Perché la disciplina dell’autonomia differenziata non va intesa come “una monade isolata” (Osservazione a Corte cost. n. 192 del 2024)

di Cesare Pinelli

Università di Roma “Sapienza”

Nella motivazione della sentenza che ha definito il giudizio di legittimità della legge sull’autonomia differenziata (l.n. 86 del 2024), compare una premessa assai articolata (§ 4. Cons. in diritto), che oltre ad indicare comprensibilmente linee argomentative in grado di rispondere alle numerosissime censure, si spiega con varie altre ragioni, e presenta risvolti degni di attenzione.

“L’esame delle questioni”, osserva la Corte in apertura, “richiede di procedere all’interpretazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., introdotto con la riforma costituzionale del 2001. Tale disposizione, che consente di superare l’uniformità nell’allocazione delle competenze al fine di valorizzare appieno le potenzialità insite nel regionalismo italiano, non può essere considerata come una monade isolata, ma deve essere collocata nel quadro complessivo della forma di Stato italiana, con cui va armonizzata”.

Ma nella premessa si coglie pure un intento didascalico. La Corte mostra di conoscere bene con chi ha anzitutto a che fare: con titolari di cariche pubbliche la cui conoscenza dei fondamenti del nostro regionalismo è quantomeno dubbia, e ha dunque cura di spiegare preliminarmente a quanti lo ignorassero quali princìpi, regole e istituti vengono messi a rischio ove la disposizione dell’art. 116, terzo comma, si consideri “una monade isolata”.  

Naturalmente, rivolgendosi a titolari di organi di indirizzo politico, la spiegazione preliminare non poteva restare fine a se stessa. Anzi la Corte si è spinta a prefigurare uno scrutinio stretto sul rispetto di determinati limiti costituzionali in sede di allocazione delle competenze ex art. 116, terzo comma, Cost., anche se le censure sulla l.n. 86 del 2024, in quanto legge sulle procedure, non riguardavano la concreta allocazione di competenze.

Anzitutto, la differenziazione contemplata dall’art. 116, terzo comma, Cost. va ricondotta all’impianto stesso di un regionalismo non duale, bensì cooperativo: In una “tale logica costituzionale” essa diventa “non già un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale, ma uno strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali.”

Attribuisce poi al principio di sussidiarietà “il collegamento tra l’unità e indivisibilità della Repubblica, da una parte, e l’autonomia delle regioni accresciuta grazie alla differenziazione di cui all’art. 116, terzo comma, Cost., dall’altra” Tale principio, soggiunge, “esclude un modello astratto di attribuzione delle funzioni, ma richiede invece che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione. La preferenza va al livello più prossimo ai cittadini e alle loro formazioni sociali, ma il principio può spingere anche verso il livello più alto di governo. Ai fini dell’attribuzione della funzione, contano le sue caratteristiche e il contesto in cui la stessa si svolge. […..] Poiché il principio di sussidiarietà opera attraverso un giudizio di adeguatezza, esso non può che riferirsi a specifiche e ben determinate funzioni e non può riguardare intere materie.”

Soprattutto, non potendo riferirsi a materie ma a funzioni, la ripartizione “non può essere ricondotta ad una logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici, né dipendere da valutazioni meramente politiche. Il principio di sussidiarietà richiede che la ripartizione delle funzioni, e quindi la differenziazione, non sia considerata ex parte principis, bensì ex parte populi.” Affermazione solo in apparenza scontata, e in realtà estremamente impegnativa dal punto di vista degli scrutini di legittimità costituzionale. Anche per questo segue un secondo passaggio: “l’adeguatezza dell’attribuzione della funzione ad un determinato livello territoriale di governo va valutata con riguardo a tre criteri: l’efficacia e l’efficienza nell’allocazione delle funzioni e delle relative risorse, l’equità che la loro distribuzione deve assicurare e la responsabilità dell’autorità pubblica nei confronti delle popolazioni interessate all’esercizio della funzione. Tali criteri trovano fondamento nella Costituzione.” In particolare, il criterio di efficacia ed efficienza nell’allocazione delle funzioni troverebbe fondamento nel buon andamento della pubblica amministrazione, il criterio di equità è desunto da una pluralità di parametri compreso quello dei livelli essenziali delle prestazioni, mentre quello di responsabilità costituisce un fattore di educazione all’autogoverno democratico nell’avvicinare alla popolazione interessata il livello di governo, mentre per altro verso impedisce il trasferimento a livelli più bassi tutte le volte che lo sconsigli la stretta interdipendenza tra le funzioni pubbliche coinvolte.      

