Le politiche di austerità, il MES e il progetto europeo

di Francesco Merloni

1. Le misure europee di austerità

Il dibattito sulla riforma del Patto di stabilità e sulla mancata ratifica italiana della “riforma” del MES è viziato da molte imprecisioni. Provo a riassumere alcuni elementi di fondo.

Dal Patto di stabilità del 1997 (un “golpe” secondo Guarino, “inattuabile” secondo Prodi) che ha reso operativi i cervellotici parametri dei Trattati di Maastricht sul tetto ai disavanzi e al debito dei paesi aderenti all’euro, la UE impone agli Stati con maggiore debito pubblico misure sempre più severe di austerità, cioè di forti limitazioni alle politiche di bilancio dei singoli Stati, che producono riduzioni della spesa pubblica, in particolare quella destinata alle politiche sociali e alla qualità delle pubbliche amministrazioni. Dopo la crisi finanziaria del 2008 e la crisi dei debiti sovrani iniziata nel 2010, l’austerità ha assunto caratteri ancora più stringenti, con la revisione del Patto di stabilità e con il Fiscal compact, approvato tra gli Stati che vi aderiscono, al di fuori dei Trattati UE. L’austerità continua ad essere la vera sostanza della “costituzione economica” dell’Europa non solidale, ma competitiva, che la scelta di Maastricht per una unione solamente monetaria ci ha consegnato. A parere della maggioranza degli economisti, questa austerità ha prodotto o recessione (effetti pro-ciclici in periodi di contrazione della domanda) o stagnazione: tutta l’Europa, compresi i paesi cosiddetti “frugali”, non cresce più, da almeno venticinque anni. Senza crescita, con tassi di interesse sul debito sempre superiori, il debito non scende, anzi continua aa aumentare.

2. Nascita e utilizzo del MES

Il MES costituisce la trasformazione in un fondo permanente di precedenti fondi temporanei (l’Efsm e l’Efsf), creati per intervenire sui bilanci di alcuni stati particolarmente esposti per i salvataggi operati sul proprio sistema bancario negli anni che vanno dal 2007 al 2010. Il Trattato del 2012 che istituisce il Mes come organismo di diritto lussemburghese, destinato a concedere prestiti ai paesi in momentanea difficoltà di bilancio, è stato approvato al di fuori dei Trattati UE e pone problemi di coordinamento tra il ruolo della Commissione, di verifica delle politiche di bilancio, e il ruolo del Mes, di verifica della solvibilità del paese richiedente il prestito. I prestiti sono concessi a tassi di interesse inferiori a quelli di mercato e pertanto sono utili a rispondere a situazioni temporanee di difficoltà per i paesi con debito leggero, mentre per i paesi appesantiti da un forte debito il MES concede il prestito sulla base di pesanti condizionalità (in generale forte riduzione della spesa pubblica, tagli alle amministrazioni pubbliche, accompagnati da privatizzazioni, liberalizzazioni, riduzione della tutela del lavoro), sul modello degli analoghi interventi del FMI, non a caso coinvolto, con BCE e Commissione europea, nella cosiddetta “troika”, che ha il compito di “accompagnare” i paesi richiedenti nell’attuazione delle “riforme” richieste. Il MES nasce, quindi, come misura di sollievo per gli stati costretti ad indebitarsi, ad evitare che il “contagio” si estenda all’intero sistema dell’euro. È, però, una misura di rafforzamento delle politiche di “austerità feroce” di cui si è detto.

3. MES e Unione bancaria europea

Dopo il soccorso degli Stati “salvatori” alle banche in gravi difficoltà perché libere di investire in titoli speculativi (derivati, titoli di debito pubblico dei paesi più indebitati) è nata l’Unione bancaria europea, la cui creazione è coeva e parallela al MES e al Fiscal compact. Essa si fonda su meccanismi di intervento e di vigilanza che coinvolgono soprattutto azionisti e creditori degli istituti bancari, escludendo che la crisi di una banca possa essere pagata dai risparmiatori e, men che meno, dai contribuenti. L’Unione bancaria resta priva del terzo pilastro, la garanzia dei depositi, perché non si vuole mettere in discussione il modello della banca universale, da sempre proprio della Germania, e ritornato in auge, a livello globale, con la soppressione delle legislazioni che imponevano la distinzione tra banche di deposito e banche di investimento (negli Usa il Financial Services Modernization Act del 1999 che abroga il Glass-Steagal Act di Roosevelt del 1933; da noi la modifica della legge bancaria del 1936 con il Testo unico del 1993).

