La psicopatologia dei dottorandi di ricerca. Note su un recente rapporto
di Giulio Vesperini
L’Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia-ADI ha pubblicato un interessante rapporto su “Psicopatologia del dottorato di ricerca. Undicesima indagine ADI sulle condizioni di lavoro e la salute mentale nell’ambito del dottorato di ricerca. Rapporto finale e analisi stratificata”, (Roma, gennaio 2024).
L’indagine, di 142 pagine, è strutturata nel seguente modo. Alla prefazione e al quadro di sintesi della ricerca, seguono sei capitoli (quello introduttivo; i capitoli aventi a oggetto, rispettivamente, la situazione economica e abitativa, l’analisi delle condizioni di lavoro, il precariato e le prospettive di carriera, il dottorato e la salute mentale; il capitolo conclusivo); la bibliografia; quattro appendici.
L’obiettivo dell’ADI è quello di colmare l’assenza di indagini di questo tipo sul dottorato in Italia e di porre le basi per “un intervento sistemico sulle cause del malessere psicologico” dei dottorandi.
Il rapporto analizza la condizione economica e lo stato di salute mentale dei dottorandi iscritti ai cicli in corso nella primavera 2022 (quelli dal 36° al 38°). Si avvale dei dati ufficiali sul costo della vita e degli affitti nelle principali città italiane; delle risposte date da oltre 7.000 dottorandi (circa un sesto della “popolazione dottorale” totale) a un questionario diffuso nei mesi di aprile e maggio 2023; di un set articolato di indicatori per misurare ciascuno degli elementi esaminati e la loro variazione nel corso del triennio di durata del ciclo di ciascun dottorato. Organizza questi dati in tabelle e istogrammi.
Per un verso, poi, l’indagine conferma le gravi difficoltà economiche nelle quali versano i dottorandi di ricerca in Italia, già esaminate dall’indagine dell’anno precedente (X Indagine ADI, F. Chiariotti, T. Brollo, G. Camagni, L. Giovinazzi, “La condizione salariale. Decima Indagine ADI sulle condizioni di lavoro nell’ambito del dottorato di ricerca. Rapporto finale e analisi stratificata”, Roma, 2023). Per un altro verso, esamina ulteriori aspetti che consentono di avere una conoscenza più ampia delle condizioni economiche e di lavoro dei dottorandi: la situazione abitativa, la distanza dalla sede di lavoro, la qualità della supervisione e l’ambiente di lavoro, ecc.
Infine, l’indagine analizza gli effetti delle difficoltà economiche e lavorative sul benessere psicologico dei dottorandi e misura il rischio di ansia, depressione e stress al quale essi sono sottoposti.
Le principali conclusioni sono di due tipi: di seguito, queste sono sommariamente illustrate e commentate, ma saranno approfondite da specifici post.
Innanzitutto, circa la metà dei dottorandi che hanno risposto al questionario è ad alto rischio di ansia, depressione e stress. Le cause di questo malessere psicologico sono numerose e spesso operano congiuntamente tra loro: la precarietà economica e contrattuale; l’eccessivo carico di lavoro; la cattiva organizzazione del lavoro di ricerca e, in particolare, i problemi di interlocuzione con il supervisor; l’incertezza circa il futuro lavorativo; la frustrazione del desiderio di proseguire, dopo il dottorato, il lavoro di ricerca nell’università. Queste dinamiche colpiscono ancor più duramente le donne, i dottorandi delle aree umanistiche, quelli degli atenei meridionali o, comunque, quelli che, provenendo dal Sud, siano ammessi a un corso di dottorato di un ateneo del Nord.
Sotto questi aspetti, l’indagine è di grande interesse e costituisce un importante contributo alla conoscenza della condizione reale dei dottorandi di ricerca.
Un secondo ordine di conclusioni si pone sul diverso piano della denuncia e della contestuale proposta di misure a favore dei dottorandi. Di seguito, queste conclusioni sono illustrate, integrate, commentate; si identificano, poi, i problemi che le stesse pongono.
L’assunto base è il seguente: “il dottorato di ricerca non garantisce un presente dignitoso, né un futuro stabile”. Non garantisce “un presente dignitoso”, innanzitutto, perché la borsa minima fissata dal MUR, e percepita dalla maggioranza dei dottorandi, è più bassa di quasi il 25% rispetto al guadagno dei laureati magistrali che non hanno il dottorato; negli ultimi tre anni, inoltre, essa ha perso circa il 10% del proprio potere d’acquisto; ancora, il costo della vita nelle città universitarie è nettamente superiore alla media nazionale, soprattutto in ragione dell’elevato costo degli affitti; infine, tre dottorandi su quattro non riuscirebbero a sostenere una spesa imprevista di 800€, mentre solo il 43% di essi riesce a risparmiare almeno 100€ al mese, dopo aver provveduto alle spese indispensabili.
