Ripensare e riformare le modalità di acquisto della cittadinanza: l’occasione fornita dal referendum sulla legge n. 91 del 1992
di Francesca Angelini
Università di Roma “Sapienza”
Inaspettatamente, il dibattito politico di fine estate ha rimesso al centro le regole sull’acquisto della cittadinanza poste dalla l. 91/1992. Come è noto, nonostante l’immigrazione si sia trasformata, per entità dei flussi in ingresso, in una componente strutturale della nostra società, il principio base su cui si fonda il riconoscimento della cittadinanza, sulla scorta della disciplina del 1992, è ancora lo ius sanguinis. Accanto all’acquisizione per discendenza diretta, la legge prevede due percorsi generali attraverso i quali è possibile accedere alla cittadinanza anche per ius soli: il primo riservato ai neomaggiorenni nati in Italia e ivi residenti che hanno la possibilità di richiedere la cittadinanza per beneficio di legge entro il compimento del diciannovesimo anno; il secondo, per naturalizzazione, riservato agli stranieri regolari e maggiorenni che abbiano la residenza continuativa nel nostro Paese da almeno dieci anni. In entrambi i casi le domande sono accompagnate da procedimenti complessi e da tempi particolarmente lunghi che, soprattutto nel caso della domanda per naturalizzazione, comportano attese di almeno quattro anni.
Da anni si discute della possibilità di modificare la legge al fine di introdurre un principio di ius soli temperato attraverso forme di riconoscimento dello ius scholae o dello ius culturae, tanto che, nel 2015, la Camera dei deputati ha approvato un progetto di legge in tal senso, che, tuttavia, non ha potuto concludere l’iter parlamentare a causa della fine della legislatura. Dopo quell’esperienza il tema della riforma della legge sulla cittadinanza, anche per ragioni politiche, è rimasto ai margini dell’attenzione pubblica, evocato solo dai Presidenti Napolitano e Mattarella o citato indirettamente a commento dei successi sportivi di atleti italiani di seconda generazione.
Il dibattito riaperto, a settembre, dalle forze politiche sullo ius scholae ha avuto il merito, dunque, non solo di rimettere al centro una questione urgente per molti giovani italiani non cittadini che sono cresciuti e spesso anche nati nel nostro Paese e che vivono una condizione di evidente disuguaglianza socioeconomica al compimento della maggiore età (che li costringe a richiedere il permesso di soggiorno e a dimostrare di possedere una serie di requisiti per iscriversi all’università o lavorare), ma ha permesso di far emergere un clima complessivamente favorevole a una revisione dei requisiti di acquisto della cittadinanza (si veda il sondaggio di Repubblica del 31.8.2024, p. 8, dal quale risulta che il 52% degli italiani è favorevole allo ius scholae), tanto che nei mesi di settembre e di ottobre scorsi sono state raccolte le firme per chiedere un referendum abrogativo per ridurre i tempi di residenza, necessari per la domanda di cittadinanza, da 10 a 5 anni. Da ultimo, la decisione, del 20 gennaio, della Corte costituzionale di ammettere il referendum, consentirà certamente, attraverso la relativa campagna referendaria, di aprire un’ampia riflessione su questioni di grande rilievo per il futuro del nostro Paese; storicamente, infatti, l’evoluzione della nozione di cittadinanza e dei suoi criteri di acquisto è essenziale a svelare nel profondo l’idea di costituzionalismo e di comunità politica che si realizza in ogni ordinamento. Quei criteri, infatti, rivelano obiettivi precisi di inclusione/esclusione che sono il precipitato di ragioni storiche, sociali e politiche.
Nel 1912, la prima legge italiana sulla cittadinanza, scegliendo il criterio del sangue, assumeva come obiettivo la salvaguardia di una nozione di cittadinanza capace di realizzare “un ‘legame ontologico’” frutto “di una ‘naturale compenetrazione’ tra il cittadino e lo Stato” (G. Bascherini); così, a fronte di una realtà che poneva l’Italia fra i paesi di grande emigrazione, l’ordinamento affidava il mantenimento del legame fra i suoi cittadini emigrati e lo Stato allo ius sanguinis e alla sua capacità di superare confini geografici e generazionali.
Da allora le condizioni del nostro Paese sono profondamente mutate; a partire dagli ultimi due decenni del Novecento l’Italia si è trasformata in Paese d’immigrazione, le famiglie straniere regolarmente residenti in Italia sono una realtà consolidata ed evidente soprattutto nelle aule delle nostre scuole, dove circa un milione di alunni, pari all’11%, è costituito dalle “seconde generazioni”, studenti cioè che condividono un background migratorio; di questi, il 65 % è nato in Italia.