Rispetto all’ “assetto ritenuto in via generale ottimale nella ripartizione delle funzioni, sia legislative che amministrative, tra Stato, regioni ed enti locali” quale prescelto nel Titolo V della parte seconda, il principio di sussidiarietà esibisce una flessibilità di cui l’art. 116, terzo comma, Cost. “è un’altra espressione”: “Esso contiene una clausola generale di flessibilità che consente a ciascuna regione di chiedere di derogare all’ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione. Poiché si tratta di una deroga alla ordinaria ripartizione delle funzioni, essa va giustificata e motivata con precipuo riferimento alle caratteristiche della funzione e al contesto (sociale, amministrativo, geografico, economico, demografico, finanziario, geopolitico ed altro) in cui avviene la devoluzione, in modo da evidenziare i vantaggi – in termini di efficacia e di efficienza, di equità e di responsabilità – della soluzione prescelta. L’iniziativa della regione e l’intesa previste dalla suddetta disposizione costituzionale devono, pertanto, essere precedute da un’istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico”.

La Corte fa salvi, in ogni caso, “i limiti generali di cui all’art. 117, primo comma, Cost. e le competenze legislative trasversali dello Stato come la tutela della concorrenza, l’ordinamento civile e i LEP, così come resta operativo il potere sostitutivo di cui all’art. 120, secondo comma, Cost.”.  Precisa infine che ad alcune materie afferiscono “funzioni il cui trasferimento è difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà” per “motivi di ordine sia giuridico che tecnico o economico”, né la loro espressa menzione fra quelle consentite dall’art. 116, terzo comma, “implica che in esse vengano meno gli stringenti vincoli derivanti dalle altre materie trasversali o dall’ordinamento unionale o dai vincoli internazionali, che si sono rafforzati a seguito dei cambiamenti che hanno investito settori rilevantissimi della vita politica, economica e sociale”.

Fra le materie indicate, per ciascuna delle quali si adducono puntuali argomenti, figurano “commercio con l’estero”, “tutela dell’ambiente”, “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, “porti e aeroporti civili”, “grandi reti di trasporto e navigazione”, “professioni”, “ordinamento della comunicazione”, “norme generali sull’istruzione”.  La promessa di uno scrutinio stretto sui trasferimenti di funzioni ad esse afferenti (§ 4.4.) lascia poche speranze a chi intendesse insistere.

La tendenza della Corte a superare la lettera del Titolo V non è nuova e secondo alcuni si giustifica con la necessità di sanare contrasti che proprio da essa scaturiscono. È quanto accadde con la sentenza sulla “chiamata in sussidiarietà” (n. 303 del 2003), che però veniva fondata sul principio di legalità e circondata da limiti di ordine procedurale. La premessa qui commentata parrebbe andare ben oltre, fino a rinvenire nella sussidiarietà una “clausola generale di flessibilità” che consente di derogare “all’ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione”.  Ma proprio allora se ne coglie l’insufficienza. Essa deve infatti sorreggersi su “criteri”, che corrispondono però prima di tutto a princìpi costituzionali (di buon andamento, di eguaglianza e di democrazia sub specie di responsabilità dell’azione pubblica). Princìpi che la Corte può sempre far valere, eventualmente insieme ad altri (perché ad es. il principio solidaristico dovrebbe avere minor pregio di quelli riportati?), indipendentemente dal loro richiamo a guisa di criteri idonei a sorreggere la sussidiarietà e quindi la differenziazione.        

