La casa come primo luogo di cura: un passo avanti o un pericoloso balzo all’indietro?

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di Alessandra Pioggia

“La casa come primo luogo di cura” è indicato nel PNRR come  principio che dovrebbe guidare la riorganizzazione della sanità territoriale. Gli snodi chiave sono l’assistenza domiciliare, l’impiego della telemedicina e il coordinamento delle prestazioni attraverso le centrali operative territoriali.

L’obiettivo del PNRR è quello di arrivare ad assistere nel loro domicilio il 10% delle persone ultrasessantacinquenni entro il 2026 (attualmente la percentuale di assistiti è intorno al 6%). Il riferimento alla fascia delle persone anziane è significativo. Si tratta della categoria di popolazione che assorbe la parte maggiore delle prestazioni erogate dal sistema sanitario e che, soprattutto, esprime bisogni di cura a lungo termine come quelli che riguardano le malattie croniche e la non autosufficienza. In Italia, uno dei Paesi con la più lunga aspettativa di vita al mondo, le persone non autosufficienti sono oltre 2,8 milioni, il 20,7% delle persone anziane. Il rischio cresce con l’età e supera il 40% oltre gli ottanta anni.

L’investimento su modalità assistenziali a domicilio risponde, quindi, a diverse esigenze: quella di non sradicare dal proprio ambiente di vita coloro che convivono con la malattia; quella di fornire risposte di cura che non si riuscirebbe ad assolvere con il ricovero in strutture residenziali, che sono in grado di accogliere una percentuale molto bassa di coloro che necessitano di assistenza continua, e quello di evitare costosi ricoveri ospedalieri, che spesso si rendono necessari proprio per il peggioramento delle condizioni di salute a cui vanno incontro le persone anziane se non adeguatamente assistite.

L’assistenza domiciliare è una prestazione di carattere sociosanitario, inclusa fra i livelli essenziali sin dalla loro iniziale previsione nel 2001 e confermata anche nella revisione del 2017. La formulazione attualmente contenuta nell’ultimo DPCM sembra convincente: si fa riferimento, infatti, a percorsi assistenziali a domicilio “costituiti dall’insieme  organizzato  di  trattamenti   medici,  riabilitativi, infermieristici e di aiuto infermieristico”, al fine di stabilizzare il quadro clinico, limitare il declino  funzionale  e  migliorare  la qualità della  vita della persona malata.  L’assistenza è articolata poi in quattro tipologie, caratterizzate da un’intensità di cura crescente.

Dietro la forma di un livello essenziale, che dovrebbe essere funzionale ad assicurare la piena garanzia del diritto alla salute in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, c’è però una sostanza molto diversa. I sistemi regionali forniscono poca assistenza, per un tempo limitato, e in maniera estremamente differenziata nei diversi territori. I dati sono sconcertanti. Ci sono regioni che coprono ben oltre la metà del bisogno stimato (ad es. il Molise è al 63%), altre che non arrivano al 5%. Il tipo di presa in carico è molto vario, lo rivelano le differenze nella spesa per singolo caso trattato: nel 2017, ad esempio, andava dai 679 euro del Veneto ai 6.200 euro della Calabria. Se l’uniformità non sembra essere nemmeno vicina, anche i dati medi nazionali sull’assistenza erogata non sono confortanti. Dall’annuario statistico del Ministero della salute si ricava che il tempo che i professionisti della sanità pubblica trascorrono nella casa del paziente assistito a domicilio è mediamente di 18 ore in un anno. Si tratta di prendersi cura di persone che, come nel caso della non autosufficienza, hanno bisogno di assistenza continua, globale e di lunga durata. La media europea è di 240 ore in un anno, anche queste non sono molte, ma si tratta comunque di 222 ore in più di quelle assicurate in Italia. 

Le misure organizzative previste in sede di ridisegno della sanità territoriale dal PNRR, in parte declinate nel decreto sui modelli e standard per l’assistenza territoriale e nelle linee guida per il modello digitale per l’attuazione dell’assistenza domiciliare, non sembrano in grado di rimuovere i problemi che ho appena segnalato. Il consistente investimento sulla telemedicina è sicuramente utile, ma non risolutivo: le differenze regionali rappresentano contesti in cui la digitalizzazione inciderà in modo inevitabilmente differenziato e, considerando quanto poco tempo di cura il personale sanitario assicuri oggi a domicilio, il rischio è che la telemedicina serva solo ad aumentare il numero di persone assistite, riducendo ulteriormente la relazione in presenza.

Se in ambito sanitario le prospettive non sono rosee, vale allora la pena di allargare lo sguardo all’ambito dei servizi sociali, nel quale, anche qui in attuazione del PNRR, sono state assunte diverse misure normative che meritano di essere prese in considerazione.

