La contesa del pallone: a proposito di Superlega europea, UEFA e libera concorrenza
di Carlo Alberto Ciaralli
ABSTRACT: Il 19 aprile 2021, dodici fra le più importanti società calcistiche europee hanno tentato di dare vita ad una nuova competizione internazionale per club, svincolata dall’egida dell’UEFA: la Superlega. Il tema del monopolio UEFA nell’organizzazione delle competizioni calcistiche continentali e lo “strappo” prodottosi a seguito della nascita della nuova competizione calcistica sarà oggetto di valutazione da parte della Corte di Giustizia UE, interessata dal Tribunale di Madrid circa il possibile abuso di posizione dominante da parte dell’UEFA.
Il 19 aprile 2021, alcune delle più importanti società calcistiche a livello continentale hanno dato vita ad un progetto “rivoluzionario” nel panorama calcistico internazionale: un nuovo format, una competizione internazionale per club svincolata dalle regole vigenti per le competizioni organizzate dall’organo di governo del calcio europeo, la UEFA, autonoma ed indipendente da quest’ultima ed, anzi, in diretta concorrenza con la maggiore competizione calcistica internazionale tuttora esistente, la UEFA Champions League. Tale nuova, “originale” competizione, denominata European Super League, avrebbe annoverato fra i “soci fondatori” società calcistiche di notevole spessore e blasone, quali Juventus, Milan, Inter, Real Madrid, Barcellona, Atletico di Madrid, Chelsea, Liverpool, Manchester United, Manchester City, Tottenham ed Arsenal, rappresentative dei tre principali campionati nazionali in Europa (Italia, Spagna ed Inghilterra).
Come noto, ogni competizione di rilevanza europea (per rappresentative nazionali e per società calcistiche) viene direttamente gestita ed organizzata, in condizione di sostanziale monopolio, dalla UEFA (Union of European Football Associations), sotto la “supervisione” della FIFA (Fédération Internationale de Football Association), massimo organismo calcistico a livello mondiale, non essendosi sinora create le condizioni per le quali un raggruppamento di società professionistiche, operanti nel mondo del calcio, ponesse direttamente in questione la “legittimità” giuridica e, parimenti, la “sostenibilità” finanziaria della suddetta condizione di monopolio. In particolare, l’adesione delle 55 federazioni calcistiche nazionali tuttora affiliate all’organizzazione UEFA permette loro, sulla base del ranking dei singoli tornei nazionali, nonché dei posizionamenti delle squadre all’interno di essi e nelle stesse competizioni internazionali, la partecipazione alle diverse competizioni per club promosse dalla UEFA (European Super Cup, Champions League, Europa League, Conference League, Youth League). L’adesione di ciascuna federazione calcistica all’UEFA, in sostanza, è una condizione essenziale affinché le squadre nazionali possano, legittimamente, prendere parte alle competizioni internazionali ed essere, al contempo, riconosciute dall’UEFA quali legittime federazioni calcistiche operanti all’interno di una determinata nazione.
Sulla base di quanto sinora descritto, il tema che la Superlega europea pone all’attenzione del dibattito è, quantomeno, duplice: da un lato, la legittimità, in termini giuridici, della condizione esercitata dalla UEFA che, a giudizio dei promotori della Superlega, si atteggerebbe quale ingiustificata posizione di monopolio, specie nel momento in cui FIFA e UEFA possano imporre alle società calcistiche di non promuovere od aderire a competizioni internazionali estranee a quest’ultime (in funzione della affiliazione alle stesse delle federazioni nazionali), pena l’apertura di un procedimento disciplinare comportante, a valle dello stesso, l’esclusione dai tornei nazionali ed internazionali, nonché considerevoli sanzioni di natura economica. Dall’altro lato, ciò che maggiormente richiama l’attenzione si riferisce alla praticabilità, in termini giuridici e finanziari, di una competizione parallela, con regole ed organizzazione proprie, in concorrenza diretta con il principale (finora, unico) player europeo nella gestione ed organizzazione di eventi sportivi.