Al di là dei primi esiti conseguiti con la stessa pronuncia nel merito delle censure, si ha l’impressione di una certa artificiosità dell’operazione interpretativa. Ci si può chiedere se il testo costituzionale sia davvero sprovvisto di argini sufficienti a impedire di trasformare in regola il regime derogatorio dell’autonomia differenziata.      

Fra gli argini, non c’è solo la richiesta che le forme e condizioni particolari di autonomia, in quanto “concernenti le materie” ivi indicate, si riferiscano a funzioni legislative e/o amministrative ben individuate: argomento letterale che la Corte richiama come si è visto solo a conferma, quindi in via suppletiva, della sua ricostruzione del principio di sussidiarietà.

Oltre a riferirsi esclusivamente alla distribuzione della funzione amministrativa fra enti territoriali (art. 118, terzo comma), nel testo il principio di sussidiarietà verticale è del tutto equiparato a quelli di adeguatezza e differenziazione. Il che impone all’interprete di ricercare in cosa i tre princìpi si distinguano l’uno dall’altro, non già cosa possa renderli reciprocamente strumentali.  In prima approssimazione, il principio di sussidiarietà va inteso nell’accezione di maggior prossimità ai cittadini del livello di governo, la differenziazione giuoca come costante correttivo dell’uniformità del modello di amministrazione anche nell’ambito di ciascun livello di governo (compreso il più prossimo ai cittadini), e l’adeguatezza è riferibile alla congruità della funzione amministrativa alla dimensione territoriale dell’ente.

Così interpretati, i princìpi di adeguatezza e differenziazione servono ciascuno per proprio conto a correggere quello di sussidiarietà, concorrendo a far fermare “l’ascensore”, come si esprime la stessa Corte, al livello di governo di volta in volta più conveniente. Fra tutti, poi, il principio che si proietta al di là dell’art. 118, terzo comma, con riguardo alla distribuzione delle competenze fra enti territoriali è il principio di differenziazione. E’ casomai ad esso, più che al principio di sussidiarietà, che va riportata la “clausola generale di flessibilità” che la Corte legge nell’art. 116, terzo comma:  ove la deroga al regime ordinario si riferisce alle competenze legislative, come si evince dall’indicazione delle materie oggetto di possibile trasferimento, e a quelle amministrative nella misura in cui siano funzionali all’esercizio delle prime.   

Derogando “all’ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione”, il principio di differenziazione avrebbe egualmente consentito alla Corte di far salvi i limiti generali dell’art. 117, primo comma, le potestà legislative trasversali dello Stato e il potere sostitutivo, come pure di indicare le materie per le quali un trasferimento di funzioni sarebbe “difficilmente giustificabile” sulla base degli elementi che ha puntualmente indicato per ciascuna. Esattamente i limiti testuali, gli argomenti e gli elementi su cui può reggersi quella presunzione di ottimalità. Senza per questo dover ricorrere a una superfetazione dell’assetto costituzionale fondata sul principio di sussidiarietà.  

Manca peraltro nella premessa un richiamo all’inciso “nel rispetto dei principi di cui all’art. 119” contenuto nell’art. 116, terzo comma, che avrebbe costituito la migliore risposta a quanto la stessa Corte osserva in ordine al rischio che l’autonomia differenziata “può comportare la crescita, anche accentuata, delle diseguaglianze. Ciò potrebbe avvenire a causa della diversa distribuzione territoriale del reddito, con conseguenti differenze nella capacità fiscale per abitante e quindi delle entrate regionali, nonché per effetto delle diverse capacità amministrative nelle regioni, che possono determinare una differenziazione territoriale nel livello di tutela dei diritti.” Solo che se ne era già preoccupato il legislatore costituzionale, con un richiamo al rispetto dei princìpi di cui all’art. 119 fra i quali non può non annoverarsi la perequazione finanziaria.  

Alla prospettiva della autonomia differenziata come “monade isolata”, tanto più quando venga coltivata secondo “una logica di potere”, la Corte oppone e non può non opporre una “logica costituzionale”. E tuttavia essa sacrifica l’individuazione minima dell’“ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione”, senza la quale perde credibilità la stessa prefigurazione di scrutini di legittimità sulla devoluzione delle competenze differenziate compiuta nella premessa.