Riforma del patto di stabilità e finanziamento dei beni pubblici europei

image_pdfimage_print

di Federico Losurdo

Università degli Studi di Urbino ‘Carlo Bo’

Anche dopo la sua recente riforma, il patto di stabilità e crescita (PSC) continua ad apparire “stupido”, come lo qualificò Romano Prodi, quando era Presidente della Commissione europea. Per la rigidità delle sue regole che sottovalutano l’eterogeneità economico-sociale tra gli Stati membri. Ma dietro le regole contradditorie, i numeri asseritamente scientifici contenuti nel PSC si cela, ad avviso di chi scrive, un obiettivo politico chiaro: comprimere la spesa pubblica degli Stati membri allo scopo di agevolare l’affidamento dei servizi sociali al mercato.

1. La dottrina ordoliberale e le sue contraddizioni

Secondo la dottrina ordoliberale, l’Unione economico-monetaria, perfezionata dal PSC nel 1997, si sarebbe dovuta ancorare ai codici normativi dell’integrazione attraverso il diritto. Doveva essere cioè un’unione vincolata a un «sistema di norme giuridiche sovranazionali giustiziabili, preordinate a compensare il vuoto di solidarietà tra gli Stati membri» (Joerges-Giubboni, 2013). La politica monetaria veniva in tal modo federalizzata e, al contempo, depoliticizzata, immunizzandola da possibili “derive” keynesiane nella gestione macroeconomica (Ciocca, 2024).

In verità, la “fedeltà” del PSC al paradigma dell’integrazione attraverso il diritto è dubbia già solo analizzando la sua base giuridica. Senza pervenire alla tesi radicale di Guarino, si può osservare che le disposizioni dei trattati riconoscevano al legislatore europeo il potere di precisare le modalità procedurali della sorveglianza multilaterale (art. 121, 6 TFUE), non di introdurre regole contenutistiche nuove: quale il vincolo di conseguire «a medio termine, un saldo di bilancio vicino al pareggio o positivo» (art. 3 regolamento CE 1466/1997). Un vincolo quantomeno integrativo rispetto al protocollo aggiunto sulla procedura per disavanzi eccessivi, dove si trovano enunciati i parametri del 3% e del 60 %.

Il proposito di gestire la politica fiscale europea attraverso una “regola aurea” valida per tutti gli Stati membri si è dimostrata nel corso del tempo illusoria. In certe circostanze il PSC si è rivelato anzi un abito confezionato su misura. Come quando nel 2003 Germania e Francia non si attennero alle regole del PSC e la relativa procedura d’infrazione per deficit eccessivo iniziata dalla Commissione cadde nel nulla. Il PSC fu modificato nel 2005 con un’attenuazione dei vincoli di bilancio condizionata a riforme strutturali dei sistemi laburistici e previdenziali, riforme che fotografavano l’agenda dell’allora Governo Schröder. In occasione della crisi dei debiti sovrani, invece, Francia e Germania promossero una radicalizzazione di quei vincoli: nel 2011 il PSC fu rafforzato con un pacchetto di riforme, il c.d. “Six Pack” e nel 2012 venticinque Stati membri sottoscrissero il Fiscal compact, un trattato internazionale che introdusse l’obbligo di inserire il vincolo del pareggio di bilancio strutturale con «norme preferibilmente di rango costituzionale».

Secondo l’impostazione ordoliberale, la violazione delle regole del PSC avrebbe richiesto sanzioni efficaci e semi-automatiche. Eppure, la procedura di deficit eccessivo non è mai giunta all’erogazione di una multa ad uno Stato membro. Nella gran parte dei casi la procedura iniziata dalla Commissione è stata archiviata per una decisione “politica” del Consiglio. Di qui il tentativo di limitare la discrezionalità decisionale del consiglio introducendo il principio della maggioranza qualificata inversa. Quanto detto non significa che il PSC sia sprovvisto di un enforcement delle proprie regole. La procedura di deficit eccessivo opera congiuntamente alla “disciplina” dei mercati finanziari di cui si postula l’intrinseca razionalità.

