Presidente per volontà del popolo o re al di sopra della legge? Dopo la sentenza Trump v. USA
di Benedetta Barbisan
Università di Macerata
1. “L’imputato sostiene di godere della immunità da azioni penali per il suo piano criminale volto a rovesciare le elezioni presidenziali del 2020 perché, a suo dire, quel piano lo avrebbe visto coinvolto nel pieno del suo ruolo ufficiale di Presidente. Ma le cose non stanno così”.
Con queste parole si apre il deposito dello special prosecutor Jack Smith davanti alla U.S. District Court per il Distretto di Columbia che è stato rivelato alla stampa i primi giorni di ottobre 2024. Nelle poche righe di questo incipit è contenuto il paradosso che giace al fondo di questo caso senza precedenti, effetto diretto della sentenza che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso lo scorso luglio, Trump v USA (603 U.S. __ (2024)), in ordine alla immunità penale accordata al Presidente dalla Costituzione: da una parte, un Presidente emerito invoca l’immunità da ogni responsabilità penale per la partecipazione a eventi di inedita gravità rivendicando di averli compiuti proprio in quanto Presidente degli Stati Uniti e nel perfetto esercizio delle prerogative che sono attribuite a quell’ufficio. Dall’altra, l’unica via esperibile da parte dell’accusa perché un processo a carico di Trump possa essere celebrato è dimostrare che quel coinvolgimento ci sia stato non nella veste di Presidente, come tale capace di ricorrere a eccezionali mezzi di persuasione e di coercizione, ma di semplice candidato alle elezioni presidenziali, in una artificiosa quanto straniante dissociazione fra Presidente in carica e Presidente aspirante alla riconferma. La surrealtà di un simile dilemma nelle circostanze date risiede nel fatto che a garantire a un Presidente emerito un salvacondotto penale per fatti come quelli contestati sarebbe ciò che li renderebbe ancora più gravi, ossia averli commessi nel ruolo di Presidente.
Il ritratto che del Presidente Trump affiora dalle 165 pagine del deposito dell’accusa è quello di un uomo che alcuni dei membri dello staff descrivono come “sempre più disperato” man mano che constatava la sconfitta irrimediabile e che, per questo, “si risolse a usare l’inganno per prendere di mira ogni fase del processo elettorale”. Mentre tutto ciò aveva luogo, egli agiva come Presidente o come comune candidato alla Presidenza? Può o non può essere processato?
È proprio ciò che il panel della U.S. District Court del Distretto di Washington dovrà appurare e che la Corte Suprema ha deliberatamente evitato di precisare. Ma, allora, se non questo, che cosa ha deciso la Corte Suprema nella sua sentenza dello scorso luglio?
2. Trump v USA è il primo caso nella storia più che bisecolare della Corte Suprema a riguardare l’immunità penale di un Presidente emerito per atti commessi mentre era ancora in carica. La Corte Suprema ha deciso di pronunciarsi sulla questione dopo che la U.S. District Court del Distretto di Columbia in primo grado e la Circuit Court in appello avevano escluso l’esistenza di una simile immunità penale assoluta. Nelle parole irridenti della Presidente del panel della Corte distrettuale, Tanya Chutkan, la Presidenza non viene con la possibilità di usare per sempre il cartoncino “Uscite gratis di prigione” del Monopoli. La sentenza dello scorso luglio, pertanto, ha ribaltato entrambe queste decisioni e ha rinviato gli atti del processo alla Corte distrettuale perché sia celebrato alla luce della classificazione degli atti presidenziali che ha messo a punto sulla base della immunità a cui danno titolo.
La prima categoria di atti comprende tutti quelli che promanano da una “conclusive and preclusive constitutional authority”: si tratta di quei poteri presidenziali derivanti direttamente dalla Costituzione e per il cui esercizio il Presidente non può essere incriminato dal Congresso né rinviato a giudizio dalle Corti. Qualche esempio di prerogative presidenziali direttamente assegnategli dalla Costituzione aiuta a comprendere la portata di questa dichiarazione: il Presidente è Commander in Chief delle forze armate e potrebbe finire per risultare penalmente immune nel caso in cui ordinasse a una squadra dei Navy Seal di assassinare un suo rivale o a un corpo militare di organizzare un colpo di Stato. Ci si chiederà – e, comprensibilmente, con qualche allarme – se, all’esito di questa sentenza, circostanze così estreme rimarrebbero davvero sottratte a ogni responsabilità del Presidente. Giuridicamente sì. Resterebbe, infatti, solo l’impeachment, ma non occorre ricordare che la messa in stato di accusa spetta alla Camera dei rappresentanti e il giudizio al Senato, sedi nelle quali le valutazioni politiche – e le maggioranze insediate – fanno premio su ogni altra considerazione e la cui massima sanzione sarebbe la rimozione del Presidente dalla sua carica.
