La Corte costituzionale riscrive il regionalismo differenziato. Tutti soddisfatti, tutti inappagati
di Gianluca Gardini
Università degli Studi di Ferrara
Sono state pubblicate, nei giorni scorsi, le motivazioni della sentenza n. 10 del 2025, con cui la Corte costituzionale, un paio di mesi dopo aver rivolto una batteria di censure alla legge n. 86/2024 dal «carattere profondamente demolitorio» (così l’atto “di intervento” in giudizio della Regione Veneto), ha stabilito l’inammissibilità del referendum sull’abrogazione dell’intera legge Calderoli, per come sopravvissuta al vaglio di costituzionalità. La sentenza evidenzia che «l’impianto originario della legge n. 86 del 2024 è stato profondamente modificato dalla sentenza predetta (n.192 del 2024, N.d.A.), con interventi di tipo caducatorio, sostitutivo e additivo, nonché con decisioni interpretative di rigetto (…), lasciando in vita un contenuto minimo». Un contenuto di difficile individuazione e oscuro, secondo la Corte, tanto che «L’elettore si verrebbe a trovare in una condizione di disorientamento, rispetto sia ai contenuti, sia agli effetti di quel che resta della legge n. 86 del 2024». Con la conseguenza che «tale disorientamento impedirebbe l’espressione di un voto libero e consapevole, che la chiarezza e la semplicità del quesito mirano ad assicurare». E con il rischio che il referendum si risolva in «un’opzione popolare non già su una legge ordinaria modificata da una sentenza di questa Corte, ma a favore o contro il regionalismo differenziato».
Ora, lasciando da parte l’opinabilità di una simile motivazione, che lascia trapelare quantomeno una scarsa considerazione della capacità dei cittadini di esercitare il proprio diritto di voto (come è stato giustamente sottolineato, “un eccessivo interventismo nella valutazione della consapevolezza della scelta rischia di chiudere spazi di partecipazione effettiva e di infantilizzare i cittadini, determinando eccessi oligarchici e paternalisti”, v. Algostino), preme qui sottolineare l’incertezza complessiva che continua a circondare il cd. regionalismo differenziato. Il Giudice delle leggi propone alle parti in causa una prospettiva sistematica, generativa e conciliativa della “Repubblica delle autonomie”, che lascia tutti soddisfatti e, al tempo stesso, inappagati.
La sentenza n. 192 del 2024 fornisce senza dubbio un contributo di ragionevolezza al dibattito sull’attuazione del cd. regionalismo asimmetrico, che da anni lacera l’opinione pubblica. Il progetto regionalista è da sempre caratterizzato da una forte divaricazione di opinioni: la polarizzazione, del resto, non è un fenomeno legato solo all’attuazione dell’art. 116.3 Cost., ma è presente nel nostro ordinamento sin dal dibattito costituente. Le differenze riguardano la posizione dei diversi schieramenti in campo: dopo la Seconda guerra mondiale, l’autonomia regionale era invocata per compensare i divari tra Nord e Sud del paese, e riequilibrare un assetto di governo uniforme che, di fronte a situazioni diverse, generava iniquità. Oggi, lo scontro si svolge a parti invertite, in un quadro politico rovesciato in cui i sostenitori della “maggiore autonomia” regionale sono considerati portatori di valori egoistici, che minacciano l’eguaglianza dei territori e delle comunità, mentre gli oppositori dell’autonomia differenziata (e dunque sostenitori della uniformità) si propongono come difensori della solidarietà nazionale.
Per cercare di attenuare le contrapposizioni ideologiche, la Corte chiarisce subito che l’art. 116.3 Cost., «consente di superare l’uniformità nell’allocazione delle competenze al fine di valorizzare appieno le potenzialità insite nel regionalismo italiano». Vuole dire che la differenziazione regionale, in sé, non è un male, tutt’altro. Ad avviso di chi scrive, la differenziazione rappresenta un concetto sinonimo, se non l’essenza stessa dell’autonomia. Il problema è trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di autonomia/differenziazione e altri diritti/valori protetti dalla Costituzione italiana (uguaglianza sostanziale, solidarietà, leale collaborazione etc.): per questo, nel testo della sentenza l’apologia della differenziazione è seguita dalla precisazione che l’art. 116.3 Cost. «non può essere considerata come una monade isolata, ma deve essere collocata nel quadro complessivo della forma di Stato italiana, con cui va armonizzata».
