Il regionalismo in cerca di un’identità

image_pdfimage_print

di Camilla Buzzacchi

Università degli Studi di Milano-Bicocca

Le stagioni dell’autonomismo sono state alterne quanto a favore o avversione.

Le Regioni hanno raccolto attorno a sé grandi aspettative in tempi ormai risalenti, e ci si riferisce ai primi due decenni della Repubblica (Amorth, 1945, 1961; Benvenuti, 1955, 1962, 1970, 1977; Berti, 1975; Paladin, 1971, 1973); hanno poi deluso (Pastori, 1980; Luciani, 1994) quando si sono dimostrate poco più che strutture di intensa amministrazione sanitaria, come è avvenuto negli ultimi due decenni dello scorso secolo; hanno riacceso la fiducia dell’opinione pubblica e degli studiosi, quando la revisione del Titolo V Cost. del 2001 ha lasciato presagire il loro rilancio; hanno tradito la loro missione (Cammelli, 2012; Gardini, 2011; Merloni, 2012; Onida, 2012), quando si sono dimostrate gestori incompetenti di spesa, se si torna alle vicende dei dissesti sanitari del primo decennio di questo secolo, e a quelle degli scandali per le condotte dei gruppi consiliari. Al punto che, dopo la crociata anti Province che ha portato al loro svuotamento come enti rappresentativi nel 2014, anche le Regioni sono apparse come enti inutili dieci anni fa: il ddl di revisione costituzionale Renzi-Boschi proponeva lo spostamento di potestà legislativa dalle amministrazioni regionali allo Stato rispetto ad un consistente catalogo di funzioni, ridimensionando in maniera rilevante la fisionomia politica di queste istituzioni. A conclusione di questa parabola, l’emergenza pandemica ha sollevato inquietanti domande sulla tenuta dei sistemi sanitari regionali: se si considera che il 70/80% dei bilanci delle Regioni sono rappresentati da spesa per la tutela della salute, il dubbio circa l’opportunità di mantenere questa articolazione territoriale è diventato ancora più diffuso, nonostante le dichiarazioni convinte di tutta la classe politica dell’assoluta urgenza di nuovi investimenti nel comparto sanitario gestito dalle Regioni; e malgrado la destinazione di importanti risorse del PNRR verso la sanità pubblica, per trasformare le modalità di cura con attenzione per le specificità dei territori e delle comunità umane ivi stanziate.

Tenendo presente questo irregolare andamento dell’esperienza regionale, e interrogandosi sulle sorti che la attendono, la lettura del percorso attuativo della previsione costituzionale di attribuzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” conduce a vederlo come uno sviluppo a sé stante, quasi che il perseguimento di una c.d. autonomia differenziata a beneficio di singoli territori avvenga all’insegna di altre logiche ed interessi rispetto a quelle da tempo assegnate al sistema delle autonomie.

Quando nel 2001 si è inserita questa possibile opzione nell’art. 116 Cost., le esigenze a cui dare risposta erano molteplici: fermare la spinta al secessionismo, inseguito da un movimento politico con particolare radicamento nel nord del Paese; rigenerare il ruolo delle Regioni, che già negli anni Novanta si era tentato di rafforzare con le riforme amministrative a Costituzione invariata; puntare all’introduzione dell’asimmetria sul modello spagnolo, aprendo ad una variazione del perimetro delle competenze sulla base di un processo del tutto facoltativo. Il paniere di attribuzioni offerto alla spontanea iniziativa di singole Regioni veniva letto, all’apparire di tale novità, come una possibilità di valorizzazione di peculiarità presenti in alcuni territori e non avvertite in altri: la novella costituzionale veniva interpretata come se rendesse possibile il trasferimento di selezionate competenze, idonee a fornire il quadro normativo e amministrativo adeguato per garantire un trattamento “differenziato” delle stesse peculiarità.