La seconda categoria è quella che raduna tutti gli official acts, vale a dire quegli atti che il Presidente condivide con il Congresso: in tutti questi casi, opera una presumptive immunity, una immunità presunta che, per il Chief Justice John Roberts, estensore della sentenza, e per gli altri cinque giudici che si sono uniti a lui, impone all’accusa di farsi carico dell’onere di provare che l’eventuale procedimento penale “non minaccerebbe il potere e il funzionamento del ramo esecutivo” – in altre parole, che non equivarrebbe a un “danger of intrusion” da parte di un altro ramo del governo nella autorità e nei compiti del Presidente.
I motivi per i quali una così indistinta e diffusa varietà di atti è coperta dalla presunzione di immunità penale discendono, secondo la Corte Suprema, da due presupposti: l’intento dei Fondatori e alcuni precedenti giurisprudenziali rilevanti.
Sotto la prima specie, l’opinione della Corte ricorda la volontà degli estensori della Costituzione di istituire una Presidenza “vigorous” e “energetic” (così come la descrisse Alexander Hamilton nel Federalista n. 70), per avere la quale l’immunità appare indispensabile. In difetto di tale immunità, infatti, il Presidente potrebbe trovarsi nelle circostanze di doversi difendere con una conseguente distrazione di attenzione dalle funzioni che ne farebbe una istituzione “hesitant”.
Questa lettura sarebbe suffragata da due precedenti che hanno concorso a definire i termini della immunità civile del Presidente: in Nixon v Fitzgerald (457 U.S. 731 (1982)), la Corte Suprema dispose la protezione di una immunità assoluta dalla responsabilità civile per danni derivanti dai suoi atti ufficiali. In Clinton v Jones (520 U.S. 681 (1997)), l’immunità civile di un Presidente venne negata per fatti compiuti prima del suo insediamento e, in ogni caso, estranei allo svolgimento del suo ruolo. In entrambi questi casi, comunque, la Corte precisò che il “dominant concern” era scongiurare la deviazione dell’attenzione del Presidente dal processo decisionale relativo al suo incarico che potesse risultare da azioni risarcitorie per danni derivanti da suoi specifici atti ufficiali.
Infine, la terza e ultima categoria di atti si definisce sulla scia di questo ultimo precedente, per cui l’“unofficial conduct” del Presidente, che non ricade nell’esercizio dei suoi poteri, risulta estranea a qualsiasi immunità. Ma, a giudicare dall’interpretazione massimamente estensiva di ciò che ricade sotto la dicitura degli atti ufficiali, è tutt’altro che facile rintracciare quelli che stanno al di fuori e che restano soggetti a qualche responsabilità.
Ai tre giudici del panel della U.S. District Court del Distretto di Columbia ora spetta di valutare sotto quale di queste categorie ricadano i comportamenti che vengono contestati a Trump in quelle settimane fra il novembre 2020 e il gennaio 2021. Il compito “può essere difficile”, come ha riconosciuto lo stesso Roberts, ancor di più perché in questa valutazione i giudici non potranno tener conto dei moventi alla base degli atti del Presidente. A loro spetterà altresì di scrutinare le comunicazioni di Trump con persone esterne al ramo esecutivo, come i funzionari statali e lo staff della campagna elettorale per sostituire i Grandi elettori, quelle tese a incoraggiare i suoi sostenitori durante la presa del Campidoglio, nonché il discorso che pronunciò tre ore prima dalla Ellipse della Casa Bianca, nel corso del quale invitò la folla a marciare da Pennsylvania Avenue verso Capitol Hill e a “fight like hell”. Stabilire se queste azioni possano dirsi ufficiali o meno dovrà basarsi non solo sui particolari, ma anche sulle circostanze circostanti, ha precisato Roberts. Sempre che il processo si terrà: è facile immaginare che, se rieletto, fra i suoi primi atti ufficiali il Presidente Trump potrà indurre il Dipartimento della Giustizia a far cadere tutte le accuse.