Alla denuncia segue la proposta: “considerando la competizione per l’accesso ai posti di dottorato, la popolazione dottorale può ragionevolmente richiedere un salario vicino o superiore alla media nazionale”. La richiesta è ragionevole ed è in funzione non solo dell’interesse individuale del dottorando a migliorare la propria situazione economica, ma anche di quello collettivo all’accesso dei giovani alla ricerca.
Il “presente è poco dignitoso”, anche in ragione della “crescente pressione [alla quale sono sottoposti i dottorandi] verso la produttività”. Questo spiega perché l’ambiente di lavoro sia molto competitivo e stressante: la gran parte dei dottorandi lavora più di 40 ore settimanali, mentre una quota rilevante di essi supera addirittura le 50 ore. L’assenza di un contratto di lavoro consente ai supervisor e ai collegi dei docenti del dottorato di imporre ai dottorandi questi ritmi, meno per una reale esigenza formativa, più per consentire al dottorato di avere buone valutazioni e conseguire fondi.
Queste considerazioni trovano almeno due tipi di riscontri.
Quello normativo (art. 13, d.m. n. 226/2021), per cui i corsi di dottorato ricevono il finanziamento del MUR, anche in base alla “produttività” e della “qualità” dell’attività di ricerca svolta dai dottorandi e dai dottori di ricerca. Quindi, maggiore è il numero di pubblicazioni dei dottorandi, maggiore è la possibilità per il dottorato di ricevere finanziamenti.
Quello reale, ben illustrato in “Surge in number of ‘extremely productive’ authors concerns scientists” (Nature 11 dicembre 2023): l’aumento del numero di autori “estremamente produttivi”, specialmente nei c.d. settori bibliometrici, è un fenomeno mondiale; tocca, in modo particolare, l’Italia; è guardato con sospetto da molti scienziati “per il timore che alcuni ricercatori ricorrano a metodi dubbi per pubblicare ulteriori articoli”.
Anche qui alla denuncia segue la proposta: regolare per contratto i diritti e i doveri del dottorando, i limiti (e i relativi controlli circa il loro rispetto) da porre ai supervisor e ai collegi di dottorato. Questo rimedio è di dubbia efficacia: tutti gli aspetti elencati sono già disciplinati da regolamenti (quello governativo e quelli delle singole università). Il passaggio dalle fonti pubblicistiche a quella contrattuale, di per sé, difficilmente potrebbe garantire una maggiore effettività delle regole.
L’indagine lamenta poi “l’incertezza totale verso il futuro”, soprattutto di quanti intendono rimanere all’università: “la precarietà endemica all’ambiente rende impossibile persino sapere in quale città si vivrà, rinviando la stabilità economica e personale spesso oltre la soglia dei 35 anni”. In questo caso, peraltro, la denuncia assume toni molto aspri: l’incertezza del futuro rappresenta “un ulteriore fattore di stress e strumento di ricatto”; più in generale, “buona parte del lavoro di ricerca è basato sullo sfruttamento: queste dinamiche sono il principale motore di un sistema accademico al collasso sotto il peso del mancato ricambio e del sottofinanziamento cronico, oltre a innestarsi su relazioni di lavoro di tipo baronale già endemiche all’università italiana”.
Possono essere fatti tre tipi di commenti a questa considerazione.
Innanzitutto, si può ricordare che chi intende proseguire l’attività di ricerca nell’università, dopo il dottorato, ha due principali possibilità. La prima è quella di concorrere per un assegno di ricerca (art. 22, l. n.240/2010). La disciplina, pur modificata dalla l. n. 79/2022, con l’introduzione della figura affatto differente del contratto di ricerca, è stata prorogata fino al 31 luglio 2024. Nel testo dell’audizione al Senato dei rappresentanti della stessa ADI del gennaio 2023 si legge: “Nonostante nelle intenzioni originarie del legislatore gli assegni fossero una figura residuale, ad oggi, secondo i dati del M[UR], vi sono più di 15.700 assegnisti di ricerca in Italia. La figura dell’assegnista rappresenta tuttavia una delle forme di impiego del comparto universitario più precarie”.
In secondo luogo, un dottore di ricerca può concorrere per il contratto di ricercatore a tempo determinato, della durata massima di sei anni, non rinnovabile (art. 18, l. n. 240/2010). Tuttavia, anche dopo la riforma del 2022, la figura del ricercatore a tempo determinato è una figura precaria. La decisione di bandire il contratto, infatti, dipende sia dalle disponibilità finanziarie dell’università, sia dalla proposta del dipartimento interessato (di fatto, più spesso, del professore titolare della materia): sotto questo ultimo profilo, quindi, può essere fondata la preoccupazione che il dottorando sia esposto a condizionamenti di vario tipo per poter ottenere che sia bandito un concorso nel suo settore scientifico disciplinare.