Vi è da sottolineare come la Superlega europea non sia, almeno in questa fase embrionale, un’unione di federazioni calcistiche nazionali. L’intento, in prima battuta, non sarebbe quello di promuovere una struttura di livello europeo, con un’organizzazione autonoma ed indipendente dalla UEFA, in diretta concorrenza con quest’ultima. L’obiettivo non sarebbe, quindi, quello di annoverare numerose altre federazioni calcistiche nazionali e creare, in sostanza, un reale competitor nell’organizzazione e gestione di tornei calcistici di rilievo internazionale in Europa. Scopo precipuo della Superlega è, viceversa, quello di creare un singolo torneo continentale di “eccellenza”, indipendente dall’organizzazione UEFA ed in competizione, in particolare, con la Champions League. La partecipazione ai singoli tornei nazionali non verrebbe, pertanto, messa in discussione, sul modello di quanto già avvenuto venti anni orsono nel mondo delle competizioni europee di pallacanestro. In quest’ultima esperienza, infatti, l’esempio dell’Eurolega appare piuttosto illuminante: detto format, in sostanza, consiste in un torneo di pallacanestro d’eccellenza, a cui accedere tramite “licenze pluriennali” o wild cards, al fine di “selezionare” i potenziali partecipanti alla competizione, anche sulla base di particolari requisiti di accesso, afferenti persino alle strutture ed alla capacità finanziaria delle squadre. Un sistema tendenzialmente “chiuso”, il quale ha ispirato, piuttosto consapevolmente, il modello di Superlega promosso in ambito calcistico.
In sostanza, nel caso della Superlega calcistica, la partecipazione al torneo d’eccellenza verrebbe “sganciata” (quantomeno in parte) dal parametro di valutazione da sempre adottato nello sport per l’accesso alle manifestazioni sportive continentali, ovvero dal merito sportivo manifestatosi in ambito nazionale. In tal senso, infatti, alla nascente competizione sarebbero abilitate a partecipare venti squadre: dodici società fondatrici (anche se sul sito internet ufficiale della Superlega si parla di quindici squadre partecipanti “di diritto”) e cinque società “invitate” ogni anno, a discrezione del board della Superlega europea. Rispetto a quest’ultimo punto, si deduce agevolmente che le squadre “invitate” alla competizione rappresenterebbero (o meglio, dovrebbero rappresentare) società con un appeal decisamente rilevante quanto a sponsor, fatturati e tifoseria. Tale impresa, sulla base di un preciso accordo contrattuale, verrebbe finanziata tramite sponsorizzazioni della competizione, vendita dei diritti televisivi su scala continentale e, nondimeno, a mezzo di un poderoso investimento iniziale (circa 3-4 miliardi di euro), promosso da una nota banca d’affari internazionale, al fine di garantire la “sostenibilità” finanziaria del torneo e generare ragguardevoli ricavi per le società partecipanti. Su tale crinale, appaiono giustificati il timore e l’apprensione, circolati negli ambienti politico-sportivi e nelle cancellerie europee, che il maggiore appeal del “nuovo” prodotto, caratterizzato unicamente da “supersfide” fra le migliori società europee, a cadenza settimanale, potrebbe condurre al crash economico-finanziario del sistema calcistico europeo consolidato, polarizzando ulteriormente la forza economica nelle mani di pochi top club europei, a discapito, in particolare, delle leghe minori di livello nazionale.
A fronte della nascente competizione d’élite, FIFA, UEFA e federazioni calcistiche nazionali interessate, timorose di una possibile “fuga” delle big dal circuito calcistico sinora dominante, hanno minacciato intense sanzioni di carattere sportivo ed economico (tra le quali, in particolare, la sospensione delle società dalle competizioni internazionali e nazionali), al fine di dissuadere le società “ribelli” dal persistere nell’iniziativa indipendente. A seguito di tali pressioni, nonché dell’ondata popolare di protesta diffusasi rapidamente tra gli appassionati in tutta Europa (la quale ha coinvolto, “sorprendentemente”, anche i supporters delle “Fab 12”), nove delle dodici società fondatrici (ad eccezione di Real Madrid, Juventus e Barcellona) hanno ritirato la loro partecipazione dalla Superlega, venendo così “riammesse” nel consesso unitario europeo. Formalmente, beninteso, la European Superleague Company è tuttora esistente, non essendosi perfezionata la “risoluzione” dei rapporti fra le società, ivi compresa l’eventuale “dissoluzione” del format stesso e della società organizzatrice della competizione.