3. Se il Presidente degli Stati Uniti davvero può contare su una immunità penale assoluta certa o, nella peggiore delle ipotesi, presumibile per tutti gli atti assunti nello svolgimento del suo ruolo, il Presidente degli Stati Uniti oggi diventa un Re al di sopra della legge, ha scritto Sonia Sotomayor nella sua vibrante e dolente dissenting opinion, che eloquentemente si chiude con una implorazione ai posteri: “With fear for our democracy, I dissent”, senza il tradizionale “respectfully”. Il Presidente che risulta da un simile privilegio è messo nelle condizioni di agire in modo vigoroso ed energico per il bene suo personale non meno che per il bene del popolo. Il senso del limite al potere che ha innervato l’intera impresa costituzionale agli albori della Repubblica americana si infrange contro l’immunità che rende una istituzione libera di pervertire il proprio potere per il perseguimento anche di convenienze unicamente private.
È proprio fra idee diverse sull’utilità di una tale immunità penale assoluta che si è acceso il confronto fra i giudici della Corte Suprema già nelle fasi di dibattimento di questo caso. In particolare, in aula le differenze di orientamento si sono concentrate intorno al cosiddetto chilling effect che, nel diritto di common law, allude alla riluttanza a esercitare fino in fondo le proprie funzioni per timore di incorrere in sanzioni legali: per il giudice Samuel Alito, se un Presidente, una volta esauriti i due mandati o una volta che abbia mancato la rielezione, dovesse temere di essere accusato dai suoi successori degli atti che ha compiuto mentre era in carica, è proprio allora che sarebbe tentato di mettere in discussione l’esito del voto per allontanare da sé il rischio di una condanna. Secondo Alito, l’immunità penale sarebbe, dunque, utile a regolare i rapporti fra inquilini della Casa Bianca, impedendo che chi viene dopo si accanisca contro chi lo ha preceduto.
Uno scenario, questo, che, però, poco si è visto nella storia della Presidenza: gli annali ricordano, e pour cause, una tornata elettorale tumultuosa nell’anno 1800, quando il Vicepresidente uscente, Thomas Jefferson, sfidò il Presidente John Adams e lo sconfisse, scippandogli il secondo mandato. Adams e Jefferson erano stati costretti, sin dalle elezioni del 1796, a convivere perché al tempo diventavano Presidente e Vicepresidente i due candidati che avevano ottenuto più voti: nel disegno dei Fondatori, infatti, la Casa Bianca doveva essere destinata all’uomo migliore, al più qualificato, senza connotazioni politiche di parte, e il suo Vice non poteva che essere il secondo uomo migliore per numero di voti. La campagna elettorale che poi condusse alla vittoria di Jefferson fu percorsa da minacce di ritorsioni fra Federalisti e Anti-federalisti e di annientamento della forza avversaria. Fu proprio a causa di un clima politico così avvelenato che il neo Segretario di Stato di Jefferson, James Madison, rifiutò di perfezionare gli atti di nomina a giudice di pace di un certo William Marbury, su cui la Corte Suprema, guidata da John Marshall, già Segretario di Stato prima di Madison, fu chiamata a decidere. E fu per impedire che circostanze come quelle accadute nel 1796 e nel 1800 si ripetessero che nel 1804 venne ratificato il Dodicesimo Emendamento.
Di tutt’altro avviso la giudice Ketanji Brown Jackson: è proprio quando un Presidente sa di non godere di una immunità assoluta che il chilling effect funge da disincentivo a trasformare la Casa Bianca in un covo di criminali.
Si potrebbe pensare che, per una democrazia matura come quella statunitense, il senso del limite sia ormai ultroneo. La Casa Bianca non sarà sempre stata – e verosimilmente non lo sarà sempre neppure nel futuro – la destinazione degli uomini (e delle donne) migliori come gli estensori della Costituzione auspicavano ma, in fondo, è il ruolo che fa l’uomo, non solo il contrario. Eppure, non è meno vero oggi che alla fine del Settecento che solo se gli uomini fossero angeli non avrebbero bisogno di limiti all’esercizio del potere, come scrisse Madison nel Federalista n. 51.
Raramente si trova testimonianza di questo da parte di chi quel potere lo ha avuto e ha dovuto accettare di rinunciarvi come la Costituzione dispone. È capitato di leggerlo solo una volta, nelle parole che il corrispondente alla Casa Bianca del New York Times, Peter Baker, raccolse in un lungo reportage del maggio 2009 sulla vita di Bill Clinton una volta cessato dalla carica (The Mellowing of William Jefferson Clinton). Con qualche inatteso candore, che rende questa dichiarazione preziosa, Clinton confessò: “Mi piace la mia vita di adesso [come Presidente della Clinton Foundation]. Ho amato fare il Presidente ed è un bene che ci sia un limite costituzionale, altrimenti forse avrei acconsentito a lasciare la Casa Bianca solo dentro una cassa di pino”.