La parola chiave è allora quella della differenziazione, benché essa non sia utilizzata nel testo della disposizione in esame: ma coerentemente l’espressione di autonomia differenziata è diventata la formula più utilizzata, che restituisce la valenza del principio autonomistico. Principio che è volto a premiare la capacità delle distinte comunità territoriali di regolare in maniera indipendente le proprie tipicità, che costituiscono per l’appunto differenze in guisa di valore; di vero e proprio bene, che l’ordinamento intende preservare attraverso regimi giuridici a sé – in sintonia con l’interesse e l’unità nazionale, secondo la logica dell’art. 5 Cost. – che le istituzioni rappresentative di quelle collettività sono chiamate a definire. Questa è la radice forte del principio autonomistico di matrice sturziana, che Mortati e Ambrosini nella II Sottocommissione dell’Assemblea costituente hanno ritenuto di poter porre a fondamento del nostro Stato regionale: ovvero un autonomismo come fonte di differenziazione e come veicolo di partecipazione democratica, che va ad arricchire la Repubblica in una prospettiva di pluralismo. Del resto, la medesima formula è richiamata esplicitamente nell’art. 118 Cost., che consacra il criterio dell’assegnazione ai Comuni delle funzioni amministrative, valorizzando la differenziazione quale criterio alla base dell’attribuzione di compiti.

Tale formula di autonomia differenziata si è affermata nel dibattito scientifico e nella dialettica politica, ed è stata accolta nell’intitolazione della legge n. 86 del 2024: essa rimane oggi la modalità di designazione del modello di regionalismo verso il quale la Repubblica si sta dirigendo. A partire da questa normativa, recante Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, ci si attende che le Regioni si candidino ad un ampliamento di funzioni: ma proprio qui emerge il primo aspetto di ambiguità, perché esistono già delle pre-intese, ereditate dalla passata legislatura, che non sembrano in alcun modo rispondere alla filosofia che si è illustrata, della selezione mirata di ambiti materiali da riservare alla normazione di singoli legislatori regionali. Presentano, al contrario, un certo tasso di uniformità e rifuggono dalla differenziazione, posto che le prime richieste – poi in realtà da ultimo un po’ riviste nel senso di una contrazione di competenze da attivare – contengono un numero consistente di materie dell’area di legislazione concorrente. Il profilo di autonomia è più ampio nelle intenzioni di Lombardia e Veneto, che hanno da subito dichiarato interesse quasi per l’intero catalogo degli ambiti materiali, mentre l’Emilia-Romagna ha presentato una richiesta più contenuta, riguardante aree individuate meno genericamente e sulla base di una valutazione più analitica: politiche del lavoro, istruzione, sanità, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, relazioni internazionali e rapporti con l’Unione europea. Ma complessivamente l’orientamento dei tre territori, volto ad ottenere dalle 16 materie dell’Emilia-Romagna alle 23 materie della Lombardia, appare poco sostenibile, se si considera che ogni materia si articola al suo interno in molteplici sotto-ambiti, che aprono ad una responsabilità amministrativa di imponente entità per le attuali burocrazie regionali. Ma, soprattutto, scelta che sconfessa la lettura del meccanismo facoltativo inserito in Costituzione nel 2001.

Se l’indirizzo sarà quello di tante Regioni che si candidano alla totalità delle competenze concorrenti, l’esito non potrà essere quello dell’asimmetria, ma di una nuova replica dello schema del 1948: quello di due livelli di autonomia, della specialità e di una nuova ordinarietà, che potrà caratterizzarsi per maggiori competenze – e di conseguenza maggiori risorse – in capo al nuovo livello di autonomia, che continuerà a presentare elevati caratteri di omogeneità. Molta più omogeneità che differenziazione.