2. Sospensione del PSC, l’occasione per un ripensamento della governance economica

L’emergenza pandemica ha richiesto il superamento della “Comunità di stabilità” con l’allentamento dei vincoli di bilancio, al fine di dotare l’Unione di un’autonoma capacità fiscale diretta a rilanciare l’economia europea. Il NGEU e i relativi Piani nazionali di ripresa e resilienza hanno messo al centro dell’agenda politica europea l’obiettivo della crescita sostenibile ed equilibrata, prima di tutto sul piano ambientale e sociale. Per agevolare e accompagnare le politiche nazionali di crescita, sono state “sospese” temporaneamente le regole di bilancio del patto di stabilità e crescita, oltre che quelle attinenti al divieto degli aiuti di stato.

La sospensione del PSC nel suo braccio preventivo (tramite l’applicazione della “general escape clause”) avrebbe potuto essere l’occasione per un ripensamento complessivo della governance economico-monetaria. Il PSC era stato, infatti, architettato nell’epoca d’oro della globalizzazione neoliberale in cui era funzionale ad una ricetta di politica economica incentrata sul binomio tra austerità fiscale e salariale per contenere la domanda interna e riforme strutturali per stimolare la competitività esterna. La pandemia e poi il ritorno della “guerra tra Stati” hanno trasformato lo scenario internazionale. Si assiste se non proprio di una de-globalizzazione, quanto meno ad una sua ridefinizione su basi geopolitiche (Galli, 2023), in cui riaffiorano aggressive politiche protezionistiche (che prendono il nome di friend-shoring, de-coupling, de-risking e così via).

Proprio nel momento in cui le altre potenze mondiali (Stati Uniti e Cina in testa) non pongono limiti al ricorso al debito pubblico per finanziare i propri obiettivi politici strategici, l’Unione europea ha deciso di riattivare il PSC e i relativi vincoli di bilancio alla spesa pubblica. Senza al contempo affrontare, su base strutturale non legata all’emergenza, la questione dell’assunzione un debito comune, allo scopo di finanziare la realizzazione dei beni pubblici europei: tra cui la transizione ecologica e digitale, la coesione sociale e territoriale, la sicurezza energetica, la difesa comune.

3. Il senso della riforma del PSC

A fine aprile di quest’anno è, dunque, entrato in vigore il “nuovo” PSC, al termine di un iter legislativo defatigante che ha visto l’iniziale proposta della Commissione, contenente alcuni elementi di ragionevolezza, riscritta dal Consiglio Ecofin.

Nel suo insieme, il PSC riformato consacra il metodo di governance consolidatosi nell’ambito del NGEU e dei relativi PNRR, un metodo improntato alla “condizionalità” (un’eredità della crisi dei debiti sovrani) e alla valutazione prevalentemente quantitativa degli obiettivi di politica economica e di bilancio degli Stati membri (Bartolucci 2024). L’indirizzo politico-economico degli Stati membri non è più condizionato al vincolo del saldo strutturale, ma a quello della spesa primaria netta: definita come «la spesa pubblica al netto della spesa per interessi, per sussidi di disoccupazione, per sovvenzioni dell’UE e per misure discrezionali sul lato delle entrate». A tal proposito, l’art. 5 del regolamento (UE) 2024/1263 stabilisce che quando il debito pubblico è superiore al 60 % del PIL o il disavanzo al 3 % del PIL, la Commissione trasmette allo Stato membro interessato una «traiettoria di riferimento» per aggiustare la spesa netta. Questa traiettoria concordata copre, inizialmente, un periodo di quattro anni ma può essere estesa a sette anni, qualora lo Stato membro interessato si impegni ad implementare investimenti e riforme strutturali nei settori considerati strategici per il futuro dell’Unione.

Le clausole di salvaguardia, opportunamente eliminate nella proposta della Commissione, sono state reinserite nella versione definitiva approvata dall’Ecofin. Da una parte, i paesi con un debito pubblico superiore al 90% dovranno ridurlo almeno dell’1% ogni anno, mentre quelli con un debito tra il 60% e il 90% dovranno ridurlo dello 0,5%. Dall’altra parte, si introduce il concetto di “margine comune di resilienza”. In sintesi, i paesi con debito superiore al 60% del PIL dovranno avere un margine di manovra per evitare di superare il vincolo del 3% e, segnatamente, i paesi con rapporto debito PIL superiore al 90% dovranno fare aggiustamenti annuali del saldo primario, fino a quando esso non raggiunge il valore dell’1,5% del PIL, mentre per i paesi con rapporto debito PIL fra il 60% e il 90% il margine è dell’1%. Ad avviso di chi scrive, queste regole non correggono il principale limite di quelle precedenti. Il PSC continua a riconoscere margini di manovra maggiore agli Stati “virtuosi”, rischiando di cristallizzare (piuttosto che attenuare) i divari economici esistenti con gli altri Stati membri.

