Il reclutamento dei professori di ruolo e l’uso sbagliato dell’autonomia universitaria
di Gianluca Gardini
Vorrei tornare sul tema dei concorsi universitari, aperto in questo Blog da Giulio Vesperini. È in atto, infatti, una grave distorsione del sistema concorsuale italiano, che si sta diffondendo per contagio nei regolamenti per la chiamata dei professori di ruolo di molte università italiane. Una distorsione che esemplifica in modo chiaro come l’autonomia universitaria possa essere utilizzata contra legem, anzi addirittura in violazione della Costituzione, per ottenere la selezione del candidato più gradito o che garantisce un risparmio finanziario per l’Ateneo. Finalità, quest’ultima, del tutto comprensibile dal punto di vista dell’uso razionale delle risorse, ma completamente estranea alla ratio del concorso pubblico nonché al principio di imparzialità che regola l’agire pubblico.
Il meccanismo a cui si fa riferimento è tanto semplice, quanto illegittimo, e ricalca da vicino il modello di nomina dei direttori generali delle AUSL, oggetto di diverse rivisitazioni da parte del legislatore nel corso dell’ultimo decennio. Il procedimento di reclutamento introdotto da alcuni Atenei italiani (Bologna, Roma, Pisa, Modena-Reggio, Trieste, e diversi altri) è infatti palesemente ispirato all’attuale procedura per la selezione dei Direttori Generali delle AUSL: ai sensi del d.lgs. 171 del 2016, la Regione pubblica un bando per il conferimento di incarico del Direttore Generale, a cui possono partecipare solo coloro che hanno superato una previa procedura selettiva e ottenuto l’iscrizione all’albo nazionale degli “idonei. È evidente, da questo punto di vista, l’assonanza con i bandi per posizioni di professore universitario di ruolo, cui possono partecipare solo coloro che abbiano ottenuto l’abilitazione rilasciata dalla Commissione ASN. Successivamente, la Regione nomina una commissione di esperti indipendenti cui spetta operare una selezione delle candidature pervenute e formare una terna di idonei, all’interno della quale la Regione sceglie discrezionalmente il Direttore generale. Anche sotto questo profilo, il meccanismo per la selezione del DG rappresenta il modello di riferimento adottato da alcuni Atenei italiani, i cui regolamenti per la chiamata dei professori di ruolo prevedono che una commissione terza e indipendente individui una terna di candidati idonei, all’interno della quale il Consiglio di dipartimento sceglie a maggioranza il vincitore del concorso.
Ora, la giurisprudenza ritiene, in modo pressoché univoco, che il procedimento appena descritto per la nomina del Direttore Generale non sia un concorso pubblico. Secondo il Consiglio di Stato (sez. III, 17.02.2020, sent. n. 1213): «La nomina del Direttore Generale è atto di alta amministrazione, frutto di sostanziale intuitus personae, per quanto all’esito di rigorosa procedura idoneativa, ed è soggetta alla cognizione del giudice amministrativo quale manifestazione di potere discrezionale in ordine alla scelta dell’organo di vertice dell’amministrazione sanitaria da parte del Presidente della Giunta Regionale». Il Consiglio di Stato aveva già avuto modo di esprimere questa posizione sia in sede consultiva (Cons. St., comm. spec., 5 maggio 2016, n. 1113) che giurisdizionale (Cons. St., sez. III, 4 febbraio 2020, n. 887).
Non stupisce più di tanto che l’atto di nomina di un Direttore Generale venga considerato un atto di “alta amministrazione”, dato che questa figura viene nominata da un organo politico (Giunta regionale) e – diversamente da un professore universitario – non entra nei ruoli del personale regionale, ma riceve solo un incarico temporaneo.
Stupisce invece che siano le Università a seguire questo modello per la chiamata dei docenti di ruolo: copiando il modello di incarico dei Direttori Generali, le Università finiscono per trasformare quello che dovrebbe essere un concorso pubblico, basato su una procedura selettiva comparativa, in una scelta di “alta amministrazione”, o se si vuole in una nomina “intuitu personae“, che si pone in netto contrasto con l’art 97 della Costituzione, dal momento che il professore così chiamato accede ai ruoli universitari a tempo indeterminato.
È vero che l’art. 18 della legge 240/2010 (cd. Gelmini) prevede «la formulazione della proposta di chiamata da parte del Dipartimento con voto favorevole della maggioranza assoluta dei professori», e, nell’introdurre questo passaggio, sembra assegnare al Dipartimento stesso un potere di scelta sostanziale. Siccome, però, quelli che la legge Gelmini chiama “procedimenti di chiamata” non possono che essere concorsi, essendo i professori universitari pubblici dipendenti ai sensi del TULPA, la “proposta di chiamata a maggioranza assoluta” deve necessariamente essere intesa come una semplice (e anomala) facoltà di approvazione/disapprovazione del vincitore da parte dei Dipartimenti. Diversamente interpretato, lo stesso art. 18, sopra citato, risulterebbe incostituzionale.
Ma i profili di illegittimità dei regolamenti in oggetto vanno oltre la natura fiduciaria della scelta. La Commissione di esperti nominata dal Dipartimento, effettuata la valutazione comparativa, non formula una graduatoria di merito basata su un punteggio, ma può limitarsi a proporre al Dipartimento stesso una terna di idonei, all’interno della quale sarà il Consiglio di dipartimento, deliberando a maggioranza, a dover scegliere discrezionalmente il vincitore. Così facendo, le Università vengono a duplicare su scala locale il meccanismo dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), che individua coloro che sono “idonei” a svolgere le funzioni di professore universitario, e non si propone di selezionare un candidato per l’attribuzione di una posizione in pianta organica. Con la differenza che, negli Atenei che hanno introdotto il meccanismo delle terne, l’esito finale della procedura è l’attribuzione di una posizione di ruolo nella dotazione organica.