E qui si giunge al profilo nevralgico dell’operazione in corso, la quantificazione delle risorse: soprattutto finanziarie, ma anche umane e patrimoniali. La Costituzione è chiara a tale riguardo: vincola la proposta di una maggiore autonomia alla coerenza con le tipologie di entrata contemplate dall’art. 119, e proprie della qualità ordinaria dell’autonomia. Rimanda quindi a tributi ed entrate proprie, a compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al territorio, a trasferimenti a partire da un fondo perequativo. L’intesa tra la Regione ed il Governo, che il Parlamento dovrà riversare in un provvedimento legislativo da approvare a maggioranza assoluta, non potrà che declinare le risorse a sostegno delle nuove competenze da acquisire in sintonia con tale quadro di entrate. E il Parlamento sarà chiamato a valutare – in quanto custode dell’interesse nazionale e organo di rappresentanza dell’intero Paese – se tale quantificazione comporterà dei riflessi sul sistema di finanza pubblica generale, sull’erogazione dei servizi e dunque – in ultima, ma in realtà prima istanza – sull’eguaglianza.

Le indicazioni della legge n. 86 vanno in ben altra direzione, sollevando seri dubbi di legittimità costituzionale. Attorno a tali dubbi sono state già effettuate alcune deliberazioni a livello di Consigli regionali, finalizzate a presentare una proposta di referendum abrogativo; ed è già stata avviata la raccolta di firme nel corpo elettorale per la proposizione di un quesito riguardante l’intero testo della disciplina. Le reazioni sono state, dunque, immediate, anche valutando possibili impugnazioni, sempre di iniziativa regionale, alla Corte costituzionale. In attesa di tali passaggi, si possono già ora evidenziare forti limiti della normativa approvata. In particolare, l’attenzione è rivolta alla previsione secondo la quale all’intesa spetta formulare solo criteri per la definizione delle risorse, rispetto alle quali dovrà poi operare una commissione paritetica Stato-Regione-enti locali con il compito di elaborare i termini precisi della proposta riguardante le varie tipologie di risorse, che il Governo accoglierà poi con decreto.

È difficile non ravvisare forti analogie con il modello della specialità, che è stata costruita attraverso le commissioni paritetiche. E due ulteriori elementi inducono a credere a questa interpretazione. Uno desumibile dalla Costituzione, l’altro ricavabile dalla disciplina di principio appena approvata.

Il primo è la particolare collocazione delle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, che al di là di quanto qui si sta provando a dimostrare, ovvero che l’opzione differenziata è una variante della versione ordinaria dell’autonomia, appaiono invece il canale di accesso alla specialità in ragione della disposizione revisionata, l’art. 116. Prefigurare variazioni della qualità autonomistica in una norma, che dà riconoscimento ai sei territori che godono di un regime a sé, appare condizione sufficiente per “sdoganare” la possibilità per alcuni territori di pervenire a quello stesso livello alto di competenze.

Il secondo elemento è costituito dalla fonte finanziaria su cui verrà eretto il regionalismo differenziato: in modo piuttosto essenziale, l’ultimo comma dell’art. 5 della legge enuncia il criterio di finanziamento delle materie da trasferire, ovvero le “compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale”. La risorsa è coerente rispetto all’art. 119 Cost., ma appare anche l’unica – tra le varie previste da quella disposizione – che viene candidata a copertura delle nuove competenze. Se si considera che la finanza delle Regioni speciali si fonda esclusivamente su questo meccanismo e che il suo funzionamento risulta normato dagli accordi bilaterali che ciascuna autonomia speciale ha negoziato con lo Stato – concordando il trattenimento dei sei, sette…fino a dieci decimi del gettito prodotto dai rispettivi territori – l’impressione è che il modello a cui ci si rivolge sia quello della replica della specialità in altre aree. La ricerca di un salto di qualità da parte di Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna è ormai abbastanza scoperta, e del resto viene da alcuni passaggi precedenti ben noti.

