La governabilità senza contrappesi
di Camilla Buzzacchi
La presunta “micro” revisione costituzionale, che ha iniziato il suo iter parlamentare in vista della trasformazione della forma di governo parlamentare in un c.d. premierato, persegue un obiettivo che negli ultimi trent’anni ha acquisito crescente riconoscimento: la governabilità.
E già questo quadro mette in evidenza elementi di contraddizione: come già segnalato in altra sede, appare sorprendente, infatti, che una finalità – l’assolutizzazione della governabilità – che è destinata a cambiare volto al sistema pubblico sia il risultato di un intervento sulla Costituzione che si vanta di essere minimale, addirittura chirurgico. In vista del rafforzamento della governabilità, che si presume scaturire dalla stabilità – come argomenta la relazione di accompagnamento del ddl 935, proposto dal presidente del Consiglio e dal ministro per le riforme istituzionali – e dalla diretta legittimazione del vertice dell’esecutivo ad opera del popolo, si modificano radicalmente gli artt. 59, 88, 92 e 94, senza che la restante architettura dell’ordinamento venga riaggiustata nella prospettiva che è propria dello Stato costituzionale di diritto. Le attribuzioni attuali dei restanti organi costituzionali – Parlamento, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, ordinamento giudiziario – sembrano apparentemente intonse, dal momento che la revisione non riguarda le disposizioni sulle quali si fondano le loro prerogative: che sono di rappresentanza per il primo organo, di garanzia per il Capo dello Stato e la giurisdizione posta a tutela della Carta, e di presidio della legalità, con riferimento all’ordine dei magistrati.
Non basta non modificare le disposizioni riguardanti tutti i restanti organi che caratterizzano la forma di governo attuale per poter sostenere che le rispettive attribuzioni non risultano alterate dall’abbandono della forma di governo parlamentare. Come argomentato ormai da tanti studiosi, in sede di audizione e in interventi scientifici, Parlamento e Capo dello Stato escono nettamente ridimensionati, nei loro poteri, da un disegno di riforma che svuota la rappresentanza così come fondata sugli artt. 1, 48, 49, 67 e 94; che svuota la funzione di garanzia così come fondata sugli artt. 87, 88 e 92, se l’elezione diretta del presidente del Consiglio – di per sé scelta legittima e secondo alcuni auspicabile, come argomentato da Tommaso Edoardo Frosini – non viene accompagnata da opportuni aggiustamenti del sistema di equilibri e contrappesi tra le massime istituzioni.
Ma poiché si è partiti dal fine della governabilità, a questa sorta di mantra pare necessario dedicare qualche riflessione: a questo traguardo il sistema istituzionale e l’opinione pubblica sembrano aspirare fin dalla riforma in senso maggioritario della legge elettorale nel 1993. Sono seguite altre modifiche del meccanismo di scelta dei rappresentanti, tutte orientate a rafforzare la stabilità/governabilità – e in due casi oggetto di censura ad opera della Corte costituzionale – a costo di mortificare la rappresentanza; sono state concepite “macro” riforme della parte seconda della Costituzione, affossate poi da referendum costituzionali; e ora con una riforma che vuole avere l’immagine della “sobrietà” – la riscrittura di “appena” quattro disposizioni! – appare ormai vicinissimo il raggiungimento del traguardo.
La decisione di chi governa sarà premiata, libera da impacci, quale che sia il suo contenuto: che solo attraverso l’esercizio delle prerogative parlamentari di controllo politico e quelle presidenziali di controllo costituzionale può presentare le garanzie di essere una decisione che persegue l’interesse della comunità nazionale e si conforma ai vincoli della Carta, soprattutto quelli contenuti nella parte prima, e dunque fondamentalmente gli istituti a protezione delle libertà e dei diritti delle persone e delle formazioni sociali. La governabilità come intesa dalla proposta riformatrice promette la decisione che non deve affrontare la mediazione in sede parlamentare, né l’interlocuzione con il Rappresentante dell’unità nazionale, e questo esito viene presentato – si vedano le tante dichiarazioni pubbliche dei partiti della maggioranza – come il bene che il Paese aspetta con trepidazione e impazienza da anni. Mentre Francesco Bilancia si è interrogato su come si potrebbe rendere autenticamente efficiente il sistema decisionale, percorrendo ben altri itinerari.
