La via maestra per combattere la povertà

di Giacomo Cucignatto

Il contributo di Giacomo Cucignatto, Dottore di Ricerca in Economia con indirizzo in Sistemi produttivi e Politiche Pubbliche presso l’Università di Roma Tre, si inserisce all’interno di una serie di contributi organizzati dalla Redazione di Orizzonti del Diritto Pubblico in vista del seminario Dal reddito di cittadinanza (all’italiana) al reddito universale di base?, che si terrà lunedì 20 dicembre 2021, alle ore 15.00. Giacomo Cucignatto, inoltre, sarà nostro ospite alla tavola rotonda Reddito di cittadinanza: quali prospettive?, organizzata dalla Redazione di Orizzonti ed in programmazione nei prossimi giorni.


In vista della tavola rotonda Reddito di cittadinanza: quali prospettive? organizzata da Orizzonti del Diritto Pubblico, mi è stato chiesto di introdurre il Job Guarantee, una misura di politica economica diversa dal Reddito di Cittadinanza, con cui condivide tuttavia uno dei suoi obiettivi, ossia la riduzione della povertà.[1]

Il Job Guarantee è una misura che affonda le sue radici nella storia del pensiero economico del Novecento e nel corso del tempo è stata più volte rielaborata. Ciò spiega, almeno in parte, la varietà di denominazioni che ha caratterizzato tale proposta. Se rimaniamo nel framework inglese, la proposta originale di Hyman Minsky dello Stato come Employer of Last Resort è stata sostituita negli ultimi anni con espressioni quali Public Service Employment (PSE), Buffer Stock Employment (BSE) e soprattutto Job Guarantee (JG). Nel contesto italiano, uno dei primi promotori della proposta fu Federico Caffè e si è spesso utilizzato espressioni quali Datore di Ultima istanza e Lavoro garantito. Negli ultimi anni è stata anche avanzata una proposta ibrida denominata lavoro di cittadinanza. Riteniamo tuttavia che Garanzia universale di lavoro sia una denominazione più rispondente alle caratteristiche teoriche della misura.

La misura consiste infatti in un programma pubblico di creazione diretta di lavoro, che impiega su base volontaria tutte le persone che siano in grado di lavorare, così come sono, a prescindere dalle loro competenze e senza alcun tipo di condizionalità. In altre parole, una garanzia universale di lavoro fornita dallo Stato.

La Garanzia di lavoro consentirebbe da un lato il raggiungimento e il mantenimento della piena occupazione, dal momento che eliminerebbe la disoccupazione involontaria offrendo a chiunque sia alla ricerca di un impego un lavoro retribuito. Dall’altro, questa misura comporterebbe anche l’introduzione di un salario minimo sostanziale in corrispondenza del salario di base orario stabilito dallo Stato all’interno del programma, poiché nessun lavoratore sarebbe più disposto a percepire una retribuzione inferiore presso altri datori di lavoro, una volta introdotta tale garanzia.[2]

Dopo decenni di bombardamento mediatico da parte degli economisti mainstream – riconducibili all’approccio della Nuova Sintesi Neoclassica, tutto questo sembra fantascienza. Il mantra secondo cui è solo l’impresa che crea lavoro viene demolito all’interno di questo approccio, che promulga l’idea di uno Stato che crea tutti quei posti di lavoro che sono necessari a eliminare definitivamente la disoccupazione involontaria. Tale proposta va interpretata come una delle risposte economiche all’abbandono generalizzato, a partire dagli anni ‘80, della piena occupazione tra gli obiettivi politici essenziali perseguiti dall’intervento dello Stato. In quanto tale, la proposta non può che essere valutata simpateticamente da coloro che ritengono tale obiettivo una condizione imprescindibile al fine di garantire condizioni materiali dignitose al maggior numero di persone possibile.  Le domande che a questo punto potrebbero assalire i lettori sono molteplici.

Come si finanzia?

Il finanziamento avverrebbe come tutte le altre politiche pubbliche, ossia attraverso uno stanziamento che grava sul bilancio dello Stato e stabilito dal Parlamento. Nonostante un costo lordo iniziale ingente – oltre 90 miliardi di euro per l’economia italiana, dieci volte il costo del Reddito di Cittadinanza, secondo le mie stime – le risorse finanziarie nette oscillano intorno a un punto di Pil (18 miliardi), una volta considerato il moltiplicatore.

In altre parole, il programma si pagherebbe in gran parte da sé. La temporanea sospensione del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) in seguito alla crisi pandemica dimostra dunque che la questione del finanziamento non costituisce un ostacolo tecnico insormontabile, anche nel contesto europeo, qualora maturi la volontà politica di estendere in modo permanente la sospensione del PSC. 

Quali impieghi sono previsti nel programma?

Già Minsky individuava nei servizi ad alta intensità di lavoroi settori maggiormente interessati da questa strategia per l’occupazione pubblica, in particolare quelli che danno luogo a benefici pubblici visibili nel breve periodo. I moderni sostenitori della proposta – in particolare gli economisti della MMT – hanno elaborato una classificazione precisa di quali impieghi dovrebbero essere generati nel programma, includendo tra questi iservizi di cura dell’ambiente, della persona e delle comunità. Il ribaltamento di paradigma rispetto all’approccio odierno non potrebbe essere più evidente.

