L’Ungheria e i valori dell’Unione: tra minacce interne ed esterne al sistema

di Chiara Cellerino

Università di Genova 

Introduzione

Il semestre di presidenza ungherese del Consiglio si è appena concluso con la fine del 2024 e, nonostante le polemiche che lo hanno accompagnato (v. Parlamento europeo e Parisi, Rinoldi), non sono mancati gli elogi della presidente della Commissione Von der Leyen per i traguardi conseguiti. Si tratta di successi per lo più di natura politica, relativi alla negoziazione di accordi tra gli Stati membri su vari dossier in agenda, tra i quali l’adesione, dal 1° gennaio 2025, di Romania e Bulgaria a Schengen, la Dichiarazione di Budapest in materia di competitività europea (ma senza risultati sull’industria della difesa), l’avanzamento dei negoziati per l’adesione di Montenegro, Albania e Serbia all’Unione, l’incontro della Comunità politica europea.

Il bilancio dei sei mesi trascorsi, tuttavia, non può non tenere conto del contrasto frequente che ha caratterizzato i rapporti tra la stessa Commissione e lo Stato membro che ha detenuto la presidenza semestrale, il quale ha continuato ad essere oggetto di addebiti anche gravi di violazioni di norme e principi fondamentali per l’ordinamento giuridico dell’Unione in tema, inter alia, di immigrazione e asilo, indipendenza della magistratura, diritti delle minoranze, libertà accademica, libertà degli scambi intra-comunitari (cfr. qui).

Stando all’ultimo rapporto della Commissione sulla Rule of Law 2024, poi, permangono una serie di obiettive criticità dell’ordinamento nazionale in questione, con riferimento al rispetto dei valori fondanti dell’Unione europea, come cristallizzati all’art. 2 TUE (“rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”). Del resto, sul piano dell’organizzazione interna dello Stato, ormai da qualche tempo, l’Ungheria non è più considerata una democrazia completa (cfr. Parlamento europeo). Lo stesso primo ministro Viktor Orbán l’ha definita più volte una «democrazia illiberale» (v. qui e qui).

Si badi: questi valori non possono considerarsi una questione ideologica. Il perdurante rispetto degli stessi a livello nazionale è necessario ad assicurare il funzionamento dei meccanismi fondamentali sui quali è incardinato il processo di integrazione europea. Dal loro rispetto dipende la tenuta del principio di fiducia reciproca, che è premessa dei rapporti tra gli Stati membri e, quindi, dell’intero ordinamento: esso richiede la condivisione tra gli Stati membri di questi valori e il rispetto del diritto UE che li attua, compreso il suo primato, l’effetto diretto, l’interpretazione conforme, la tutela giurisdizionale effettiva (in altre parole, la cd. rule of law europea), pena il venire meno dell’effettività (e quindi autonomia) del diritto UE e anche dell’uguaglianza degli Stati membri dinanzi ai Trattati (cfr. i casi Achmea, Parere 2/13, per tutti Lenaerts). Come si può, infatti, consegnare un indagato ad un’autorità di un altro Stato membro, se non si può confidare nell’indipendenza del giudice che ha emesso il provvedimento di limitazione della libertà personale o che lo giudicherà? (v. giurisprudenza Aranyosi e progenie). Come si può trasferire un richiedente asilo nello stato competente a conoscere la sua domanda, se non ci sono garanzie che esso rispetti il diritto dell’Unione europea e, quindi, i diritti fondamentali della persona?

Lo scopo di questo breve intervento è allora quello di ricostruire sinteticamente gli strumenti disponibili per reagire a tali violazioni e la loro attuazione nei confronti dell’Ungheria, verificando se il compromesso politico, legato soprattutto all’esigenza di mantenere l’unità della posizione dell’Unione in questioni sensibili di politica estera e  sicurezza comune (PESC) relative al conflitto russo-ucraino, ne abbia reso meno incisivo l’esercizio. Il tentativo è quello di proporre una valutazione realistica della situazione e ipotizzare possibili scenari futuri.

