La comunicazione pubblica ai tempi della par condicio. Proposte per una riforma improrogabile

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di Gianluca Gardini

La legge sulla cd. par condicio (l. 28/2000), fortemente voluta per contrastare la discesa in campo di Silvio Berlusconi e delle sue televisioni, è ormai invecchiata e molti si interrogano sulla sua perdurante utilità nell’era di internet e dei social network. Le modificazioni di contesto che si sono avute in questi anni – a partire dall’ingresso massiccio dei new media nelle campagne elettorali, passando per le nuove strategie di comunicazione istituzionale e politica, fino ai cambiamenti radicali intervenuti nella scena politica italiana – sollecitano una riscrittura, se non addirittura l’eliminazione della legge.

Uno degli aspetti più discutibili della normativa sulla par condicio è quello concernente la comunicazione istituzionale. La legge vieta infatti a tutte le pubbliche amministrazioni di svolgere qualsiasi attività di comunicazione istituzionale prima di ogni consultazione elettorale.  L’art. 9 stabilisce infatti che «Dalla data di convocazione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni». Il divieto si estende tra i 70 e 45 giorni prima della consultazione, a prescindere dal fatto che interessi gli organi dell’amministrazione comunicante. Per altro verso, al rigore formale si accompagna una debolezza sostanziale della norma, visto che il precetto dell’art. 9 risulta sfornito di sanzione, non essendo collegata alla sua violazione alcuna conseguenza specifica (salva la possibilità per Agcom di adottare sanzioni di natura accessoria, quali la trasmissione o la pubblicazione di messaggi recanti l’indicazione della violazione commessa).

È un ottimo esempio per spiegare agli studenti di un corso di giurisprudenza come non si dovrebbero scrivere le leggi: fissare prima una regola draconiana, che conduce all’azzeramento della comunicazione istituzionale da parte di tutte le amministrazioni, per periodi lunghi e che possono ripetersi molto frequentemente a causa dell’incessante susseguirsi delle consultazioni popolari (elezioni e referendum) nel nostro paese; quindi, omettere di collegare sanzioni adeguate ai casi di violazione, privando la regola di ogni capacità di incidere sui comportamenti delle amministrazioni.

In questa sede preme evidenziare come questo divieto totalizzante produca continue interruzioni alla funzione comunicativa dell’amministrazione, che, per altro verso, l’ordinamento italiano considera doverosa: basti ricordare l’istituzione degli URP ad opera del d.lgs. 29/93; la qualificazione della comunicazione istituzionale come “funzione pubblica” da parte della l. 150/00; l’obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni di pubblicare sul sito “Amministrazione trasparente” dati e informazioni di pubblica utilità, ai sensi del d.lgs. 33/2013. A seguito dell’introduzione di queste leggi, divulgare informazioni aggiornate e facilmente accessibili a tutti, riguardanti l’attività pubblica, la normazione, i servizi, le strutture e il loro uso, costituisce una forma di servizio pubblico a favore dei cittadini: attraverso la comunicazione istituzionale si vuole garantire la realizzazione dell’art. 21 Costituzione, che nel suo versante passivo garantisce il diritto ad essere informati. Vista la natura di “servizio pubblico” e “funzione pubblica” associata all’attività di comunicazione istituzionale, il suo esercizio non potrà che ispirarsi ai principi di continuità, non interruzione, effettività, responsabilità. Un blocco totale e frequente di questa attività non può quindi rappresentare la finalità avuta di mira dal legislatore, cui va sempre ascritta una razionalità di fondo.

Per cercare una lettura equilibrata della legge occorre partire dalla ratio del divieto, che è in primo luogo quella di evitare che l’attività di comunicazione istituzionale durante questo periodo “sensibile” possa sovrapporsi ed interagire con l’attività propagandistica svolta dalle liste e dai candidati, dando vita ad una forma parallela di campagna elettorale, in elusione delle norme di settore. In secondo luogo, il divieto mira a impedire il consolidarsi di un vantaggio elettorale a favore dei politici uscenti (incumbents) nei confronti degli sfidanti (challengers), date le innumerevoli facilitazioni, in termini di comunicazione e di visibilità, di cui i primi dispongono in via esclusiva e gratuita. In terzo luogo, il divieto mira ad evitare un uso distorto di risorse e denaro pubblico a fini di propaganda (diretta o indiretta) a favore di alcune forze politiche e in danno di altre.

Considerate le finalità della legge, sarebbe opportuno circoscrivere il divieto di comunicazione istituzionale alle sole amministrazioni direttamente interessate dalle consultazioni elettorali in atto, lasciando liberi gli enti che non sono da esse minimamente toccati (ad es. i comuni non interessati da elezioni regionali o locali, le regioni non interessate da elezioni amministrative o referendum abrogativi, etc.). Un primo passo in questa direzione è stato (parzialmente) compiuto da Agcom, secondo cui, in caso di lezioni locali, “il divieto di comunicazione istituzionale di cui all’art. 9 trova utile applicazione esclusivamente con riferimento alle amministrazioni pubbliche negli ambiti territoriali interessati dalle consultazioni amministrative”. Ma dovrebbe essere la legge a chiarirlo, per maggior certezza.