Se il sistema economico deve essere costruito intorno alle esigenze delle persone, e non viceversa, il programma è costruito per generare impieghi che diano risposte alle domande sociali più urgenti: un rapporto più equilibrato con l’ambiente che viviamo in termini di ripristino del verde, qualità dell’aria e sicurezza idrogeologica, l’assistenza delle persone anziane, dei bambini e dei disabili, il rafforzamento delle comunità locali.

Quali i principali beneficiari?

Va segnalata dunque la funzione che la Garanzia di lavoro potrebbe svolgere rispetto a un processo di transizione ecologica davvero rispondente all’interesse generale. Posto che tale transizione genererà anche ripercussioni occupazionali negative in comparti finora centrali (si pensi al settore auto dopo il superamento dei motori termici o al comparto energetico, che vedrà la chiusura degli impianti a carbone a stretto giro e la graduale riduzione del settore del gas), il programma potrebbe rappresentare un’ancora di salvezza per tutti quelli che perderanno il proprio posto di lavoro.

Infine, il Mezzogiorno, i giovani e le donne possono essere individuati come i principali beneficiari del programma, poiché questo configura una politica fiscale espansiva concentrata nelle aree economiche con maggiore disoccupazione e si concentra in particolare sui servizi di cura della persona, principalmente a carico delle donne.

Ma se fosse davvero così facile, perché nessuno lo propone?

Di fronte a un libro dei sogni, i più pragmatici potrebbero storcere il naso. Ci sono due modi di rispondere a questo interrogativo. Il primo riguarda i diversi interessi sociali in gioco. Da molti decenni la piena occupazione non è più un obiettivo prioritario di politica economica nei paesi avanzati, poiché comporta rapporti di forza eccessivamente favorevoli al mondo del lavoro, dal punto di vista delle imprese. Queste ultime, qualora il programma fosse implementato, dovrebbero peraltro affrontare un rialzo generalizzato dei salari, che rientrano tra i propri costi di produzione. Senza organizzazioni partitiche e sindacali che abbiano la piena occupazione come stella polare del proprio agire politico, difficilmente proposte come questa potranno uscire dal dibattito accademico.

Un secondo modo di rispondere è quello di introdurre alcune delle problematiche economiche associate alla proposta, le quali devono essere tenute in considerazione per non cadere in facili entusiasmi. Inflazione, vincolo estero ed efficienza della Pubblica Amministrazione, solo per menzionare quelle prioritarie. Significa dunque che la Garanzia di lavoro non è davvero realizzabile? Tutto il contrario, questo programma deve essere inserito all’interno di un disegno complessivo di riforma del sistema economico in grado di fronteggiare tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento della piena occupazione.

Come si lega la Garanzia di Lavoro al Reddito di cittadinanza?

Il reddito di cittadinanza è un sostegno pubblico al reddito alle famiglie sotto una certa soglia ISEE. In ambito economico, tale misura rientra nella categoria del Reddito minimo garantito, presente nella stragrande maggioranza degli Stati membri dell’Unione europea.

La tendenza nel dibattito economico è quella di polarizzare il discorso intorno a due bandiere: reddito contro lavoro, redditisti contro lavoristi. Dal nostro punto di vista, invece la Garanzia di lavoro – e più in generalele politiche per il pieno impiego – e il Reddito minimo rappresentano due misure economiche del tutto complementari. Storicamente, infatti, sono le economie con strutture produttive e occupazionali solide che hanno sviluppato forme avanzate di welfare; più persone lavorano e hanno salari dignitosi, maggiore sarà il sostegno che le finanze pubbliche potranno dedicare al sostegno al reddito per i cittadini più bisognosi.

In secondo luogo, gli stessi dati relativi ai beneficiari del Reddito di Cittadinanza in Italia ci dimostrano che non tutti sono “attivabili” sul mercato del lavoro, ossia in grado di lavorare. Su più di 3 milioni di beneficiari, poco più di 1 milione è tenuto a sottoscrivere un Patto per il lavoro e anche tra questi ultimi solo una quota parte ha qualche possibilità di trovare effettivamente un impiego. In società complesse e composte da milioni di persone vi sarà sempre una certa quota della popolazione che per svariate ragioni rimarrà al di fuori del mercato, pur essendo in età da lavoro. Nessuna società civile può pensare di permettersi di lasciare tali persone sprovviste del minimo indispensabile per la propria sopravvivenza.


[1] Per una trattazione estesa e una valutazione d’impatto del Job Guarantee sull’economia italiana rimando alla mia tesi di dottorato, Un’analisi input-output del Job Guarantee e della Strategia nazionale per l’idrogeno nell’economia italiana (Cucignatto, 2021).

[2] Parafrasando Minsky, nel caso del salario minimo legale – di cui si discute in questi anni in Italia – il salario minimo effettivo è pari a zero, dal momento che sussiste la disoccupazione involontaria.