L’accordo con Starlink: una minaccia per la sovranità tecnologica e democratica?
di Giovanna Pistorio
Università degli Studi Roma Tre
Basta alzare gli occhi al cielo per vederli. Quasi ogni settimana e con ritmi sempre più incessanti.
Non sono UFO, ma “treni” di satelliti. Sono migliaia di satelliti miniaturizzati che, prodotti in massa dall’azienda aerospaziale SpaceX e collocati in orbita terrestre bassa, formano la costellazione di Starlink. Una costellazione che, nata per garantire l’accesso a internet in banda larga e bassa latenza, opera nei settori più disparati: dalla difesa, alla logistica, passando per le comunicazioni interne, di carattere militare, politico e di intelligence.
La semplice curiosità, unita a qualche dubbio, diventa preoccupazione quando la costellazione “si avvicina” all’Italia. Il 5 gennaio 2025 trapela infatti un’indiscrezione: il Governo italiano ha avviato una trattativa per un accordo quinquennale da 1,5 miliardi di euro con SpaceX, volto all’utilizzo della rete Starlink. Palazzo Chigi smentisce la firma di un contratto, ma non le trattative in corso; Elon Musk, proprietario della costellazione, tra allusioni e affermazioni, si dichiara propenso a una attiva e proficua collaborazione con l’Italia.
Tra il detto e il non detto, la notizia corre e le perplessità divampano.
Sebbene siano molte le opportunità che si celano dietro tale progetto, i dubbi preoccupano in modo considerevole.
Vediamone le ragioni.
Starlink è la costellazione satellitare progettata da SpaceX, per garantire una copertura globale e continua delle comunicazioni internet ad alta velocità. Il progetto prende forma nel 2015. Dopo quattro anni, i primi sessanta satelliti vengono portati con successo in orbita, tramite i razzi Falcon 9. A marzo 2021, i satelliti diventano mille e quattrocentotrenta tre. Ad oggi, sono più di sette mila. Obiettivo del 2025: superare la soglia dei diecimila, sfiorando i dodicimila.
I vantaggi sono considerevoli.
La rete satellitare consente una copertura senza infrastrutture terrestri. Facciamo un esempio per comprendere la portata dell’innovazione. Avvalendosi delle tecnologie oggi esistenti, per portare internet al polo nord, si dovrebbe portare un cavo fino al polo nord. Starlink, utilizzando una rete satellitare, risolve il problema. Ma c’è di più. La costellazione è collocata a circa cinquecento Kilometri dalla Terra. Una distanza davvero minima, se pensiamo che i satelliti geostazionari, per il meteo e per il GPS, si trovano a circa trentacinque mila kilometri di distanza. Ecco allora che i LEO (Low Earth Orbit) di Starlink, molto vicino alla superficie terrestre, sono in grado di consentire che lo scambio globale delle comunicazioni avvenga in modo rapidissimo. Non solo. Maggiore è il numero dei satelliti, migliore le probabilità di una connessione stabile, sicura e capace di raggiungere qualsiasi utente, in ogni angolo del Pianeta.
Garantire ovunque l’accesso a Internet si rivelerebbe una preziosa conquista.
Sappiamo bene infatti che la Rete oggi è causa di nuove forme di esclusione sociale. Anche in Italia, le infrastrutture informative e la copertura di rete operano in modo profondamente disomogeneo tra Nord e Sud e con evidenti differenze tra zone rurali e zone urbane. Il digital divide che ne consegue si ripercuote inevitabilmente sulla partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica, sociale del Paese, tenuto conto che il dirompente impatto delle nuove tecnologie ha ormai portato a quella compenetrazione sì evidente tra dimensione on line e dimensione off line, da ritenere che il pieno sviluppo della vita umana avvenga onlife. In questo contesto, l’accordo con Elon Musk potrebbe rivelarsi lo strumento che consente, nella realizzazione del progetto di eguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, comma 2, Cost., la rimozione di un ostacolo all’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali.