4. Gli effetti delle riforme imposte dal MES

Gli effetti delle politiche economiche e sociali imposte dai prestiti condizionati europei sui paesi richiedenti sono ormai noti; ci si divide tra chi li considera sempre un “massacro” e chi distingue tra il caso greco (in cui il massacro, anche sociale, è stato evidente) e i casi di altri paesi come Irlanda, Portogallo e Spagna; per gli ultimi due si trattava di intervenire soprattutto sull’indebitamento attuato per i salvataggi bancari, in una situazione di debito pubblico non eccessivo. In ogni caso è stato evidente il forte condizionamento delle politiche di bilancio, tipico delle politiche di austerità imposte con vincoli esterni, che in generale produce una riduzione della spesa sociale e un grave impoverimento delle amministrazioni pubbliche (senza le quali le politiche sociali non si attuano).

5. MES e quantitative easing

Dal marzo 2015 la BCE attua il quantitative easing (QE), cioè l’acquisto diretto di titoli di debito pubblico degli Stati per importi molto considerevoli: nei primi due anni 1.680 miliardi di euro, per poi proseguire con importi diversi, ma sempre rilevanti, negli anni successivi. Questo intervento della BCE si è rivelato necessario per salvare l’euro da attacchi speculativi e ha dato sollievo alle politiche di bilancio di molti paesi. Il QE, pur non essendo in sé una politica keynesiana di stimolo della domanda aggregata (di cui pure ci sarebbe tanto bisogno in Europa), ha costituito un’eccezione rilevante all’austerità e per questo è da sempre mal tollerato dai suoi fautori (Germania in testa). Dall’attivazione del QE nessun paese ha avuto più bisogno di ricorrere al MES. Di qui una curiosa posizione, molto italiana: si può aderire al Trattato del MES (anche alle sue “riforme”), perché non avremo bisogno di richiedere i suoi prestiti. Ma se il QE finisce e un paese si trova di nuovo in grave difficoltà, magari per la crisi di una sua banca, il ricorso al MES potrebbe imporsi in futuro, con il suo “scambio asimmetrico” tra tassi di interesse più favorevoli e le pesanti condizionalità che lo accompagnano.

6. Riforma del patto di stabilità e riforma del MES

Negli anni successivi alla pandemia si sono intrecciate politiche diverse: da un lato il NGUE e i PNRR nazionali, che alcuni hanno visto come una svolta, una nuova politica di investimento pubblico europeo di tipo keynesiano; dall’altro il lavoro degli Stati, guidato dalla Commissione europea, per la revisione del Patto di stabilità europeo, sospeso durante la pandemia e fino alla fine del 2023, e la revisione del MES. In più occasioni i paesi “frugali” hanno operato per chiudere al più presto le due “eccezioni” più rilevanti all’austerità. Mi riferisco al Quantitative easing e al NGUE. Non intendo qui aprire il dibattito (anche se sarebbe quanto mai opportuno) sulla idoneità del NGUE, per quantità di risorse e per qualità degli investimenti promossi, a produrre una vera svolta europea nella direzione di un’Europa solidale e volta all’armonioso sviluppo di tutta la sua area. Mi limito a sottolineare che esso viene vissuto da chi è in grado di influenzare il processo di integrazione europea come una mera “parentesi”, chiusa la quale si torna all’austerità, di cui il Patto di stabilità e il MES sono strumenti essenziali. Ricordo anche che le norme europee sui requisiti dei PNRR nazionali (Regolamento (UE) 2021/241), condizionano i pagamenti al rispetto dei vincoli di bilancio del Fiscal compact.

In attesa di conoscerne tutti i contenuti, l’accordo di recente raggiunto sul nuovo Patto di stabilità non sembra modificare la versione più stringente adottata con il Fiscal compact, ma si limita a dare più tempo per le politiche di rientro. Non cambiano né i parametri (che restano rigorosi, il tetto è dell’1,5% annuo, si direbbe irraggiungibili per paesi, come l’Italia, afflitti da un pesante debito pubblico, da noi ritornato a livelli drammatici dopo la crisi del 2008 e dopo la pandemia), né le misure di vigilanza della Commissione (F. Saraceno su Domani del 01.01.2024; G. Pisauro su Domani del 02.01.2024; Piga 2023).

