La Corte dei diritti dell’uomo, il diritto al clima stabile e il calcolo del Carbon Budget
di Annamaria Bonomo
Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”
La Grand Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, nella decisione sul caso KlimaSeniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera (Ricorso n. 53600/20), segna senza dubbio un passo avanti importante nel processo di rafforzamento degli strumenti giuridici utili al perseguimento degli obiettivi di stabilizzazione del clima, riconoscendo esplicitamente, per la prima volta in ambito Cedu, lo stretto collegamento tra i rischi connessi ai cambiamenti climatici e la tutela dei diritti umani garantiti dalla Convenzione. In particolare, la Corte di Strasburgo ha accertato che la prevenzione dei cambiamenti climatici costituisce parte integrante degli obblighi positivi degli Stati nella protezione dei diritti dell’uomo, in ragione degli effetti negativi che il surriscaldamento globale produce sulla qualità della vita degli individui e che quindi il mancato rispetto da parte della Confederazione Svizzera degli obblighi di riduzione delle emissioni climalteranti di origine antropica contenuti negli accordi internazionali comporta una violazione del diritto dell’uomo al rispetto della propria vita privata e familiare, assicurato dall’art. 8 Cedu.
Si tratta di una decisione dal grande potenziale, da subito contestata dal Parlamento svizzero, ma sicuramente destinata a condizionare le future decisioni della stessa Corte Edu (davanti alla quale pendono già due azioni che riguardano l’Italia (Uricchio e Deconto c. Italia e altri 32 Stati) e delle Corti nazionali (basti solo pensare al secondo grado della sentenza Giudizio universale).
La decisione costituisce un altro significativo tassello nel tormentato, ma affascinante, percorso di graduale costruzione di un sistema giuridico di supporto alla lotta al cambiamento climatico, il cui stato di irrequietezza è variamente alimentato tra l’incalzare dei movimenti di opinione, l’ambiguità degli accordi internazionali, i rigorosi Report periodici dell’IPCC e un ambizioso quadro regolatorio europeo in continua evoluzione. La vivacità del processo è testimoniata da un quadro variegato di decisioni giurisdizionali che, pur rientrando nel quadro delle azioni di “giustizia climatica” (sulla nozione M. Carducci), dirette a far valere la responsabilità di attori pubblici o privati per azioni o omissioni rispetto al fenomeno del cambiamento del clima, sono tra loro fortemente differenziate in ragione del contesto giuridico di riferimento, dell’autorità giurisdizionale adita o del tipo di provvedimento richiesto. Solo nell’arco dell’ultimo anno si registrano quattro importanti pronunce adottate dalla Sala del Contenzioso Amministrativo della Corte Suprema di Spagna, dal Tribunale belga, dal Tribunale di Roma a cui è seguita quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, che sono giunte, a distanza di pochi mesi, a decisioni dagli esiti inattesi e spesso per certi aspetti inconciliabili.
In questo quadro si inserisce la sentenza KlimaSeniorinnen che assume particolare rilievo in ragione proprio del ruolo interpretativo e politico della Corte di Strasburgo, che assume una posizione radicale sulla centralità della lotta al cambiamento climatico nelle politiche pubbliche ambientali, rimarcandone la vincolatività degli obiettivi, precisandone le modalità di realizzazione, ma, soprattutto, consacrando l’ingresso della ‘pretesa alla stabilizzazione del clima’ tra i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo.
Ma, come vedremo, i giudici di Strasburgo non si limitano solo a questo.
La vicenda è nota. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto il ricorso presentato dall’associazione svizzera delle donne anziane per il clima che lamentavano il comportamento omissivo della Confederazione elvetica rispetto agli impegni di progressiva riduzione delle emissioni climalteranti di natura antropogenica concordati nell’art. 2 dell’Accordo di Parigi e nell’art. 2 del Convenzione quadro sui cambiamenti climatici. Il ragionamento alla base della decisione è semplice: secondo la Corte, dall’accertamento dell’inadempimento del governo svizzero rispetto al dovere di adottare ed attuare azioni effettivamente idonee al raggiungimento dei propri prefissati obiettivi di riduzione di gas climalteranti, che sussiste in capo a tutti gli Stati aderenti all’Accordo di Parigi, discende la lesione del diritto umano alla vita e alla salute degli individui presidiato dall’art. 8 Cedu.
La sentenza è corposa (258 pagine) e affronta diverse questioni. Ci si limiterà a richiamare l’attenzione su due aspetti di interesse, destinati ad avere ripercussioni significative sul modo di affrontare le questioni climatiche in sede giurisdizionale.