Diritti e libertà che lo Stato deve tutelare, tenuto conto dell’incrementare e dell’evolversi dei rischi e delle minacce alla sicurezza. D’altra parte, i rischi, diversi per origine, forza e natura, sono prevedibili o inaspettati e si sviluppano in un contesto reale, interno e sovranazionale e in un contesto virtuale, immenso e senza confini. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alle minacce legate all’industrializzazione, agli attacchi terroristici, ai reati informatici, alle insidie nella rete. Nella società mondiale del rischio, lo Stato deve rafforzare la resilienza delle infrastrutture critiche per garantire un più elevato livello di sicurezza e di cybersicurezza, intesa come sicurezza trasversale delle reti e degli utenti nella rete.
Ecco allora che, in tale contesto, Starlink si mostra indubbiamente competitivo. A differenza delle tradizionali infrastrutture terrestri, i satelliti di Elon Musk non sono vulnerabili a guasti fisici su larga scala. Emblematici esempi hanno confermato l’efficacia e l’efficienza di Starlink quando, in situazioni emergenziali, è stata utilizzato in soccorso o in sostituzione delle reti tradizionali, compromesse o distrutte. È stata Starlink a giocare un ruolo cruciale, consentendo il ripristino della connessione, nel 2023, a seguito dei problemi derivanti dalle alluvioni in Emilia-Romagna, nel 2024, in risposta alle conseguenze derivanti dal bradisismo nel Campi Flegrei e poi, nello stesso anno, negli Stati Uniti, in Carolina del Nord, per risolvere i danni provocati dall’uragano Helene.
Superiore rispetto ai sistemi terrestri, in termini di performance e di cyber resilienza, Starlink offre, dunque, un cambio di paradigma a livello globale.
Quali i dubbi, allora?
Sul piano scientifico, i satelliti ostacolano il lavoro degli astronomi. Migliaia di corpi artificiali affollano i cieli e riflettono la luce, incidendo sulle immagini della volta celeste. Risultato: rendono più difficili le osservazioni.
Sul piano ambientale, preoccupa l’impatto dei lanci, delle possibili collisioni e dei rientri dei satelliti dallo spazio. Ogni razzo, concluso il suo compito, brucia in parte o in tutto nell’atmosfera, rilasciando polveri di metalli inquinanti, come l’ossido di alluminio che corrode lo strato di ozono. Stesso effetto deriva dalla c.d. pioggia di satelliti che sta attraversando l’atmosfera terrestre. Più di cinquemila satelliti, giunti alla fine della loro vita, sono rientrati. Prima di toccare il suolo, però, i dispositivi, disintegrandosi, a causa dell’attrito con l’aria, liberano polveri inquinanti, la cui concentrazione nell’atmosfera risulta aumentata di otto volte tra il 2016 e il 2022 (sulla base di quanto risulta da studio condotto nel 2024 su Geophysical Research Letters). Tenuto conto che, a partire dall’inizio del 2025, i satelliti rientrano con una media di quattro al giorno, appare davvero problematico l’impatto ambientale. All’inquinamento causato dal lancio dei satelliti e dai rientri dallo spazio, si aggiunge poi quello derivante dai detriti spaziali provocati dalla (possibile) collisione dei satelliti, ormai in numero elevatissimo, in orbita. Che oltre ai danni all’ozono, all’ambiente spaziale, si possano avere ripercussioni anche sul campo magnetico terrestre, fino a un possibile raffreddamento del pianeta, è tutto da scoprire, ma le perplessità non mancano.
Sul piano economico, il rischio paventato è quello di un monopolio privato, con evidenti ripercussioni geopolitiche. Vero è che Starlink è frutto di una sfida tecnologica e industriale, progettata e finanziata da un privato. Una sfida che ha avuto successo e che, di fatto, non ha eguali, riuscendo a sfruttare la tecnologia più avanzata. Ad oggi, non ci sono alternative private, né pubbliche, ad essa paragonabili.
