Per un pugno di dollari. Sul caso Superlega, né vincitori né vinti

di Federico Orso

«Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto. Avevi detto così? Vediamo se è vero».

Deve essere stato più o meno questo il retropensiero con il quale nel 2021 i dirigenti della European Super League Company (gli uomini con la pistola) decisero di citare davanti al Juzgado de lo Mercantil de Madrid la FIFA e la UEFA (le istituzioni con il fucile), contestando loro di avere ostacolato il progetto di istituzione di una competizione alternativa alla Champions League con pratiche commerciali antieuropee.

È quindi forse per fedeltà al capolavoro di Sergio Leone che tutti (o quasi[1]) i primi commentatori hanno salutato la decisione della Corte di Giustizia del 21 dicembre scorso (nella causa C-333/21) come una «sentenza che dà ragione alla Superlega».

Un’attenta lettura delle motivazioni, tuttavia, suggerisce maggiore cautela.

Vero è infatti che dalle parole dei giudici esce confermato il principio per cui «in so far as it constitutes an economic activity, the practice of sport is subject to the provisions of EU law» (§83 della decisione). Ma è altrettanto vero che la sentenza dà luogo a un delicato bilanciamento tra i principi della concorrenza e del mercato e «all the principles, values and rules […] underpinning the sport» (§176), dal quale entrambi i contendenti escono sconfitti a metà.

Le conclusioni, va detto, possono trarre in inganno. Per la Corte, in effetti, gli artt. 102, 101(1) e 56 TFUE vanno interpretati nel senso che l’introduzione, da parte di FIFA e UEFA, dietro minaccia di sanzioni, di un regime autorizzatorio per tutte le competizioni calcistiche professionistiche realizzate da soggetti terzi sul territorio dell’Unione «constitutes abuse of a dominant position» (§152), determina una «prevention of competition» (§179) e ostacola la libera circolazione dei servizi (§257).

Nondimeno, ha precisato la Corte, «the fact remains that […] sporting activity carries considerable social and educational importance» (§102).

Pertanto, nell’applicare il diritto europeo in questa particolare materia, occorre da un lato considerare le «specific characteristics of sport», dall’altro rammentare che l’azione dell’Unione «is to be aimed at […] promoting fairness and openness in sporting competitions» (§97).

Dunque, sebbene sia innegabile che FIFA e UEFA «hold a dominant position, or even a monopoly» nel mercato del calcio professionistico (§139) e che «at the current juncture it is impossible to set up viably a competition outside their ecosystem» (§149), ciò non significa che a esse sia impedito in termini assoluti di fissare le «conditions in which potentially competing undertakings may access the market» (§135).

Difatti, osserva la Corte, se lo si guarda nella sua globalità, il movimento calcistico «gives rise to the organisation of numerous competitions at both European and national levels […] essentially […] based on sporting merit» e l’unico modo per conservare tale assetto è fare sì che «all the […] teams face each other in homogeneous regulatory and technical conditions» suscettibili di assicurare «a certain level of equal opportunity» (§143).

In altri termini, per i giudici di Lussemburgo è essenziale che il calcio mantenga la sua attuale articolazione piramidale, grazie alla quale ogni club può accedere alla massima categoria nazionale e da questa alle competizioni europee sulla base di criteri meritocratici.

Di conseguenza, l’introduzione di un regime autorizzatorio, dietro minaccia di sanzioni, per tutte le competizioni organizzate da terzi non configura per la Corte un abuso di posizione dominante laddove (e nei limiti in cui) sia finalizzato a garantire «homogeneity and coordination […] as well as […] to promote […] equal opportunities and merit» (§144).

L’importante, però, è che tale potere di ‘selezione all’ingresso’ non venga esercitato «in an arbitrary manner» (§135).

È quindi a tal fine necessario che FIFA e UEFA elaborino «substantive criteria and detailed procedural rules» che consentano loro sì di esercitare un controllo in ingresso e di applicare sanzioni nei confronti di chi partecipa a competizioni non autorizzate, ma pur sempre in modo «transparent, objective, precise and non-discriminatory» (§147) e in ogni caso «in accordance with the principle of proportionality» (§151).

Non solo. L’introduzione di barriere all’accesso da parte di FIFA e UEFA è per la Corte ammissibile soltanto laddove queste dimostrino, «through convincing arguments and evidence» (§209), che tali misure: a) siano necessarie per assicurare il raggiungimento di «efficiency gains, by contributing […] to improving the production or distribution of [professional football]»; b) garantiscano ai consumatori «an equitable part of the profit resulting from those efficiency gains»; c) non contemplino «restrictions […] not indispensable for achieving such efficiency gains»; d) non abbiano per effetto «to eliminate all effective competition» (§190).