È cominciato nel 2014 il tentativo del Veneto di vedersi riconosciuta un’autonomia al limite dell’indipendenza: la sent. n. 118/2015 della Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge regionale che intendeva indire una consultazione referendaria per saggiare l’umore popolare rispetto a tale prospettiva, ma ciò non ha impedito che la Regione spostasse l’obiettivo della consultazione verso l’attuazione del modello delle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. Anche la Lombardia si è unita, cosicché le due Regioni, forti di una pronuncia popolare costituzionalmente non dovuta ma di eloquente sostegno all’attivazione dell’autonomia differenziata, hanno potuto poi presentare proposte di intese al Governo, declinate – come si è già segnalato – all’insegna di una richiesta uguale e generalizzata di competenze, a cui poi ha fatto seguito la terza candidatura, quella dell’Emilia-Romagna. L’argomento centrale a cui le tre Regioni hanno fatto ricorso è stato quello della rivendicazione del c.d. residuo fiscale, che da un lato è stato poi ritenuto argomento giuridicamente insussistente dalla Corte costituzionale con la sent. n. 83/2016; ma d’altro canto è la chiara dimostrazione che l’interesse che muove questo processo di particolare attuazione dell’art. 116.3 Cost. è quello legato alle risorse finanziarie.

Le osservazioni di chiusura partono allora da questa ultima constatazione: che l’attuazione che sta avvenendo del regionalismo asimmetrico o differenziato sia frutto di una particolare interpretazione tanto delle finalità della previsione costituzionale, quanto della procedura che potrà condurre al risultato.

Circa le finalità, esse sono in gran parte disallineate rispetto agli intenti delle origini, se è vero che la prima concezione del modello mirava a riconoscere specificità che possono essere presenti in un territorio e assenti in altri; e a dotare l’amministrazione di quel territorio delle prerogative adeguate a dare tutela e normazione a tali specificità. Ora, è vero che l’intenzione del legislatore costituzionale non è vincolante, e dunque può anche essere legittimo che ora le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” siano piegate a orizzonti di efficienza e di competizione tra capacità amministrative, che vengono ostentate dalle tre Regioni che aspirano a differenziarsi. L’elemento che però stupisce, se questa è la nuova chiave di comprensione dell’asimmetria, è che nessuna delle tre Regioni abbia prodotto studi e dati che dimostrino e avvalorino uno scenario di questa natura: ovvero che l’esercizio delle competenze che esse pretendono sarà più brillante di quanto fa lo Stato centrale. Cosicché la sensazione – che è più che sensazione, perché ormai è intento dichiarato – è che il vero obiettivo da raggiungere sia di conquistare il regime finanziario accordato alle vicine Regioni speciali alpine.

Molto si potrebbe dire sulla procedura, ma per esigenze di sintesi va constatato che gli enti locali sarebbero attori istituzionali da coinvolgere, e di fatto tale operazione è stata solo superficialmente effettuata; ma soprattutto che la legge prevede un ruolo ben più significativo per il Governo a danno del Parlamento, che risulta chiamato a ratificare le leggi di recepimento delle intese, senza avere gli spazi necessari per valutazioni e correzioni in vista della tutela dell’interesse del complesso dei territori che, in un’ottica di unità nazionale e di solidarietà di sistema, non devono subire effetti dal processo di differenziazione che si preannuncia.

Su questo allontanamento rispetto ai dettami procedurali non vale l’argomento della volontà non vincolante del legislatore di revisione. La torsione dei passaggi previsti dalla Carta con il proposito di privilegiare l’interazione bilaterale tra la Regione e lo Stato appare una modalità distorta di costruzione dell’asimmetria. Essa rischia di produrre un numero significativo di contraccolpi che sarebbe bene evitare: dalla squilibrata distribuzione delle risorse finanziarie alla difficoltà per alcuni territori a garantire i servizi e, dunque, ad assicurare l’eguaglianza; dall’emarginazione del Parlamento all’esplosione di criticità per i Comuni, sia dei territori con più competenze che di quei territori che conserveranno il livello basso di autonomia. Ma primariamente preoccupa l’ipotesi di una palese incapacità amministrativa delle Regioni alla ricerca dell’asimmetria, se scopriranno che nella competizione con lo Stato sono perdenti e di avere calcolato erroneamente la solidità delle proprie strutture: e imbarazza l’ulteriore ipotesi di ricorso a trasferimenti extra che, seppur negati dalla legge n. 86, laddove proclama il principio dell’“invarianza finanziaria”, non si potrebbe rinunciare ad effettuare se necessari.