In prospettiva, l’aspetto più impattante su paesi come l’Italia è il mantenimento dell’indicatore del prodotto interno potenziale, criterio che, nella misura in cui è calcolato sulla base del PIL di “breve periodo” al netto cioè degli investimenti infrastrutturali che accrescono la domanda aggregata, potrebbe avere un effetto pro-ciclico: una ricetta di austerità in tempo di recessione (Brancaccio 2023). L’indicatore in questione è assai rilevante in quanto viene preso in considerazione per la definizione del rapporto debito PIL, del saldo strutturale, nonché dell’entità della spesa primaria netta.

4. Come finanziare i beni pubblici europei?

Le riflessioni precedenti sollecitano un interrogativo conclusivo: in mancanza di un adeguato bilancio europeo (che corrisponde a circa l’1 per cento del reddito nazionale lordo complessivo degli Stati Membri) e di un indebitamento comune non limitato all’emergenza, come conseguire le enormi risorse necessarie per realizzare i beni pubblici europei?

Una risposta sembra provenire dal recente rapporto sulla competitività nel mercato interno presentato da Enrico Letta: “Much more than a market – Speed, Security, Solidarity”. Il rapporto muove dalla constatazione che la competitività rivolta all’interno, basata cioè sul dumping salariale, non ha prodotto i risultati auspicati, indebolendo la domanda interna e il modello sociale europeo. Secondo il Rapporto Letta, l’Unione europea deve oggi competere con due giganti, Cina e USA, che non intendono più rispettare le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio ed elaborano attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva [quali l’USA Inflation Reduction Act] e per reindirizzare gli investimenti delle grandi imprese europee verso le loro economie.

Sulla base di questa premessa, il Rapporto in parola affronta l’interrogativo sul come finanziare i beni pubblici europei. I pur indispensabili investimenti statali con finalità redistributive, ad esempio per rendere i sistemi sanitari più resilienti, non sono più sufficienti. Occorre fare ricorso anche a strumenti innovativi di finanza privata. Il Rapporto Letta delinea le tappe per la costruzione di un’Unione dei mercati dei capitali («Capital Markets Union»). Si tratterebbe di creare le condizioni per convogliare i circa 33mila miliardi di euro nella titolarità dei cittadini europei verso grandi gestori europei del risparmio, in modo da mobilitare risorse che gli Stati non hanno più a disposizione (pagg 11-12 del Rapporto). Secondo alcuni commentatori, questa strategia presenta il rischio non trascurabile che il ruolo dello Stato si riduca a quello di garante, di leva degli investimenti privati in progetti destinati a servizi pubblici gestiti, però, secondo logiche prevalenti di profitto (Andrea Guazzarotti, 2024). A differenza del pubblico, il privato ha una tendenza a privilegiare investimenti in settori ad alta reddittività, trascurando quelli in perdita in quanto legati ad esempio ad utenti vulnerabili o residenti in luoghi remoti.

Anche chi scrive nutre perplessità su questa finanziarizzazione dei servizi pubblici che finirebbe per indurre i lavoratori a destinare una parte crescente dei propri salari ad investimenti nei fondi integrativi e assicurativi (auspicabilmente europei e non più unicamente statunitensi), al fine di garantirsi quei diritti sociali essenziali, dalla sanità alle pensioni, considerati fino ad oggi universali. Ad ogni modo, anche il ricorso alla finanza privata non risolve il nodo gordiano dell’Unione europea. Per realizzare la transizione ecologica e digitale, la coesione sociale e territoriale, la sicurezza energetica, la difesa comune, i beni pubblici europei, l’Unione dovrebbe finalmente dotarsi di una politica fiscale unitaria, non legata all’emergenza, ma strutturale e supportata da forme permanenti di indebitamento comune, magari incorporando nei trattati esistenti la strumentazione virtuosa del NGEU (se si vuole, F. Losurdo, 2023).

Autore

F. Losurdo

Università degli Studi di Urbino 'Carlo Bo'

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Translate »