Basti pensare al programma europeo Iris2 (Infrastrucute for Resilience, interconnectivity and Security by Satellite), ideato nel 2023, per la realizzazione di una costellazione satellitare volta a dotare l’Europa di un’infrastruttura di comunicazione sicura, resiliente e autonoma. Un progetto ambizioso, frutto di un’intensa collaborazione con l’Agenzia Spaziale europea (ESA), approvato con Regolamento (UE) 2023/588, che incide sui fondi del quadro finanziario pluriennale dell’UE 2021-2027, per una cifra di circa tre miliardi di euro e rispetto al quale l’Italia partecipa con 750 milioni di euro. Il sistema sfrutterà i vantaggi unici dei satelliti in orbita terrestre media e bassa, garantendo connettività sicura agli Stati membri dell’UE e a tutti i cittadini.
Peccato, però, che i (soli) 290 satelliti verranno lanciati in orbita, con ogni probabilità, a partire dal 2030. Con buona pace dell’efficienza tempistica e quantitativa dei satelliti di Starlink.
Oltre a Iris2, l’Italia fa parte di un’altra iniziativa europea: GovSatCom, ovvero un programma spaziale dell’Unione volto a garantire un sistema di comunicazione satellitare sicuro e affidabile, di supporto per le autorità pubbliche, soprattutto per la gestione di crisi, prevedibili e imprevedibili, calamità naturali, eventi inaspettati che mettano a repentaglio la tutela dei dati e i sistemi di comunicazione. Un’ampia gamma di servizi, dunque, ma ancora sulla carta. Verrà attivato nell’anno 2025. O, almeno, così sappiamo.
Se da un lato, destano preoccupazione i timori legati a un possibile monopolio privato e straniero, dall’altro, viene constatata l’assenza di valide alternative. Per tale ragione, il Ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto ritiene che, in attesa di Iris2, Starlink potrebbe colmare una lacuna altrimenti irrecuperabile.
Affermazione che, però, non va esente da critiche.
È proprio la progettazione di diversi programmi sul piano europeo che incrementa, anche da un punto di vista politico, le perplessità legate a un eventuale accordo del nostro Paese con Elon Musk.
Che possa trattarsi di un errore “strategico”? Sarebbe più prudente attendere la realizzazione di un progetto che opera sotto il controllo sicuro e affidabile dell’Unione europea?
Indubbiamente, una forte perplessità scaturisce in termini di tutela, o meglio, di confidenzialità dei dati. Lungo le reti di Starlink passerebbero naturalmente anche comunicazioni altamente riservate, per ragioni istituzionali e militari. Comunicazioni che andrebbero protette e garantite ovunque e anche nelle situazioni più critiche. Poiché, poi, la cifratura dei dati è un’attività piuttosto complessa, il grado di fiducia nei confronti del fornitore dovrebbe essere assoluto.
In tale contesto, fino a che punto potrebbe rivelarsi opportuno affidare nelle mani di un attore privato e straniero la sicurezza nazionale? Senza peraltro poter escludere che, in qualsiasi momento, Elon Musk possa decidere di spegnere l’interruttore. Come già accaduto, d’altra parte. Ricordiamo infatti che SpaceX, dopo aver fornito Starlink all’Ucraina, come ausilio per garantire al Paese comunicazioni stabili e sicure, ha deciso di interrompere il servizio in Crimea, diffusasi la notizia che sarebbe stato utilizzato dagli ucraini per bombardare le navi russe.
Difficile immaginare uno scenario senza rischi in tal senso.
Rischi che, inevitabilmente, si riflettono sulla democrazia del Paese. Posto che la sovranità sulla tecnologia è presupposto ineluttabile per la sovranità sui dati e, dunque, sulla tutela dei diritti, la concentrazione del potere tecnologico e finanziario nelle mani di uno o comunque di pochissimi, si ripercuote inesorabilmente sulle forme di esercizio del potere e sulla garanzia delle libertà.
Un accordo con Elon Musk potrebbe, quindi, indebolire la sovranità digitale del nostro Paese?
È forse in risposta anche a tali dubbi che lo stesso Presidente della Repubblica, qualche giorno fa, in un discorso all’Università di Marsiglia, ribadisce che «accanto ad una nuova articolazione multipolare dell’equilibrio mondiale, si riaffaccia, con forza, e in contraddizione con essa, il concetto di “sfere di influenza”, all’origine dei mali del XX secolo e che la mia generazione ha combattuto. Tema cui si affianca quello di figure di neo-feudatari del Terzo millennio – novelli corsari a cui attribuire patenti – che aspirano a vedersi affidare signorie nella dimensione pubblica, per gestire parti dei beni comuni rappresentati dal cyberspazio nonché dallo spazio extra-atmosferico, quasi usurpatori delle sovranità democratiche» (5 febbraio 2025).