Insomma, è innegabile che FIFA e UEFA escano in certa misura sconfitte da questa pronuncia, la quale, senza dubbio, esclude la legittimità europea di regimi autorizzatori finalizzati a impedire in modo indiscriminato a terzi l’accesso al mercato del calcio professionistico.

Al contempo, però, per quanto la Corte abbia avuto cura di precisare nelle premesse che «the compatibility of the Super League project […] with […] the FEU Treaty» è priva di «any particular relevance in the context of the answers to be given» (§§80-81), è netta l’impressione che da Lussemburgo sia arrivata una bocciatura secca anche per la ESL Company.

Se «openness», «merit» e «solidarity», in uno con l’articolazione delle competizioni in modo «substantively homogeneous and temporally coordinated» (§253), rappresentano per la Corte tratti talmente connaturati allo sport da prevalere, se necessario, finanche sui principi della concorrenza e del mercato, tra le righe di questa sentenza non può non leggersi una nota di sfavore per il progetto di istituzione di un torneo (semi)chiuso e dichiaratamente animato dal desiderio di superare i vigenti criteri meritocratici e mutualistici di ripartizione dei profitti.

Il che, però, trae seco almeno due interrogativi.

Innanzitutto, è da chiedersi se siano a rischio di contestazione di legittimità europea pure quelle competizioni ciclistiche o motoristiche internazionali (dal Giro d’Italia alla Formula 1, ma si potrebbe andare avanti per molto), cui si partecipa solo su invito dell’organizzatore (il quale peraltro non coincide mai con la federazione internazionale di riferimento).

In secondo luogo, soprattutto, viene il dubbio che, per questa via, si finisca per traslare sulla componente commerciale dello sport (per di più quello professionistico) una certa idealità che è propria della sua sfera tecnica e disciplinare e che forse più correttamente a essa dovrebbe rimanere circoscritta.

Per esempio, quando la Corte sottolinea i benefici derivanti dai meccanismi mutualistici, grazie ai quali si genererebbe un «trickle-down effect from [high level professional] competitions into […] amateur football clubs» (§235), si assiste come a una confusione di piani tra aspirazioni, pur meritorie, e obblighi giuridici. È un po’ come sostenere che le grosse industrie dovrebbero riservare una parte dei loro profitti al sostegno del tessuto artigianale o della piccola impresa: sacrosanti siano il principio redistributivo e il sostegno pubblico allo sport di base, il quale, innegabilmente, «carries considerable social and educational importance»; ma ciò dovrebbe avvenire attraverso l’impiego di leve fiscali, come l’imposizione diretta o la detassazione dei profitti destinati alla mutualità, e del finanziamento pubblico, non attraverso forme di solidarietà verticale imposte (neppure, come nel caso italiano, per legge – il che già dà luogo a perplessità – ma addirittura) in via pretoria.

Sarebbe stato allora più coerente, per FIFA e EUFA in prima battuta, ma anche per la Corte, riportare l’intera vicenda alla sua essenziale dimensione di competizione commerciale tra attori concorrenti, nella quale a vincere è, semplicemente, chi immette sul mercato il prodotto migliore.

Del resto, la European Super League Company non è caduta sotto i colpi dei regimi autorizzatorio e sanzionatorio introdotti da FIFA e UEFA per impedirle l’accesso al mercato del calcio professionistico, ma per la scarsa attrattività commerciale del proprio prodotto e, di conseguenza, per la reazione di stakeholders e consumatori, che non hanno mostrato alcun interesse per una competizione (semi)chiusa alternativa alla Champions League: «competition on the merits», ha sottolineato la Corte stessa, «may, by definition, lead to the departure from the market or the marginalisation of competitors which are less efficient and so less attractive to consumers from the point of view of […] price, choice, quality or innovation» (§127). 

«Che ti succede Ramon, ti trema la mano? O forse hai paura? Per uccidere un uomo devi colpirlo al cuore». È la paura della concorrenza che ha indotto la UEFA ad abusare della propria posizione dominante. Tutto sommato, però, per sbarazzarsi della European Super League Company le sarebbe bastato fare buon uso del proprio fucile.

[1] È questo per esempio il caso dei relatori intervenuti al webinar organizzato da LawInSport a poche ore di distanza dalla pubblicazione delle motivazioni.