1. I criteri di Copenaghen come strumento di tutela “preventiva” dei valori

Procedendo in senso logico, o diacronico, il primo strumento che i Trattati ci consegnano per verificare il rispetto dei valori di cui all’art. 2 TUE è la procedura di adesione definita all’art. 49 TUE e i criteri di ammissibilità stabiliti in occasione del Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993, rafforzati nel Consiglio europeo di Madrid nel 1995. Il primo di tali criteri è proprio quello cd. “politico”, relativo alla presenza, nello Stato candidato all’adesione, di istituzioni stabili a garanzia dei valori ex art. 2 TUE.

Contrariamente a quanto avvenuto per Romania e Bulgaria, l’adesione dell’Ungheria all’Unione europea non avvenne in modo “condizionato”, né venne differita nel tempo per affrontare carenze strutturali dell’ordinamento, che invece caratterizzavano sistemi quali quello bulgaro e rumeno. Si ricorderà, infatti, che tali ultimi due Stati continuarono ad essere “sorvegliati”, in fase post-adesione, dal Meccanismo di cooperazione  e verifica, preposto ad assicurare il raggiungimento di alcuni progressi ancora da compiersi in materia di riforma giudiziaria, lotta alla corruzione e, per quanto riguarda la Bulgaria, lotta alla criminalità organizzata. Solo recentemente il Meccanismo è stato abrogato, non senza la contestazione della decisione di abrogazione da parte di un’associazione di giudici rumeni dinanzi alla Corte di giustizia. Ad ogni modo, nulla di tutto questo era stato previsto per l’Ungheria, ai tempi dell’adesione.

Non è infatti sempre possibile prevedere l’evoluzione di ordinamenti che, inizialmente compatibili con gli standard di adesione, mutano nel tempo a causa di processi politici interni successivi. Ciò non esime da, e anzi impone, il rafforzamento del rigore con il quale vengono applicati i criteri al momento dell’adesione. Peraltro, è ormai chiaro che quei valori continuano ad avere rilievo anche dopo l’adesione, in virtù del cd. “principio di non regressione” derivante dal combinato disposto degli artt. 2 e 49 TUE, come riconosciuto dalla Corte di giustizia nella importante sentenza Republika.

2. La procedura ex art. 7 TUE: “bomba atomica” o “arma spuntata”?

Tra gli strumenti disponibili successivamente all’adesione, è certo che la procedura ex art. 7 TUE sia la “via maestra” per “sanzionare” l’allontanamento di un Paese membro dai valori comuni fondanti. Si tratta, come noto, di una procedura dalle conseguenze… “atomiche”, nel senso che la sua attivazione può portare alla sospensione nei confronti dello Stato membro di alcune prerogative derivanti dai Trattati, incluso il diritto di voto in Consiglio e, quindi, ad un sostanziale “congelamento” della partecipazione attiva al processo di integrazione europea, senza tuttavia far venir meno gli obblighi derivanti dalla partecipazione passiva.

Non a caso, proprio a tale strumento si è rivolto il Parlamento europeo quando, nel 2018, assumendo l’iniziativa prevista dalla norma, chiedeva al Consiglio di adottare una decisione volta ad accertare l’evidente rischio di una violazione grave dei valori di cui all’art. 2 TUE, attivando così il primo step della procedura di cui all’art. 7 TUE. Si trattò del momento culminante di un lungo periodo di “sorveglianza speciale” dell’Ungheria da parte delle istituzioni sovranazionali su questi aspetti (per un’esauriente ricostruzione, cfr. M. Aranci). Un’analoga iniziativa era stata assunta, l’anno precedente, dalla Commissione europea nei confronti della Polonia, con particolare riferimento alla violazione dello Stato di diritto (e non dell’intero novero dei valori di cui all’art. 2 TUE). Tuttavia, nonostante le reiterate prese di posizione del Parlamento europeo, è noto che Consiglio e Consiglio europeo non si sono mai pronunciati, anche a causa dell’impossibilità di raggiungere le soglie di voto previste per l’assunzione delle decisioni ai sensi dell’art. 7 TUE (maggioranze rinforzate e unanimità, in base alle diverse fasi della procedura, cfr. B. Nascimbene e G. Di Federico).

