protezione internazionale deve essere sempre rilasciato un permesso di soggiorno per richiesta asilo, mentre nel caso in cui lo straniero sia trattenuto, in luogo del permesso di soggiorno deve comunque essere rilasciato un attestato che ne certifichi la qualità di richiedente protezione internazionale. La legge di autorizzazione alla ratifica, invece, prevede che al richiedente asilo trattenuto nelle strutture albanesi non venga rilasciato alcun permesso di soggiorno, ma soltanto un mero attestato identificativo: ciò vuol dire che di fatto viene disconosciuto allo straniero trattenuto in Albania uno status giuridico di maggior tutela, in evidente contrasto con la normativa interna, europea ed internazionale.
A sua volta, l’art. 3, sesto comma della legge n. 14/2024 prevede che il trasferimento sul territorio italiano dei migranti sottoposti alle procedure di identificazione possa avvenire soltanto “in casi eccezionali”, su disposizione del responsabile delle strutture, ma il legislatore non ha tassativamente previsto quali siano questi casi eccezionali. Tra l’altro, la norma non specifica dove e come verranno svolti gli screening identificativi, al fine di verificare chi debba accedere alla procedura di protezione internazionale e chi dovrà invece essere espulso, così come non si fa alcun riferimento alle modalità con cui verranno svolte le procedure di accertamento dell’età dei minori stranieri non accompagnati, ossia di quei minorenni che giungono sulle coste italiane senza un genitore, un parente o comunque un adulto di riferimento.
Inoltre, la legge nulla prevede con riferimento alla tutela delle persone vulnerabili e, in particolare, degli stranieri gravemente malati e delle donne vittime di tratta o in stato di gravidanza. Tuttavia, se la legge di autorizzazione alla ratifica risulta del tutto silente sul punto, nel testo del Protocollo – in particolare all’art. 9, paragrafo terzo – si stabilisce che “In caso di nascita o di morte, i migranti [presenti nei centri di detenzione albanesi] sono sottoposti alle disposizioni della legislazione italiana”: ciò vuol dire che il Protocollo prevede implicitamente che nei centri albanesi potranno essere trattenute donne incinte (se qualcuno potrebbe nascere in queste carceri, evidentemente è perchè una donna incinta vi è stata reclusa).
Viceversa, la legge n. 14/2024 conferma quanto già stabilito dal Protocollo, ossia che i migranti sbarcati nei centri albanesi non saranno messi nella condizione di uscire al di fuori del perimetro degli stessi: pertanto, gli stranieri si troveranno sempre in uno stato di limitazione della libertà personale, sia che debbano essere espulsi, sia che debbano essere sottoposti a procedura di riconoscimento asilo. In questo modo la legge – così come del resto il Protocollo – risulta in palese violazione sia della normativa interna, sia di quella europea in quanto entrambe prevedono, tanto per i migranti economici espellendi che per i richiedenti asilo in attesa di valutazione della loro domanda, la possibilità di applicare la misura della detenzione quale extrema ratio, previa verifica caso per caso della sussistenza delle condizioni di fatto e di diritto che consentono di accedere alle misure alternative al trattenimento. Poiché le condizioni materiali dei centri albanesi non consentiranno evidentemente l’uscita dei migranti dagli stessi, ciò vuol dire che in automatico le autorità italiane metteranno in stato di detenzione tutti coloro che verranno fatti sbarcare nei centri, una detenzione questa che appare di natura gravemente afflittiva, se solo si considera che gli stranieri in questione non solo non hanno commesso alcun tipo di reato, ma si sono limitati soltanto ad esercitare un loro diritto riconosciuto a livello costituzionale, europeo ed internazionale.
Infine, con riferimento alle garanzie giudiziarie, l’art. 4, primo comma della legge n. 14/2024 stabilisce che ai migranti detenuti nei centri si applicano, “in quanto compatibili”, la normativa italiana ed europea concernente i requisiti e le procedure relative all’ammissione e alla permanenza sul territorio di uno Stato dell’UE. L’inciso in commento appare del tutto illegittimo, in quanto prospetta la creazione di un vero e proprio regime detentivo derogatorio sia della normativa interna che di quella sovranazionale: a ciò si aggiunga poi che lo stesso diritto di difesa degli stranieri appare fortemente compresso e non sembrano sussistere le garanzie minime stabilite dall’art. 24 Cost., oltre che dagli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). In concreto, infatti, come e da chi verranno informati i migranti detenuti della possibilità di nominare un avvocato di fiducia? Verrà fornita loro una lista di avvocati del Foro di Roma (territorialmente competente sul piano giudiziario)? Come si potrà garantire un’effettiva difesa dello straniero, visto che gli avvocati nominati si troveranno materialmente sul territorio di un altro Stato e difficilmente avranno la possibilità di avere colloqui diretti con i propri assistiti prima delle udienze di convalida? Come e da chi sarà accertato se lo straniero si trova in condizioni psico-fisiche compatibili con lo stato di detenzione? A queste domande non sembra fornire una riposta l’art. 4, terzo comma della legge n. 14/2024, laddove si stabilisce genericamente che il responsabile italiano delle strutture detentive adotterà le misure necessarie a garantire il pieno e tempestivo esercizio del diritto di difesa dello straniero, mentre il successivo quinto comma si limita a prevedere – ancor più genericamente – che l’avvocato del migrante potrà partecipare all’udienza dall’aula in cui si trova il giudice (quindi in Italia) mediante collegamento audiovisivo da remoto.
In conclusione, quindi, siamo di fronte all’istituzione di una vera e propria colonia penale italiana in territorio albanese, il cui obiettivo è quello di esternalizzare in uno Stato extra-UE la gestione dei flussi migratori, oltre che le procedure di riconoscimento di protezione internazionale e di espulsione, in deroga alla normativa vigente. Certo, la legge n. 14/2024 fa chiarezza su alcuni passaggi giuridicamente oscuri del Protocollo, ma molti altri restano ancora da chiarire: il rischio è che nella prassi, a fronte di un quadro normativo così incerto, confuso e lacunoso, questo “esperimento giuridico” possa assumere i caratteri di un vero e proprio “buco nero” del diritto in cui, insieme alle vite dei migranti, venga inghiottito anche lo stato di diritto, la superiore legalità costituzionale, oltre che la normativa europea ed internazionale a tutela dei diritti umani. Un “esperimento giuridico”, insomma, che appare senz’altro degno di uno Stato di polizia ottocentesco, ma non certo di uno Stato costituzionale democratico.
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