L’eurodeputato Christophe Grudler afferma espressamente che «affidare comunicazioni di difesa critiche a un attore privato mina la sovranità e la sicurezza» (10 gennaio 2025). Aggiunge, inoltre, le non poche perplessità politiche ed economiche che potrebbero derivare dal «diventare dipendente da qualcuno al di fuori della giurisdizione dell’UE». Dirottare risorse su Starlink danneggerebbe le aziende europee, screditerebbe il ruolo dell’Italia e soprattutto contribuirebbe a consolidare il dominio di un colosso privato, alimentando così quell’oligarchia tecnologica e finanziaria dei c.d. “nuovi poteri” che minano le democrazie contemporanee.
La questione indubbiamente, affrontata in una prospettiva di più ampio respiro, consente di riflettere, da un lato, sulla difficoltà, se non proprio inadeguatezza, dell’etero-regolazione pubblica, dall’altro, sui rischi del “far west” privato. Che l’etero-regolazione non sia più sufficiente, a fronte dell’irrompere delle nuove tecnologie, in continua evoluzione e rispetto alle quali il diritto appare tardigrado e spesso misoneista, è un dato di fatto. Il progresso economico, scientifico e digitale si sviluppa e si intensifica a ritmi che il diritto e la politica non riescono a seguire. Ma altrettanto opportuno appare agire, rectius, reagire nei confronti dei giganti privati che sempre più spesso ricorrono a forme di auto-gestione “incontrollate”. Vero è che, nell’ambito della c.d. quarta rivoluzione in corso, i colossi privati operano in uno spazio che, per sua natura, nasce libero, aperto, immateriale, immenso e senza confini, né gerarchie. Tuttavia, la loro penetrante e capillare capacità espansiva si riflette indubbiamente sulle democrazie tradizionali, a tal punto da condizionarne il funzionamento, se non eroderne le fondamenta. I nuovi poteri dettano norme a milioni di destinatari, assistite da sanzioni e persino garantite da appositi tribunali, dando vita a un vero e proprio ordinamento “osservato”, ma non certo “democratico”. Non solo i cittadini sono estromessi da qualunque forma di partecipazione alle decisioni sulla gestione dei diversi sistemi, delle piattaforme, limitandosi, più o meno consapevolmente, a obbedire a regole poste da poteri non pubblici, ma privati, ma subiscono i forti squilibri che l’autoregolazione di tali giganti produce nel mercato, nella società, nell’ordinamento. Evidenti, quindi, i possibili pregiudizi alla tutela dei diritti fondamentali degli utenti, dei consumatori, dei risparmiatori, ovvero di quei cittadini, provocatoriamente ma efficacemente, definiti sudditi digitali. È in tale contesto che nasce l’esigenza di una “terza via”, rispetto all’auto-regolazione privata – inaccettabile perché fortemente asimmetrica e non adeguatamente garantista – e rispetto all’etero-regolazione pubblica, ormai sempre più spesso inadeguata.
Servono nuovi modelli, rispettosi dei vecchi principi. Modelli che, ispirati al costituzionalismo democratico, si sviluppino, anche tramite forme di co-regolazione, caratterizzate dall’interazione del pubblico con il privato, in modo tale da garantire e preservare il ruolo decisionale del potere pubblico. Ecco allora che lo Stato non può retrocedere, non si deve lasciar esiliare e, anzi, per recuperare spazi, in termini di “visibilità”, e «garantire il governo del pubblico in pubblico», deve intervenire per realizzare un armonioso rapporto tra tecnica e politica, posto che, come ricordava Bobbio, «tecnocrazia e democrazia sono antitetiche tra loro, perché se la prima si regge sulle scelte assunte da pochi esperti, la seconda invece nasce per assicurare che tutti possano decidere tutto indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali di ciascuno».
Questa, la sfida della democrazia, oggi.
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