Tra l’altro, la Regione Veneto ha tempestivamente ripreso proprio la pre-intesa e presentato una corposa richiesta di competenze c.d. “non Lep”: il l 1 luglio scorso ha avanzato questa candidatura, in realtà corredata dalla domanda di avvio di possibili verifiche per l’acquisizione anticipata anche delle materie “Lep” della bozza di intesa del 2018. Un complesso di attribuzioni di grandissimo rilievo in termini di spesa, che si deve supporre che l’istituzione territoriale abbia ben ponderato, valutando responsabilmente la sostenibilità delle funzioni che suppone di potere garantire in maniera più efficiente rispetto allo Stato.

In attesa di assistere agli sviluppi, la considerazione di chiusura è che l’edificazione del nuovo regionalismo, che l’art. 116.3 Cost. prefigura, non è un traguardo banale e da sottovalutare: è suscettibile di mutare l’equilibrio tra le istituzioni dello Stato, tra le amministrazioni del territorio, tra le situazioni personali dei singoli, le cui opportunità di “partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” ex art. 3 Cost. potranno dipendere in misura sempre più decisiva dalla loro residenza. Un tale esito sarebbe paradossale se indotto da un disegno che nella sua essenza non vorrebbe puntare al sovranismo regionale, ma semplicemente alla valorizzazione di alcuni tratti tipici di territori e delle loro comunità; e che dovrebbe rimanere in sintonia con la prospettiva dell’autonomia come veicolo di partecipazione sociale e politica al potere pubblico. Ma solo i prossimi sviluppi dimostreranno quale identità il nostro regionalismo voglia assumere.

  1. Amorth A., Il problema della struttura dello Stato in Italia. Federalismo, regionalismo, autonomismo, Milano, 1945
  2. Amorth A., Il problema della Regione e la posizione dei Comuni e delle province nell’ordinamento regionale, in Corr. amm., 1961
  3. Benvenuti F., L’autonomia regionale: momento essenziale dell’ordinamento repubblicano, in Provincia e Comuni del Friuli, 1955
  4. Benvenuti F., Le autonomie locali nello Stato moderno, in Il nuovo osservatore, 1962
  5. Benvenuti, L’uomo e la Regione, in La Ca’ Granda, 1970
  6. Benvenuti F., L’ordinamento repubblicano, Libreria universitaria, Venezia, 1975
  7. Berti G., Art. 5, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli – Il Foro Italiano, Bologna-Roma, 1975
  8. Cammelli M., Regioni e regionalismo: la doppia impasse, in Le Regioni, 2012
  9. Gardini G., Le autonomie ai tempi della crisi, in Le Istituzioni del federalismo, 2011
  10. Luciani M., Un regionalismo senza modello, in Le Regioni, 1994
  11. Merloni F., Alla ricerca di un nuovo senso per un regionalismo in crisi, in Le Regioni, 2012
  12. Onida V., Le cause profonde della crisi del regionalismo, in Le Regioni, 2012
  13. Paladin L., Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie di competenza regionale, in Foro amm., 1971
  14. Paladin L., Diritto regionale, Cedam, Padova, 1973
  15. Pastori G., Regioni senza regionalismo, in Il Mulino, 1980

Autore

C. Buzzacchi

Università degli Studi di Milano-Bicocca

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Translate »