3. La procedura di infrazione e gli altri strumenti di tutela giurisdizionale

Venendo alla procedura di infrazione, il suo impiego con riferimento alla violazione del solo art. 2 TUE è stato a lungo dibattuto, per numerosi motivi, tra i quali il rischio di un’“esondazione” dell’azione delle istituzioni in aree del diritto nazionale che fuoriescono dall’ambito di applicazione dei Trattati (cfr., ex multis, L. Kaiser). Tanto è vero che, in molti casi, le violazioni di principi inerenti il rispetto dei valori di cui all’art. 2 TUE sono stati contestati dalla Commissione agli Stati membri invocando altre norme del diritto primario, , quali il principio di non discriminazione in base all’età (storico è ormai il caso Commissione c. Ungheria), ovvero, a seguito dell’interpretazione inaugurata dalla Corte nella sentenza sui giudici portoghesi, gli artt. 19 TUE e 47 Carta (su tutte, Commissione c. Polonia, cfr. F. Munari). Il controllo giurisdizionale sulle condotte degli Stati, in questo ambito, è avvenuto anche attraverso il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE (cfr. ad esempio IS, il già citato caso Republika, Hann Invest).

Più di recente, però, sulla base del menzionato principio di non regressione, la Commissione si è decisa ad utilizzare direttamente l’art. 2 TUE, proprio con riguardo ad una procedura di infrazione nei confronti dell’Ungheria, relativa alla normativa nazionale che limita i contenuti audiovisivi relativi alla transessualità e all’omosessualità in ottica di tutela degli interessi di minori, ritenendola contraria ai valori dell’uguaglianza, della tolleranza e dei diritti delle minoranze. L’art. 2 TUE non è invece alla base della  recente procedura di infrazione avviata, sempre nei confronti dell’Ungheria, in relazione alla legge sulla sovranità nazionale, ritenuta anch’essa in contrasto con vari diritti fondamentali tutelati dalla Carta, oltre che con le norme del mercato interno. Resta da vedere come la Corte si pronuncerà sul punto, anche alla luce del fatto che l’applicazione dell’art. 2 TUE stand alone estende la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali ben al di là dell’ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, così come definito al suo art. 51.

4. La condizionalità sui fondi UE

A partire dal 2021, le varie forme di finanziamento UE agli Stati sono state sottoposte e diversi meccanismi di condizionalità legati ai valori, disciplinati rispettivamente nel  regolamento generale sulla condizionalità, nel regolamento che istituisce uno strumento europeo di ripresa e resilienza, nel regolamento sulle disposizioni comuni.

A differenza dei rimedi menzionati nei precedenti paragrafi, che operano ex post, e non sono quindi idonei a prevenire le violazioni, lo strumento della condizionalità sui fondi appare utile a perseguire l’applicazione dei valori anche in una prospettiva ex ante, in ragione della sua capacità di operare una pressione permanente sui governi degli Stati membri.

Ad oggi, i fondi europei destinati all’Ungheria sono, in buona parte bloccati in forza di tali meccanismi. Più precisamente, il 55% degli impegni di bilancio relativi alla politica di coesione destinati a tale Stato sono sospesi ai sensi del regolamento generale sulla condizionalità, a causa delle carenze e irregolarità del sistema ungherese degli appalti, dell’elevato grado di corruzione, della mancanza di indipendenza degli enti pubblici, e dell’assenza di efficaci rimedi giurisdizionali avverso le decisioni delle pubbliche amministrazioni nazionali. Insufficienti sono state ritenute dalla Commissione le misure legislative comunicate il 2 dicembre 2024 dall’Ungheria per superare in parte la decisione, a causa dei perduranti problemi di conflitto di interesse nei board delle fondazioni pubbliche (incluse le Università) preposte a gestirli. Se in qualsiasi momento lo Stato può adottare nuove misure correttive e comunicarle alla Commissione, la prima tranche di tali fondi (pari a circa 1 miliardo di euro) risulta definitivamente scaduta, in ragione del decorso dei termini previsti dal regolamento. Inoltre, l’Ungheria non è ad oggi beneficiaria di alcun esborso relativo al dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza, eccetto quelli destinati al piano Re-Power EU, non avendo soddisfatto i cd. “super-traguardi” in materia di tutela dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali previsti dal piano nazionale di ripresa e resilienza. Infine, la Commissione ha ritenuto non soddisfatte le cd. “condizioni abilitanti” previste dal regolamento sulle disposizioni comuni, procedendo così a sospendere il rimborso delle spese relative all’impiego dei fondi strutturali e di investimento dell’Unione, a causa delle già menzionate carenze in tema di indipendenza dei giudici, legislazione anti-LGBTQ+, limitazioni alla libertà accademica e diritto di asilo (cfr. Previatello). Va detto che il Governo ungherese, forse anche in vista dell’incarico di Presidenza semestrale del Consiglio appena conclusasi, aveva invero realizzato nel 2023 la riforma di alcuni aspetti dell’organizzazione giudiziaria nel senso richiesto dalle istituzioni UE, ciò avendo consentito lo sblocco di una porzione (circa 1/3) di questi fondi, per un importo pari a 10,2 miliardi di euro. Tale decisione della Commissione è stata aspramente criticata dal Parlamento europeo, che la ha impugnata dinanzi alla Corte di giustizia (v. Iannella).