Già nella legge di bilancio per il 2022  sono stati previsti alcuni livelli essenziali che riguardano le persone ultrasessantacinquenni non autosufficienti e assistite a casa: l’assistenza domiciliare sociale, l’assistenza sociale integrata con i servizi sanitari, i servizi  sociali  di  sollievo  e  i servizi di supporto per le persone anziane non autosufficienti e le loro famiglie. A queste previsioni sono seguite quelle della legge delega 33 del 2023, alla quale anche questo blog ha dedicato un utile post, e che, nel quadro di una serie di misure dedicate al benessere delle persone anziane, ha riservato alcune deleghe anche all’assistenza domiciliare per la non autosufficienza.

Qualche giorno fa è entrato in vigore il decreto di attuazione, d.lgs. 39 del 2024. La parte dedicata alle persone anziane non autosufficienti procede però, coerentemente con la delega, al mero “riordino, semplificazione e coordinamento delle attività di assistenza sociale, sanitaria e sociosanitaria”. Si tratta, infatti, di previsioni che riguardano la pianificazione integrata, il coordinamento e l’integrazione delle prestazioni, e che non concernono nuovi servizi o l’incremento di quelli esistenti, fatta eccezione solo per la sperimentazione della prestazione universale, che riguarderà però un numero straordinariamente esiguo di persone.

Il decreto non solo, quindi, non prevede prestazioni ulteriori, ma fa di peggio: dispone che quelle già previste, ovvero i livelli essenziali sociali per le persone non autosufficienti definiti dalla legge di bilancio per il 2022, siano da attuarsi “in via graduale e progressiva” e, soprattutto, “nei limiti delle risorse disponibili”. Come si vede, dunque, nulla di immediatamente esigibile, neanche sul fronte delle prestazioni sociali. 

Se il significativo sforzo per semplificare, razionalizzare e soprattutto integrare le prestazioni sociali e sanitarie va salutato con grande favore, non c’è dubbio, però, che le famiglie e le persone anziane non autosufficienti assistite a domicilio riceveranno in maniera più semplice, razionale e integrata prestazioni sanitarie sicuramente insufficienti e prestazioni sociali che non sono certo immediate e che, anche per il futuro, probabilmente, riguarderanno poche persone.

Di fatto, quindi, la cura della persona assistita a domicilio continua a gravare prevalentemente sulla famiglia, che raramente può permettersi di pagare di tasca propria un professionista dell’assistenza, che spesso ricorre a persone non formate, assunte in maniera irregolare, e che, soprattutto, in 7 casi su 10 si occupa direttamente della persona malata. L’Istat qualche hanno fa ha stimato in 3 milioni e mezzo i familiari che svolgono anche la funzione di caregiver, altri studi indicano numeri addirittura doppi. Quel che è certo è che la grande maggioranza di coloro che assistono i propri cari sono donne e che un numero molto consistente di loro rinuncia al lavoro o allo studio.

In un quadro come questo, il passaggio promesso dal PNRR dal 6% degli ultrasessantacinquenni assistiti a domicilio al 10%, non sembra affatto una buona notizia. Se l’assetto dei servizi resta quello che ho qui delineato, si rischia di tornare indietro di decenni, riportando la cura delle persone anziane malate al buon cuore dei parenti, e, nei casi di disagio più grave, all’assistenza sociale e alla benevolenza del volontariato. Considerato, quindi, il peso che continuerà ad incombere sulle famiglie e sulle donne, c’è anche il  rischio di tornare a chiudere molte di loro all’interno delle mura domestiche, in cui il lavoro non è riconosciuto, non riceve alcuna tutela, non è retribuito e non emancipa dal bisogno, ma, se mai, lo amplifica. Esaurire il proprio tempo nella cura, infatti, non soltanto limita le prospettive di impiego, la socializzazione, la realizzazione di sé, ma incide anche sul benessere fisico e psichico. Ci sono diversi studi che dimostrano l’impatto in termini di peggioramento di salute del caregiving esclusivo; una sintesi allarmante dei risultati ce l’ha offerta la Premio Nobel 2009 per la medicina, Elizabeth Blackburn, quando, attraverso i suoi studi su stress e telomerasi, ha stimato che l’aspettativa di vita delle persone che fanno da caregiver familiari è fino a 17 anni inferiore di quella media della popolazione.

Insomma, “la casa come primo luogo di cura” è una prospettiva che, in mancanza di misure adeguate in grado di assicurare un’assistenza domiciliare, sanitaria e sociale degna di questo nome, non sembra certo un passo avanti.

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