La riforma del MES mantiene per intero il meccanismo dei prestiti e tutte le sue condizionalità. Ma la sua nuova finalità è usare il MES (chiedendo agli Stati una maggiore contribuzione) per rimpinguare il Fondo di risoluzione unico dell’Unione bancaria europea (che si ritiene insufficiente). In tal modo si contraddice uno dei pilastri della stessa Unione bancaria: fare pagare al sistema bancario le eventuali crisi, senza coinvolgere gli Stati (e i loro contribuenti). Il MES può essere usato per aiutare un sistema bancario che nel frattempo non pone rimedio alle sue storture, perché continua a seguire il modello delle banche universali. Non è più un meccanismo “salva stati”, ma “salva stati e banche”. Di qui anche la domanda se per il nuovo obiettivo non ci fossero altri strumenti, senza scomodare il MES. Andrea Guazzarotti ha di recente segnalato che le valutazioni del MES (una sorta di “rating pubblico”) sulla solvibilità del nostro bilancio potrebbero avere effetti assai negativi sulla collocazione dei titoli nel mercato.

La discussione su questi due strumenti non può svilupparsi su piani separati, come sembra fare la nostra opposizione (il PD soprattutto), che ritiene negative o largamente insufficienti le correzioni del Patto di stabilità, mentre pensa si possano tranquillamente ratificare le modifiche del MES. Il nuovo Patto di stabilità e il nuovo Mes sono strettamente legati all’ipotesi di un ritorno all’austerità “feroce” degli anni precedenti la pandemia (2010-2020), con il parallelo ritorno della BCE al suo unico compito fondamentale: assicurare la stabilità dei prezzi, con il solo strumento della variazione dei tassi di interesse (con gli effetti recessivi che tutti inutilmente segnalano dopo la recente fiammata inflazionistica). Fine anche, evidentemente, dell’”eresia” del QE.

7. Una Europa diversa e un’Italia diversa in Europa

Nel dibattito europeo su austerità, politiche di coesione e di investimento, l’Italia è sempre ai margini. Molto favorevole al NGUE, ma poco attenta alle implicazioni delle politiche europee che possono incidere sui propri margini di manovra nelle politiche di bilancio, a salvaguardia delle politiche sociali e a difesa delle proprie amministrazioni pubbliche.

L’Italia tutta avrebbe interesse alla fine dell’austerità e a un radicale cambio di passo verso un’Europa che, senza mutualizzare il debito degli Stati, faccia investimenti diretti in settori sociali e industriali strategici; attui, con risorse del bilancio europeo, politiche di solidarietà sociale e territoriale, politiche di promozione della domanda aggregata dell’intera area. In un’Europa “federale”, non competitiva, spetta agli Stati fare politiche di bilancio non squilibrate, salvo poi a dividersi, anche in modo molto radicale, sull’utilizzo interno delle risorse nazionali: più tasse, più welfare, più uguaglianza, amministrazioni moderne da una parte; meno tasse, meno servizi pubblici, meno “burocrazia”, ma anche più disuguaglianze, dall’altra. Tutto questo viene reso impossibile dalle politiche di austerità. Invece di bloccare, fin dal primo sorgere, queste proposte di ritorno all’austerità, magari cercando sponde in paesi come Spagna, Portogallo, Grecia, la stessa Francia, tutti i governi che si sono succeduti e tutte le forze politiche italiane hanno preferito sterili polemiche, tutte interne, sulle posizioni che gli altri hanno nel tempo assunto su questi temi. Così come sterili sono le polemiche sulla “perdita di credibilità in Europa” o sul principio pacta sunt servanda. Se l’Europa dell’austerità non garantisce uguaglianza e diritti sociali, ci dovrà pure essere un momento in cui un paese fondatore dell’Unione, magari non da solo, comincia a dire che così non si può andare avanti, pena la disgregazione del progetto europeo. La credibilità si conquista non con la passività, ma con la qualità di proposte di forte correzione della rotta fin qui intrapresa. In questo senso una votazione unanime del nostro Parlamento per negare il consenso italiano al ritorno all’austerità avrebbe avuto un forte e autorevole impatto nel dibattito europeo.