Un secondo ordine di commenti muove dalla nuova disciplina dettata nel 2021 (d. m. n. 226/2021) per le modalità di accreditamento dei dottorati e i criteri per l’istituzione dei corsi relativi da parte degli enti accreditati. Tra l’altro, in attuazione degli indirizzi del PNRR, il nuovo regolamento ha modificato la disciplina del 2013 (d.m. n. 45/2013) con riferimento alle finalità del dottorato. Secondo questa ultima, infatti, il dottorato “fornisce le competenze necessarie per esercitare attività di ricerca di alta qualificazione presso soggetti pubblici e privati, nonché qualificanti anche nell’esercizio delle libere professioni (…)”. Diversamente, nella disciplina del 2021, “il dottorato di ricerca fornisce le competenze necessarie per esercitare, presso università, enti pubblici o soggetti privati, attività di ricerca di alta qualificazione, anche ai fini dell’accesso alle carriere nelle amministrazioni pubbliche e dell’integrazione di percorsi professionali di elevata innovatività”. In questo modo, come si è osservato, si spostano i dottorati, almeno in parte, fuori dell’università, con la conseguenza di privilegiare una formazione dottorale “nel sistema produttivo, nella pubblica amministrazione e nell’ambito delle libere professioni”, piuttosto che nelle istituzioni della ricerca.
In prospettiva, pertanto, la diversa considerazione del dottorato di ricerca nell’ordinamento giuridico comporta una valutazione più articolata, rispetto al passato, delle prospettive di lavoro dei dottorandi e, conseguentemente, del grado del loro soddisfacimento.
A quanto appena detto, si lega un terzo ordine di considerazioni. Dal Report 2023 di Almalaurea, circa la Condizione occupazionale dei dottori di ricerca, risulta che a un anno dal conseguimento del titolo, il tasso di occupazione dei dottori di ricerca è pari al 90,9% (sale a 91.6% a tre anni dal titolo). Il valore, per i diplomati da un anno, aumenta di 1,9 punti percentuali rispetto all’indagine del 2019. I livelli occupazionali dei dottori di ricerca, inoltre, risultano decisamente più elevati di quelli registrati tra i laureati di secondo livello (nel 2022, 77,1%). Pertanto, la formazione dottorale aumenta in modo significativo la possibilità di trovare una occupazione.
Questa disparità può essere apprezzata anche sul piano retributivo. La retribuzione mensile netta dei dottori di ricerca (che hanno trovato un’occupazione) è pari, in media, a 1.836 euro (sale a 1.916, a tre anni dal titolo), più elevata di quella dei laureati di secondo livello, che, a un anno della laurea, guadagnano in media 1.366 euro, mentre a cinque anni 1.697 euro. Quindi, se, come osserva l’indagine ADI, durante lo svolgimento del dottorato, la maggioranza dei dottorandi percepisce una retribuzione più bassa di quasi il 25% rispetto a quella dei laureati che hanno fatto scelte diverse, il rapporto tra gli uni e gli altri si capovolge quando il dottore di ricerca entra nel mercato del lavoro.
Questi dati permettono di attenuare il giudizio dell’ADI circa l’“incertezza totale” delle future prospettive lavorative dei dottori di ricerca. Le indagini compiute da Almalaurea dimostrano, per converso, che il possesso del titolo aumenta le possibilità di trovare lavoro, assicura una retribuzione più elevata e migliora le condizioni di lavoro di quanti erano già occupati prima dell’inizio del dottorato.
Al tempo stesso, però, il rapporto Almalaurea fornisce una informazione solo generica sugli sbocchi occupazionali dei dottori di ricerca nell’università: si limita, infatti, a riferire che il 46,9% dei dottori di ricerca è un “ricercatore o un tecnico laureato” nell’università (a tre anni, questa percentuale si riduce al 42,9%). Ma si tratta di una informazione approssimativa: sia perché non si distingue tra la posizione del ricercatore e quella del tecnico laureato, sia perché non si forniscono indicazioni specifiche sulla accezione accolta del termine “ricercatore”.
L’informazione, tuttavia, è interessante, perché mostra che questi sono meno della metà di quanti hanno una occupazione e che questa percentuale scende nel corso del tempo. Si può formulare l’ipotesi, infatti, che i dati reali rappresentino una conferma di un passaggio importante dell’indagine ADI, quello nel quale si registra che, nel corso del dottorato, l’ambizione di rimanere nel mondo accademico diminuisce in modo significativo: all’inizio rappresenta un obiettivo di carriera per la maggioranza della popolazione dottorale (il 52,1%); ma nel corso del triennio questa stessa ambizione diminuisce per il 78,5% del campione, aumenta leggermente solo per il 6,2%, mentre in nessun caso aumenta significativamente.