Il primo aspetto è quello relativo al riconoscimento della pretesa alla stabilizzazione del clima come diritto fondamentale degli individui, che pur già affermato dalla celebre sentenza Urgenda, che aveva proprio fondato la base giuridica per le azioni di giustizia climatica sul riferimento agli artt. 2 e 8 della Cedu, riceve una consacrazione dalla Corte Edu che è destinata ad avere effetti rilevanti in termini ermeneutici sull’esercizio della giustizia climatica basata sulla tutela dei diritti umani (M. Montini). L’aver collegato per la prima volta le politiche di contrasto al cambiamento climatico alla tutela dei diritti dell’uomo (l’unico accenno normativo lo si trova nei Preamboli della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici del 1992 e dell’Accordo di Parigi del 2015) ha sicuramente offerto un forte boost alla questione climatica che, coerentemente alla natura di living instrument della Convenzione Edu che vive e cresce nell’interpretazione della Corte, entra, attraverso questa sentenza, tra i diritti dell’uomo come diritto-pretesa ad un clima salubre e stabile.
D’altro canto, è di tutta evidenza che nonostante un consensus statale, nonché scientifico, sul nesso di causalità che sussiste tra gli effetti negativi causati dai cambiamenti climatici e il godimento di alcuni diritti dell’uomo (su cui J. Peel, H. M. Osofsky), nessun riferimento esplicito al diritto umano all’ambiente e al clima sia stato mai inserito nella Convenzione. Se, come osserva Marco Magri nel suo post, forse non se ne ravvisava il bisogno, dal momento che “il diritto al clima inteso come situazione soggettiva è un diritto di adattarsi ai cambiamenti climatici che appartiene a ogni individuo in ragione della sua stessa esistenza”, in ogni caso l’aver inserito l’aspirazione ad un clima stabile nella prospettiva dei diritti offre l’occasione alla Corte di compiere un ulteriore passaggio e di agganciare l’obbligo di riduzione delle emissioni di gas serra non più al solo obiettivo generico di mitigazione climatica contenuto nei Nationally Determined Contributions ma, e questo è il secondo punto di interesse, di formalizzare il calcolo del Carbon Budget come parametro necessario e obbligatorio per la misurazione in concreto dell’esatto adeguamento da parte degli Stati agli impegni di riduzione delle emissioni da essi assunti negli accordi internazionali. Nel sistema climatico, lo ricordiamo, il calcolo del Carbon Budget indica la soglia di tollerabilità e sicurezza delle ulteriori emissioni antropogeniche di gas serra che possono essere immesse in atmosfera senza innalzare la temperatura oltre i limiti quantitativi e temporali consentiti. La Corte non solo ne richiama la centralità, ma dichiara che sussiste in capo a ciascuno Stato il “primary duty” di fornire responsabilmente, attraverso il calcolo del Carbon Budget nazionale (o altre modalità equivalenti), i dati utili a determinare il quantum di emissioni di carbonio che è in grado di immettere in atmosfera senza pregiudicare irrimediabilmente il diritto umano alla vita e alla salute degli individui assicurato dall’art. 8 Cedu (§549).
Ma perché è importante la consacrazione ad opera della Corte Edu del calcolo del budget di carbonio come parametro di valutazione delle azioni statali di contrasto al cambiamento climatico?
Per almeno due motivi. In primo luogo, nella consapevolezza che la mera affermazione di un diritto non sia sufficiente a garantirne la tutela, si introduce un fattore, calcolato sulla base dei dati forniti dalla scienza, che opera da sintomo dell’inadempimento delle obbligazioni climatiche da parte degli Stati e dunque, indirettamente, della tutela del diritto dell’uomo al rispetto della vita privata e familiare. Tale calcolo consentirà d’ora in avanti agli individui, alle associazioni, ma soprattutto alle Corti di verificare in termini tendenzialmente oggettivi l’ammontare della quota di emissioni di gas serra che ogni Stato è legittimamente autorizzato ad emettere in atmosfera. Nelle parole dei giudici di Strasburgo, “in assenza di qualsiasi misura interna che tenti di quantificare il bilancio di carbonio rimanente dello Stato convenuto (§ 572) la Corte ha difficoltà ad accettare che si possa ritenere che lo Stato stia adempiendo efficacemente il suo obbligo normativo ai sensi dell’art. 8 della Convenzione”. Ecco che, nella prospettiva della Corte Edu, il Carbon Budget permette di superare l’impasse e si pone come un parametro oggettivo di valutazione delle condotte statali, una premessa necessaria e non eventuale, di qualsiasi decisione su tempi e modi di contrasto all’emergenza climatica (§§ 539 e 550) (si veda M. Carducci).