Siamo dinanzi ad un sottile gioco acrobatico, condotto con destrezza dal Giudice delle leggi, che si muove tra le ragioni dell’autonomia e quelle dell’unità, le istanze della differenziazione e quelle dell’uniformità, l’ottica competitiva e quella solidarista. La sensazione, al termine della lettura, è di trovarsi di fronte ad un grande affresco sullo Stato decentrato, che ricostruisce in modo magistrale la traiettoria del regionalismo italiano, dalle origini ad oggi, provando a comporre all’interno di una cornice unitaria esigenze che faticano a trovare una modalità pacifica di convivenza.
L’incessante dialettica tra unità e pluralismo, insita nella Costituzione repubblicana, rappresenta la chiave di lettura generale dell’intera pronuncia. D’altra parte, la dialettica “conciliativa” tra unità e autonomia va imputata direttamente alla Costituzione, prima ancora che al suo Custode, dal momento che è l’art. 5 Cost. ad affermare l’unità e indivisibilità della Repubblica, imponendo a quest’ultima il riconoscimento, la valorizzazione e l’attuazione dei principi di autonomia e decentramento.
La Corte propone un criterio-guida per individuare il punto di equilibrio tra unità e differenziazione: la sussidiarietà. Un criterio flessibile, che consente di evitare richieste massive di funzioni, estese a tutte le materie di competenza concorrente di cui all’art. 117.3 Cost. E, soprattutto, blocca sul nascere richieste prive di una valida giustificazione. La sussidiarietà richiede infatti che le funzioni (legislative e amministrative) siano attribuite al «livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione. La preferenza va al livello più prossimo ai cittadini e alle loro formazioni sociali, ma il principio può spingere anche verso il livello più alto di governo».
Funzioni, non materie (v. post di Giangaspero pubblicato su questo blog). Una devoluzione per “blocchi di materie”, oltre che irragionevole e contraria al criterio di sussidiarietà (che riguarda, appunto, le funzioni), condurrebbe ad una modifica sostanziale delle competenze dei livelli di governo e della stessa forma di Stato senza passare per un formale procedimento di revisione costituzionale, con conseguente violazione dell’art. 138 Cost.
La Corte suggella questo fine ragionamento con un’affermazione che assume il sapore di regola aurea per l’attuazione del regionalismo differenziato: «la scelta sulla ripartizione delle funzioni legislative e amministrative tra lo Stato e le regioni o la singola regione, nel caso della differenziazione art. 116.3 Cost., non può essere ricondotta ad una logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici, né dipendere da valutazioni meramente politiche. Il principio di sussidiarietà richiede che la ripartizione delle funzioni, e quindi la differenziazione, non sia considerata ex parte principis, bensì ex parte populi». In altre parole, l’attuazione dell’art. 116.3 Cost. deve essere messa a «servizio del bene comune della società», e non divenire strumento di lotta tra livelli di governo, tanto in senso verticale (tra Stato e Regioni ordinarie) che orizzontale (tra Regioni ordinarie).
Ma i pregi, da sempre, vanno a braccetto con i difetti. La pronuncia evita di affrontare quello che, ad avviso di chi scrive, rappresenta il vero nodo della questione LEP, ossia la difficoltà di separare cartesianamente materie per le quali è in astratto possibile evidenziare un legame diretto con la tutela di un diritto civile e sociale, e quelle per le quali il legame non è immediato. Con riferimento a prestazioni e servizi che soddisfano diritti sociali e civili è evidente che una cesura netta tra materie che possono prestarsi alla tutela di diritti spettanti ai cittadini, nell’ambito delle quali si possono evidenziare standard prestazionali “misurabili ed esigibili”, e materie che non influenzano invece il godimento di tali diritti, non è facilmente sostenibile. E chi volesse farlo, verrebbe facilmente smentito dall’osservazione della realtà, che mostra una forte interconnessione e frequenti condizionamenti tra materie LEP e non LEP. L’esempio della protezione civile (materia non-LEP di cui tutte le Regioni intervenienti hanno chiesto l’immediata devoluzione) è eloquente: la diversa regolazione di questa materia in tutte le Regioni italiane, in assenza di standard prestazionali garantiti su tutto il territorio nazionale, può incidere direttamente sulla tutela della salute dei cittadini (materia LEP simbolo) nel caso in cui calamità naturali, come le recenti alluvioni o le pandemie, mettano direttamente a repentaglio l’incolumità e la salute dei cittadini.
In riferimento a questo punto, la sentenza si limita ad affermare che, «nel momento in cui il legislatore qualifica una materia come “no-LEP”, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Se, invece, lo Stato intende accogliere una richiesta regionale relativa a una funzione rientrante in una materia “no-LEP” e incidente su un diritto civile o sociale, occorrerà la previa determinazione del relativo LEP (e costo standard)».