Nessuno si azzarderebbe a chiamare “concorso” la procedura di abilitazione svolta dalla Commissione Nazionale ASN, mentre senza problemi di sorta i regolamenti di diversi atenei italiani utilizzano questo nomen iuris in relazione alle procedure di valutazione comparative per la chiamata di professore di ruolo, articolate nel modo sopra descritto.
È del tutto evidente che la scelta effettuata dal Dipartimento – il quale delibera a maggioranza dei presenti – sia discrezionale e non basata su una valutazione tecnica del merito: è una conclusione ovvia, in re ipsa, dal momento che un Consiglio di dipartimento è composto da una pluralità di docenti, appartenenti a diversi SSD e SC, che – collegialmente considerati – si presume non possiedano le competenze necessarie per giudicare, sotto il profilo tecnico, quale degli idonei sia più meritevole di chiamata. Prova ne sia che nelle commissioni di concorso nominate dai Dipartimenti possono sedere solo i docenti appartenenti al SSD e SC per cui viene bandito il posto, e non docenti di altre materie o settori. Attraverso l’escamotage delle terne, in sostanza, si introduce una idoneità di secondo grado”, che replica pericolosamente quella nazionale rilasciata dalla Commissione ASN, allo scopo di aggirare la regola del concorso prevista dalla Costituzione.
Il punto di partenza di queste censure è sempre l’art. 97, ult. comma Cost., nel quale si prevede che “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”. Il concorso, in letteratura e giurisprudenza, identifica quella procedura di valutazione comparativa, condotta da una commissione di esperti, a seguito della quale viene formulata una graduatoria basata su un punteggio, che, come esito finale, conduce alla individuazione di un vincitore. Diverso sarebbe, come ha scritto Stefano Civitarese, se il legislatore, decidesse di introdurre un sistema di cooptazione, a valle dell’abilitazione nazionale – ammesso che ciò sia possibile – ricorrendo alla “deroga” alla regola del concorso prevista all’art. 97.4 Cost. Ma a tutt’oggi – nonostante ciò che sembrano pensare alcuni Atenei italiani – il nostro sistema prevede la regola del concorso per il reclutamento del personale di ruolo, e in particolare dei docenti universitari.
Il significato della locuzione «procedure concorsuali per l’assunzione» di cui all’art. 63, comma 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001 allude a quelle procedure che iniziano con l’emanazione di un bando e sono caratterizzate dalla valutazione comparativa dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria, la cui approvazione, individuando i vincitori, rappresenta l’atto terminale del procedimento.
In altri termini, affinché si configuri una procedura concorsuale occorre che vi siano delle prove tecniche o comunque un «confronto delle capacità», ed una valutazione dei candidati connotata da una «discrezionalità tecnico-amministrativa», che porta alla formazione di una graduatoria e all’individuazione di un vincitore. Se all’esito della “valutazione comparativa” questo risultato non si produce, in nessun modo potrà dirsi di aver realizzato un “concorso” propriamente detto.
Il vero discrimen per l’esistenza di un “concorso pubblico” è rappresentato dalla manifestazione di un potere valutativo tecnico, volto all’assunzione dei più meritevoli: in assenza di tale valutazione, e di fronte alla delega al Consiglio di dipartimento della scelta finale, è più appropriato parlare di nomina fiduciaria, di atto di alta amministrazione, che non di procedura concorsuale. In questi casi, la nomina non è affidata a una commissione tecnica, ma ad un organo dell’Ateneo (Consiglio di Dipartimento) che agisce – né potrebbe fare diversamente – in base a logiche e motivazioni “politiche”. Il Consiglio, peraltro, ha tutto l’interesse a nominare come vincitore il candidato interno, dal momento che questa scelta realizza un evidente risparmio di spesa per l’Ateneo (il candidato interno “costa” all’ateneo la sola differenza tra la posizione previamente ricoperta e la nuova, mentre la nomina del candidato esterno costerebbe l’intero valore stipendiale associato alla posizione bandita). Una strategia, sia consentito dire, che è ben poco lungimirante, visti gli effetti nefasti, nel lungo periodo, di un reclutamento esclusivamente “endogamico”.
Senza dimenticare che il Dipartimento, nell’effettuare la scelta all’interno di una terna di idonei, difetta del carattere di terzietà e imparzialità che deve invece connotare le commissioni tecniche preposte alla valutazione comparativa tipica dei concorsi. Non possono essere i Dipartimenti a selezionare il vincitore semplicemente perché non sono indifferenti alla decisione finale, e questa soluzione contravviene al principio di imparzialità e terzietà cui devono essere ispirate tutte – senza esclusione – le «procedure concorsuali per l’assunzione» nella pubblica amministrazione. Un sistema del genere può forse essere ammissibile per i contratti a termine, (come appunto quello dei DG, o dei docenti a contratto) ma non certo per l’“accesso ai pubblici uffici” di cui all’art. 97 Cost.
Ne consegue che tutti gli Atenei che adottano la tecnica delle terne di idonei, riservando la chiamata del vincitore al Consiglio di dipartimento che compie così una sorta di cooptazione, si pongono al di fuori dell’art. 97 della Costituzione italiana, e violano in modo palese (annullabilità per violazione di legge o finanche nullità per violazione diretta di una norma costituzionale) i principi e le regole sul reclutamento dei professori universitari di ruolo.
Non può essere questo lo scopo per cui gli Atenei hanno duramente combattuto il centralismo ministeriale, fino ad ottenere, negli anni Novanta, l’autonomia universitaria.
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