In secondo luogo, il riferimento al Carbon Budget come parametro oggettivo e scientificamente fondato, per la valutazione della condotta dello Stato, consente alla Corte di pronunciarsi sul margine di apprezzamento di cui gli Stati dispongono nell’adempimento degli obblighi di riduzione delle emissioni e dalla cui maggiore o minore estensione dipende l‘intensità della protezione dei diritti umani eventualmente lesi. I giudici di Strasburgo ricordano che gli unici spazi di manovra riconosciuti dalla Convenzione Edu agli Stati riguardano la scelta delle misure concrete per proteggere i diritti e, dunque, rispetto alla lotta al cambiamento climatico, occorre distinguere tra i margini ristretti concessi agli Stati nella definizione degli obiettivi già contenuti nei trattati internazionali e la più ampia discrezionalità di cui essi dispongono, invece, nella scelta degli strumenti utili a raggiungerli (§543).
Per la protezione dei nuovi diritti legati al clima, la Corte, tuttavia, privilegia un approccio su misura (‘tailored approach’) che si serve delle conoscenze scientifiche relative al cambiamento climatico offerte dall’Ipcc per una verifica concreta della conformità dell’azione dei pubblici poteri (legislativo, esecutivo o giurisdizionale) rispetto alle obbligazioni climatiche (§550) A tal fine la corte definisce un test, composto da cinque fasi, una delle quali si fonda sul calcolo del Carbon Budget, il cui mancato adempimento da parte della Confederazione Svizzera viene dalla Corte qualificato come una “lacuna critica” (§ 573), idonea a determinare la violazione dell’art. 8 CEDU (§ 574).
Si tratta di un passaggio degno di nota, espressione di un approccio deciso della Corte Edu rispetto alla lotta al cambiamento climatico, perché d’ora in avanti i giudici nazionali, nel valutare le condotte statali, non potranno ignorare il calcolo del budget di carbonio residuo identificato da quello Stato e saranno ‘costretti’ ad uscire dalla logica precauzionale della “soglia di pericolo accettabile” genericamente individuata sulla base della “migliore scienza disponibile” (§550). In questa prospettiva, se l’omissione del conteggio del “bilancio di carbonio”, rappresenta di per sé il sintomo di una condotta materiale negligente nella tutela del diritto alla salute e a vivere in un ambiente salubre, quello che si ridimensiona significativamente è lo spazio di discrezionalità dei governi nel definire la propria politica di decarbonizzazione, non solo rispetto ai limiti esterni già fissati dai trattati internazionali, ma anche rispetto agli standard di condotta da adottare per perseguirli.
Detto dei punti di forza della sentenza, emergono anche dei profili di criticità.
È evidente che il riconoscimento del fattore del Carbon Budget come dato necessario e non bilanciabile della conformità di qualsiasi decisione nazionale intrapresa per l’adempimento agli obblighi climatici rispetto alla disciplina sui diritti umani non è senza conseguenze. Come è stato più volte affermato dalle Corti nazionali (si vedano più recentemente le citate decisioni della Corte Suprema di Spagna e del Tribunale di Roma), l’entità di riduzione delle emissioni per uno Stato è una scelta anche di tipo politico che i governi nazionali hanno difficoltà a fondare esclusivamente su di un parametro che, se pur validato da saperi scientifici, non tenga conto dell’impatto economico, sociale, lavorativo che gli effetti di scelte climatiche troppo ambiziose determinerebbero nella propria politica interna. L’ingresso nella human rights-based climate change litigation di un parametro come quello del Carbon Budget che riduce sensibilmente quel margine di apprezzamento di cui gli Stati, coerentemente con l’approccio bottom-up accolto dai trattati internazionali, sono abituati a disporre relativamente al quantum e al quomodo delle proprie azioni di mitigazione, rischia di tradursi in un criterio di valutazione eccessivamente rigido e di inasprire i conflitti.
Forse allora il Carbon Budget dovrebbe essere più opportunamente calcolato, oltre che sulla base di dati scientifici relativi alla quantità massima di carbonio che uno Stato può emettere per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di una soglia stabilita, anche tenendo conto di altri coefficienti, legati al contesto dello stato di riferimento ovvero alle esigenze del territorio, del tessuto sociale ed economico, del livello di industrializzazione, in altri termini venga commisurato alla capacita di quel determinato Stato di sopportare il perseguimento dell’obiettivo della decarbonizzazione senza comportare pregiudizi irrimediabili ai diritti umani dovuti al cambiamento climatico.
Resta dunque da stabilire se la spinta all’individuazione del Carbon Budget come parametro più concreto e oggettivo di valutazione delle azioni statali preordinate alla stabilizzazione del clima, forte del riconoscimento da parte della Grande Chambre della Corte di Strasburgo, potrà a cascata incoraggiarne l’applicazione nelle cause climatiche europee, oppure prevarrà l’esigenza di salvaguardare le prerogative del decisore politico, che in quanto titolare della sovranità che si assume la responsabilità della scelta deve, secondo la nota dinamica della ponderazione degli interessi, trovare il punto di equilibrio tra oggettività ed uniformità nella valutazione delle azioni di contrasto al cambiamento del clima e accettabilità democratica degli effetti spesso particolarmente restrittivi delle decisioni climatiche.
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