Sempre in vista di una lettura più equilibrata del divieto, sarebbe utile tenere a mente che la comunicazione istituzionale è per definizione imputabile all’ente e non a singoli soggetti (v. Corte cost. 79/2016), e in quanto funzione/servizio pubblico, è sempre doverosa. Pertanto, esigere da un lato una comunicazione istituzionale “impersonale” risulta quasi ovvio, in campagna elettorale come in qualsiasi altro periodo dell’anno. Dall’altro, richiedere che la comunicazione pubblica sia “indispensabile per l’efficace assolvimento delle funzioni istituzionali” genera incertezza: è evidente che la valutazione sul carattere indispensabile di una comunicazione è rimessa alla discrezionalità del decisore pubblico, a meno di non voler attribuire a questo termine il significato più restrittivo – ma semanticamente distinto – di “urgente”, “improcrastinabile” (come hanno sin qui fatto gli organismi preposti alla vigilanza sul divieto, ossia Agcom e Corecom). La comunicazione istituzionale dovrebbe sempre presumersi come impersonale e indispensabile: muovendo di qui, andrebbe proibita in campagna elettorale la sola comunicazione associata a una figura istituzionale o a gruppi politici specifici, nonché quella priva di rilevanza sociale, che ha come obiettivo quello di dare lustro all’ente e non serve ai destinatari. Si otterrebbe così l’effetto di invertire l’onere della prova (la comunicazione pubblica è sempre lecita, salvo non si dimostri la sua natura personale e strumentale a fini politici), ma anche in questo caso, per maggiore chiarezza, dovrebbe essere la legge a stabilirlo.

Una interpretazione “sostenibile” del divieto, infatti, non cancella la necessità di una revisione delle regole riguardanti la comunicazione pubblica approvate nell’ormai lontano 1993, e mantenute per inerzia sino ad oggi. A parere di chi scrive, la disciplina sulla comunicazione istituzionale nei periodi pre-elettorali non può che passare per la distinzione tra “comunicazione di servizio” e “comunicazione di immagine”: la prima si caratterizza per il favor e l’utilità rispetto all’interesse degli amministrati, mentre la seconda mira a procurare un vantaggio all’istituzione che la utilizza, non ai cittadini cui è diretta. Questo criterio distintivo è stato elaborato dalla dottrina [G. Arena, Profili giuridici della comunicazione delle pubbliche amministrazioni, 1992] e successivamente recepito dal legislatore: la legge 150/00 ascrive alla “comunicazione di servizio” (art. 1, comma 5, lett. a-e) tutte le attività informative svolte nel periodo pre-elettorale relative al funzionamento degli uffici, alla normativa vigente, ai servizi erogati nel territorio, a tematiche di rilevante interesse pubblico; mentre riconduce alla “comunicazione di immagine” tutte le attività d’informazione volte a fornire una rappresentazione positiva dell’amministrazione o dei suoi organi, allo scopo di legittimarne l’attività o di promuoverne la riconferma (art. 1, comma 5, lett. f).

Muovendo di qui, una (auspicabile) riforma della legge 28/2000 dovrebbe sempre consentire in campagna elettorale la “comunicazione di servizio” (art. 1, comma 5, lett. a-e) e vietare la “comunicazione di immagine” (lett. f), avendo consapevolezza (e le circolari interpretative in questo senso possono essere d’aiuto) che la comunicazione istituzionale realizzata in forma personalizzata e non strettamente necessaria all’interesse generale può rappresentare una spia dell’eccesso di potere per sviamento. Ribaltando cioè l’impostazione attuale, in cui l’intera comunicazione istituzionale è vietata, salva quella impersonale e indispensabile. E, naturalmente, associando all’uso distorto della comunicazione di servizio una robusta sanzione pecuniaria a carico dell’ente responsabile.

Per fare alcuni esempi concreti, l’inaugurazione di un nuovo reparto di oncologia dovrebbe sempre essere riservata al direttore generale dell’Asl o dell’azienda ospedaliera nei periodi preelettorali, evitando di fornire sconvenienti passerelle agli assessori o ai politici, che potrebbero rappresentare figure sintomatiche dell’eccesso di potere comunicativo per sviamento. Le figure sintomatiche ora indicate, poi, dovrebbero trovare opportune deroghe nei casi in cui le esigenze di completezza e utilità dell’informazione rendono “indispensabile” associare un evento ad una determinata figura politica o istituzionale. Così, un nuovo progetto di legge depositato da un consigliere regionale o da un gruppo consiliare, l’attività d’aula, l’interrogazione presentata da una forza politica, dovrebbero poter essere associate nei comunicati stampa ad un soggetto o a una formazione politica, giacché in questi casi un comunicato effettuato dall’ufficio stampa pubblico senza indicazione del soggetto politico di riferimento perde sostanzialmente di senso.

Infine, un’eventuale, consigliabile riforma della legge 28/2000 dovrebbe ridurre il periodo di vigenza del divieto di comunicazione istituzionale, fissando il dies a quo per la sua decorrenza in concomitanza con la presentazione delle candidature (tra il 33° e il 30° giorno precedente quello fissato per le elezioni), come stabilito a per l’attività di propaganda “tipiche” mediante affissioni e manifesti.

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