Così facendo, con una decisione interpretativa di rigetto, la Consulta mantiene in vita la partizione delle materie in due elenchi, nonostante l’inconsistenza di questa distinzione: probabilmente, nell’ottica di non affossare (o inibire sul nascere) le trattative di alcune Regioni per il trasferimento immediato delle materie no-LEP (allude, seppur velatamente, a questa ipotesi il post di Tubertini su questo blog).
Il difetto più grave di questa sentenza, e sicuramente più pericoloso, riguarda però i finanziamenti. La vera ragione, inconfessata, che muove le richieste di maggior autonomia avanzate da alcune Regioni del Nord, le più ricche e produttive del paese, è la distribuzione delle risorse. Nello specifico, il controllo sui cd. “residui fiscali”, ossia la quota di gettito tributario prodotto sul territorio che eccede il finanziamento dei servizi erogati dallo Stato sul medesimo territorio. La tesi di fondo, peraltro molto contestata in letteratura, è che vi siano Regioni che pagano imposte in misura maggiore del valore dei servizi pubblici che ricevono da parte dello Stato centrale, e altre che ricevono servizi pubblici per un ammontare maggiore dei tributi che producono e versano all’erario centrale. Questa differenza, attiva o passiva, rappresenta il vero motivo del contendere, mimetizzato dietro pretese di maggiore funzionalità, miglior gestione, valorizzazione delle potenzialità territoriali inibite da un regime regionale uniforme.
L’idea di poter incidere ulteriormente sulla distribuzione delle risorse tra le Regioni ordinarie, imitando il modello delle Regioni a statuto speciale (e del regionalismo asimmetrico “alla spagnola”), è alla base del regionalismo differenziato tratteggiato dalla legge n. 86/2024.
Secondo la legge Calderoli, il finanziamento delle nuove funzioni deve basarsi sulla compartecipazione regionale ad uno o più tributi erariali maturati nel territorio della Regione. Com’è noto, le quote di compartecipazione ai tributi erariali maturati nel territorio regionale costituiscono la principale entrata tributaria delle Regioni a statuto speciale (RSS): per ciascuna RSS, lo statuto elenca le imposte erariali delle quali una quota percentuale è attribuita alla Regione, le aliquote eventualmente differenziate per ciascun tipo di imposta, la base di computo, le modalità di attribuzione.
La lacuna principale della sentenza è quella di non aver censurato la soluzione prescelta dal Governo che, per il finanziamento delle funzioni aggiuntive, punta su entrate sostanzialmente derivate anziché sui tributi propri, affidati all’autonomia (e alla responsabilità) delle Regioni differenziate. L’autonomia “politica” delle Regioni differenziate, infatti, dovrebbe essere accompagnata da una corrispondente autonomia finanziaria, intesa come capacità di generare risorse proprie attraverso il potere di regolare e gestire. In assenza di tale corrispondenza, cessa la responsabilità dell’autorità pubblica nei confronti delle popolazioni interessate all’esercizio della funzione. Su questo punto specifico l’intervento della Corte avrebbe dovuto essere più incisivo, stigmatizzando la perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost. (sul mancato richiamo ai principi dell’art. 119 Cost., v. il post di Pinelli su questo blog).
In conclusione, all’indomani della decisione della Consulta, alcuni aspetti chiave del regionalismo differenziato restano ancora senza risposta. Al punto che entrambe le fazioni “politiche” gridano vittoria alla lettura dei diversi passaggi della sentenza e tutti gli attori in campo, citando selettivamente alcuni capi della stessa, si sentono confermati nelle proprie posizioni.
La decisione assunta, da ultimo, sull’inammissibilità del referendum non aiuta – per usare un eufemismo – la comprensione del quadro d’insieme. Il fatto che lo stesso Giudice che, due mesi prima, aveva sottoposto la legge Calderoli ad un «massiccio effetto demolitorio», ora impedisca una pronuncia popolare che avrebbe potuto portare alla definitiva cancellazione della legge stessa, sgombrando il campo da ogni dubbio sulla sua residua legittimità e attuazione, non può che confondere le idee (sull’ammissibilità del quesito referendario, v. il post di Castelli su questo blog). E far pensare a tutti di essere, pro quota, dalla parte giusta.
Hanno tutti ragione, per quanto riguarda il regionalismo differenziato, o è la Corte costituzionale a non essere abbastanza chiara?
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