Nondimeno, l’esercizio di tali, considerevoli, pressioni sono alla base del ricorso, presentato dalle residue società “ribelli” innanzi al Tribunale commerciale di Madrid, avverso il procedimento disciplinare promosso dalla UEFA, con l’intenzione di richiederne l’immediata sospensione. Il Tribunale di Madrid, tuttavia, non si è esclusivamente limitato a diffidare UEFA e FIFA dall’adozione di procedimenti di carattere sanzionatorio a carico delle società aderenti alla Superlega o nei riguardi dei loro tesserati, oltreché di azioni che possano compromettere la nascita della nuova competizione. Con rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ha ventilato l’ipotesi che la situazione di monopolio di cui beneficiano UEFA e FIFA costituisca un “abuso di posizione dominante”, in potenziale violazione degli artt. 101 e 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, incidendo così sul principio generale di libera concorrenza vigente nello spazio giuridico europeo.
A fronte dell’importante crescita dimensionale ed economica dello sport in Europa negli ultimi decenni (e, su tutti, del calcio), si è venuta profilando una “coesistenza” fra mondo sportivo e ambito pubblicistico, nel senso che, riconosciuta l’autonomia dell’ambito sportivo, si abbia cura di intervenire laddove detta autonomia possa entrare in rotta di collisione con ambiti e profili di rilevanza pubblicistica. In tal senso, a livello continentale, rilevano le disposizioni del TFUE, in particolare l’art. 6, ove si prevede, da parte dell’UE, un’azione di sostegno, coordinamento e completamento delle politiche statali in materia sportiva, nonché l’art. 165, laddove, più diffusamente, si stabilisce che, tenuto conto della specificità dell’ambito sportivo, l’azione dell’Unione sia tesa a “sviluppare la dimensione europea dello sport, promuovendo l’equità e l’apertura nelle competizioni sportive e la cooperazione tra gli organismi responsabili dello sport”. A livello nazionale, parimenti, rilevano le disposizioni contenute nell’art. 117, co. 3, della Costituzione, il quale affida la materia “ordinamento sportivo” alla disciplina concorrente fra Stato e Regioni, nonché la legge n. 280/2003, la quale, a fronte dell’autonomia riconosciuta all’ordinamento sportivo, prevede un’eccezione alla stessa nei “casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo”.
Su tali profili (in particolare quelli relativi all’ambito continentale) si “gioca la partita” fra Superlega e UEFA. L’eventuale “compressione” dello spazio di autonomia riconosciuto all’ordinamento sportivo potrebbe realmente inverarsi laddove la Corte di Giustizia dovesse individuare un’indebita lesione del principio della libera concorrenza nello spazio UE; principio, come noto, posto quale pilastro fondante della stessa architettura giuridica comune. In sostanza, pur trattandosi di organizzazioni autonome, la lesione di principi fondamentali europei “nell’azione di contrasto” alla nascita di una nuova competizione continentale comporterebbe il divieto di porre in essere azioni svantaggiose (specie dal punto di vista economico) nei riguardi delle società ribelli, nonché di frapposizione di qualunque ostacolo alla nascita del nuovo format. Resterebbe ferma, ad ogni modo, la possibilità per le federazioni nazionali, la UEFA e la FIFA, nell’ambito del loro spazio di autonomia, di non riconoscere la nuova competizione.
Il pronunciamento della Corte di Giustizia UE sarà, indubbiamente, di particolare spessore, in quanto potrebbe realmente favorire una ulteriore rivoluzione nel mondo della governance calcistica, aprendo la strada a nuove forme di organizzazione internazionale fra privati, svincolate dal circuito ufficiale dell’UEFA. L’attività pretoria della CGUE riveste una particolare valenza anche in ambito sportivo, specie considerando il più noto dei precedenti giurisprudenziali in materia, quel “caso Bosman” che ha determinato una mutazione profondissima della quale, a volte con eccessi irrazionali e distorsivi, abbiamo riscontro a tutt’oggi. La Corte, infatti, consegnò ai calciatori un maggiore potere contrattuale nei confronti delle società calcistiche ed eliminò i “calciatori comunitari” dal computo massimo dei giocatori “stranieri” tesserabili da ciascuna società calcistica europea. Anche in tal caso, a ben vedere, la questione, lungi dall’afferire all’ambito meramente sportivo, implicava profonde limitazioni in tema di libera circolazione dei lavoratori e tutela della concorrenza in Europa, le quali hanno legittimato un intervento “invasivo” della Corte nell’ambito dello sport, al fine di tutelare i principi del diritto comunitario.