Tra i motivi di ricorso, vi è anche la contestazione di un presunto eccesso di potere della Commissione, per aver messo in atto una forma velata di “scambio” tra la decisione contestata e l’astensione dell’Ungheria dal porre il veto su alcune misure a favore  dell’Ucraina. In altre parole, nell’attuale situazione internazionale, il Governo Orban potrebbe aver avuto buon gioco nel negoziare la sua astensione (dal veto) sull’approvazione di alcuni aiuti all’Ucraina e sull’apertura dei negoziati di adesione per tale Paese (come noto,  questioni soggette al voto all’unanimità in Consiglio) con uno “sconto” sulle iniziative UE sulla condizionalità dei fondi  (v. N. Kirst e qui).

5. Rilievi conclusivi

Lo strumentario disciplinato dai Trattati e dal diritto derivato al fine di garantire il rispetto dei valori di cui all’art. 2 TUE non appare di poco conto e di esso occorre sfruttare l’intero potenziale. Tuttavia, nell’impossibilità di attivare l’art. 7 TUE, esso non è risultato particolarmente incisivo nel modificare significativamente le condotte degli Stati che si discostano in modo sistematico dai valori. Per contro, colpisce come le dinamiche alla base della governance e del processo decisionale UE paiano in grado di proseguire in modo più o meno fisiologico (benché non senza alcune “sgrammaticature” istituzionali), anche in presenza di gravi fragilità del sistema interno degli Stati che vi prendono parte. Nel caso ungherese, complice è forse stato anche il fatto che la presidenza semestrale sia giunta in una fase di transizione tra due cicli politici.

Se la procedura di infrazione resta politicamente più accettabile per i governi, per la sua natura tecnica, la condizionalità sui fondi è uno strumento che può aggredire interessi sensibili, anche per il suo effetto sul consenso elettorale interno, riportando la questione del rispetto dei valori in una dinamica inter-istituzionale (cfr. C. Sanna, ma v. ad esempio qui). In questo senso, la menzionata decisione della Commissione di procedere allo sblocco di una parte dei fondi, a fronte di riforme piuttosto parziali del diritto nazionale ungherese, può essere vista come un segno di debolezza nell’enforcement dei valori (v. Lobina). Al tempo stesso, occorre tenere conto delle caratteristiche del sistema complessivo: il fatto che il processo decisionale dell’Unione in materie fondamentali come la PESC possa essere “sabotato” da un solo Stato membro, magari anche soggetto ad influenze politiche di Stati terzi, in ragione della regola dell’unanimità, può creare un corto circuito tra l’interesse a tutelare l’ordinamento dalle minacce interne relative alla violazioni dei valori e altri interessi fondamentali dell’Unione come la sua sicurezza esterna, soprattutto in un momento nel quale quest’ultima è particolarmente pressante ai confini dell’Unione.

In questa prospettiva, e a maggior ragione, l’art. 7 TUE continua rappresentare l’unica via per anestetizzare i rischi derivanti da entrambe le sfide. Sarebbe bello se la fine del semestre di presidenza ungherese aprisse una nuova stagione nella quale la questione possa essere finalmente messa all’ordine del giorno. Non possiamo però celare che la viabilità politica della procedura resta complessa, anche in ragione del fatto che l’Ungheria non appare sola nell’opposizione alla stessa.

La sensazione, quindi, è che dovremo continuare a “timonare la nave” con le “falle nello scafo”, cercando di mitigare i rischi che ciò comporta.