La governabilità, sempre come intesa dai suoi convinti sostenitori in veste di riformatori, non assicura che la decisione sia conforme alla tutela delle posizioni soggettive – libertà civili e diritti sociali, oggetto di molteplici interventi in questa sede, ma anche doveri inderogabili, primo tra tutti quello tributario il cui mancato rispetto tanto indebolisce il sistema di finanza pubblica e, dunque, l’effettiva garanzia dei diritti – e ai principi che ispirano l’ordinamento repubblicano. Ecco perché non si può ritenere che il disegno di rifondazione della forma di governo non abbia ricadute ed effetti sulla forma di Stato: non sono categorie slegate, e il superamento dei contrappesi che il ddl 935 comporta – quali che siano le dichiarazioni di senso opposto che lo accompagnano – vanno inequivocabilmente ad incidere sulla forma di Stato. Sarà dunque diversa la concezione del potere e dei suoi rapporti con la persona umana, probabilmente distante da quanto gli artt. 2 e 3 Cost. ora proclamano.
Un’ultima riflessione va dedicata all’asserita dipendenza della agognata governabilità – percepita sempre più come la decisione, quale che sia, purché si decida – dalla stabilità, orizzonte rispetto al quale Stefano Civitarese Matteucci ha proposto precedenti riflessioni. Parrebbe che solo una forte maggioranza parlamentare sia la condizione per l’assunzione delle decisioni. Per questo ben due leggi elettorali, poi dichiarate incostituzionali, avevano individuato premi di maggioranza idonei a consolidare una base parlamentare che assicurasse completa stabilità. Sul presupposto che il problema della fragilità di una maggioranza parlamentare sia numerico, e non politico.
Sulla base della convinzione che la questione sia invece da impostare in maniera esattamente opposta, come per esempio illustrato da Roberto Bin, pare di poter sostenere che anche maggioranze stabili – come l’attuale – dimostrano una discutibile governabilità. La decisione non dipende solo dai numeri – quelli di una maggioranza in Parlamento, data da nutrite coalizioni o da premi di maggioranza – ma da fattori di varia natura che nessuna regola costituzionale può condizionare. Cosicché la dichiarazione di una sicura garanzia di governabilità – intesa come certezza, e non qualità, della decisione – collegata a questa proposta di riforma non dice il vero. Prova ne siano alcune decisioni che tale governo, pur con una solida maggioranza parlamentare – supposta condizione di stabilità – non è stata in grado di assumere. Vari passaggi “non” decisionali dell’attuale governo attestano l’incapacità di decidere: gli esempi più eclatanti sono stati l’ipotesi di tassazione sugli extra profitti delle banche e l’ipotesi dei tagli delle pensioni dei medici, rispetto ai quali l’inversione della decisione è stata chiara. Senza entrare nel merito delle misure che si volevano promuovere, il dato è quello di un Governo che non ha potuto decidere. Evidentemente i numeri non bastano quando la decisione appare non gradita a gruppi di interesse, non opportuna in relazione a rapporti internazionali ed europei, non favorevole ai fini del consenso….: cosicché anche la maggioranza numerica più solida non è condizione sufficiente – oltre che necessaria – a portare a termine l’assunzione della decisione.
Se, sulla base di questi sintetici argomenti, è vero che stabilità non assicura governabilità; e che la governabilità non garantisce decisione equilibrata nella legittimità e nel merito, rimane da osservare che un premier con legittimazione diretta, che potrà ignorare la rappresentanza parlamentare, appellandosi all’appoggio popolare di cui gode; e che potrà sottrarsi ai rilievi del Capo dello Stato, dotato di una legittimazione indiretta e dunque più debole, suscita una quantità di preoccupazioni. L’esaltazione dell’entità del popolo – e della sua volontà – per fondare un potere senza contrappesi rischia di condurre ad un’esaltazione della decisione pubblica capace di superare i limiti che il costituzionalismo ha sempre preteso porre al potere.