Ad onor del vero, non può disconoscersi che le nuove tecnologie (social networks, entertainment, console interattive, piattaforme streaming) e alcune formule organizzative sovente stantie (quali, ad esempio, i format delle competizioni internazionali UEFA e i numerosi cambiamenti regolamentari) abbiano, in qualche modo, “raffreddato” l’interesse degli appassionati, come dimostrato dai dati pre-pandemici sull’afflusso di abbonati e tifosi “occasionali” negli impianti per la fruizione degli eventi sportivi. È pur vero che gli argomenti utilizzati in questa tenzone per difendere lo status quo (“il calcio è di tutti”) hanno sovente risuonato quali vuoti espedienti dialettici, a fronte delle criticità di un sistema che ha, nel corso tempo, progressivamente accantonato la figura del “tifoso” e dei “valori” (anche etici) dello sport, a favore della valorizzazione del business indotto “dall’industria del calcio”. In tal senso, la “rivolta” dei tifosi potrebbe essere letta non soltanto quale ferma opposizione al progetto della Superlega, bensì quale “grido di allarme” nei confronti dell’intera struttura di governo del calcio europeo, al fine di recuperare una dimensione maggiormente prossima allo spirito sportivo, svincolando il meccanismo sotteso al funzionamento del calcio da logiche sovente estranee ad esso.
Sostanzialmente, nell’intento dei proponenti, la c.d. “operazione Superlega” si prefiggerebbe lo scopo di “ravvivare” l’interesse popolare nei confronti del calcio (specie al tempo della pay-tv e dei social networks) e, soprattutto, aumentare i ricavi per le società aderenti, a fronte del paventato rischio di “insolvenza” del modello di business calcistico. La sostenibilità finanziaria del “sistema calcio” è oggetto di annoso dibattito, acuitosi esponenzialmente a fronte degli effetti nefasti della pandemia, la quale ha prodotto una drastica riduzione dei ricavi, costringendo le società, anche quelle di maggior seguito, a misure di carattere eccezionale quali, su tutte, la dilazione del pagamento dei gravosi stipendi dei tesserati, in primis i calciatori.
Alcune soluzioni adottate nel passato, su tutte il Financial Fair Play, non hanno prodotto i risultati auspicati, acuendo anzi il divario economico fra le società calcistiche. Si è in sostanza determinato un “circolo ristretto”, capace di maneggiare ingenti somme di denaro, a fronte di una moltitudine di realtà, specie di piccole dimensioni, costrette sovente alla dichiarazione di fallimento o a profondi piani di ridimensionamento. Paradossalmente, lungi dal voler promuovere un modello d’eccellenza fondato sul brand e non sui risultati sportivi, queste sono alcune delle “motivazioni” che hanno indotto i promotori della Superlega allo “strappo”, aprendo un dibattito che la futura pronuncia della Corte di Giustizia non potrà far altro che amplificare.
In conclusione, il punto chiave non si colloca esclusivamente nella polemica relativa alla “esclusività” che il format della Superlega, quasi naturalmente, rappresenterebbe, realizzando così una competizione d’élite e, consequenzialmente, decretando un declino certo, forse irreversibile, per le già barcollanti leghe minori di livello nazionale, a fronte del massiccio spostamento verso la Superlega di sponsorizzazioni e, dunque, risorse finanziarie. Occorre, in definitiva, una profonda e complessiva ridefinizione della governance del “sistema calcio”, il quale, stante gli attuali assetti di vertice, appare chiaramente incapace di autoriformarsi ed instaurare un circuito finanziario virtuoso. Tale ridefinizione della governance dovrebbe imperniarsi su di un duplice versante: in primo luogo, incidere radicalmente sulle voci di spesa maggiormente impattanti sui bilanci delle società (in particolare, emolumenti dei calciatori e commissioni degli agenti); in secondo luogo, limitare o rimuovere pratiche contabili artificiali e capziose, quali, a mo’ di esempio, quella delle “plusvalenze” negli scambi dei calciatori che hanno caratterizzato la gestione finanziaria di svariati club negli ultimi tre decenni, contribuendo ad incrementare l’insostenibilità finanziaria del modello societario calcistico. In altre parole, la riforma, necessaria ed indifferibile, del sistema dovrebbe ispirarsi a un modello (anche di business) sostenibile, inclusivo, equo ed improntato ad un principio “redistributivo” (almeno in parte) nei riguardi della base della piramide.