Generalmente il termine “seconde generazioni” viene utilizzato con riferimento a quei giovani che sono a tutti gli effetti italiani, ma che sono privi di cittadinanza; si tratta di ragazzi che hanno storie differenti alle spalle, ragazzi nati in Italia da genitori stranieri residenti nel nostro Paese, ragazzi che si sono ricongiunti da bambini ai loro genitori migranti in Italia e che, dunque, hanno percorso una parte significativa del loro processo di socializzazione e scolarizzazione nel nostro Paese; minori non accompagnati o minori rifugiati giunti in Italia da anni e oramai qui residenti e scolarizzati. In tutti questi casi si tratta di ragazzi di origine non italiana presenti sul nostro territorio da sempre o da molti anni, scolarizzati e culturalmente integrati nel nostro Paese, che si trovano per lo più – senza aver vissuto direttamente l’esperienza migratoria o avendola vissuta da molto piccoli – ad ereditare sostanzialmente la condizione di straniero dei genitori. Si tratta, inoltre, di ragazzi sicuramente accomunati da tale condizione, ma che, per altri versi, vanno a formare realtà molto diversificate e complesse a causa di una serie di variabili (sociali, politiche e culturali) che incidono certamente sui loro processi di inclusione. Rispetto a tali variabili il ruolo affidato alle istituzioni di istruzione e formazione è certamente di grande rilievo perché permette loro di essere inseriti in un percorso di crescita intellettuale, individuale e collettiva, che dovrebbe essere riconosciuto quale presupposto all’acquisto della cittadinanza, intesa, in questi casi, come fattore di coesione comunitaria e strumento di partecipazione democratica sia in termini quantitativi che qualitativi.
Nelle cose dette, è facile riconoscere le tracce di un dibattito, anche scientifico (cfr. G. Azzariti, La Cittadinanza. Appartenenza, partecipazione, diritti delle persone, in Diritto pubblico, 2/2011), che mira a rafforzare un concetto di cittadinanza profondamente differente da quello basato solo sulla comunanza di sangue, che confina la cittadinanza negli stretti spazi della sola ‘appartenenza legale’ e del riconoscimento di uno status formale. Occorre precisare che l’intento di chi scrive non è quello di proporre il criterio dello ius soli come alternativo ed escludente rispetto a quello dello ius sanguinis: come dimostra l’esame comparato, infatti, le diverse discipline statali non adottano mai uno dei due criteri “ ‘in purezza’, ma si basano su combinazioni variamente bilanciate” degli stessi (G. Bascherini). L’obiettivo che appare urgente è, invece, quello di favorire l’apertura di nuovi percorsi di accesso allo status di cittadina/o rivolti a giovani che formalmente ereditano la condizione di straniero, ma che nella realtà hanno esperienze di vita e di formazione che hanno coinciso con la costruzione di un legame di appartenenza e di partecipazione alla nostra comunità culturale, sociale e politica. Si tratta degli stessi percorsi ed esperienze nei quali si realizza l’evoluzione della nostra comunità e che, per questo, devono essere valorizzati dalle istituzioni di istruzione e formazione, che ne sono le principali protagoniste. L’acquisizione della cittadinanza non può, dunque, non tener conto di un’analisi attenta e realistica della trasformazione della composizione del corpo sociale; tale trasformazione deve trovare rispondenza anche nella dimensione normativa, informando la promozione attiva dell’applicazione delle norme sulla cittadinanza in un senso più inclusivo e aperto a diffondere una maggiore coesione sociale.
In base alla disciplina vigente (l. n. 91/1992), i ragazzi nati e residenti in Italia da genitori stranieri o giunti da piccoli e residenti stabilmente da almeno 10 anni nel nostro Paese, una volta raggiunta la maggiore età si trovano a vivere un’esperienza di vera e propria regressione in termini di diritti, perché, in attesa che venga loro riconosciuta la cittadinanza, perdono tutte quelle garanzie che erano state loro riconosciute in quanto minori, ed entrano giuridicamente in un ‘limbo dei diritti’ con tutte le difficoltà che tale passaggio comporta su ragazzi poco più che adolescenti, ignari di dover affrontare, spesso in completa solitudine, un procedimento amministrativo complesso e duraturo.
A ben vedere, è la stessa Costituzione a valorizzare un’idea di cittadinanza sostanziale come appartenenza attiva ad una comunità politica, sociale e culturale, sia sufficiente, a tal fine, richiamare alcune fondamentali disposizioni della Carta, a partire dagli artt. 3, 10, co. 3, e 22 Cost., che chiaramente valorizzano un’idea di cittadinanza basata prioritariamente sulla partecipazione politica e sociale.
A fronte di quanto detto – e sottolineata la necessità della conservazione anche del criterio dello ius sanguinis, che peraltro ha riattualizzato le sue finalità a causa della crescente scelta emigratoria effettuata da molti giovani italiani negli ultimi anni – si ritiene non più procrastinabile la riforma della legge sulla cittadinanza del 1992 e il suo rinnovamento a procedimenti più aderenti alla realtà del nostro Paese e in grado, soprattutto, di uniformare, semplificare e accorciare le procedure.
Di proposte in tal senso, oltre al progetto di legge quasi approvato nel 2015, ne abbiamo avute diverse negli ultimi anni; nel corso della precedente legislatura, ad esempio, era stata depositata una proposta di legge, mai approdata alla discussione in Aula, basata sul c.d. ius scholae, che estendeva la possibilità di richiedere la cittadinanza per beneficio di legge non solo ai ragazzi nati nel nostro Paese, ma anche ai ragazzi arrivati prima dei 12 anni, residenti ininterrottamente in Italia e che avessero concluso un ciclo scolastico di almeno 5 anni; tale proposta non avrebbe solo eliminato la disparità basata sul luogo di nascita fra studenti italiani neomaggiorenni con background migratorio, ma avrebbe anche semplificato e abbreviato il procedimento di accesso alla cittadinanza, evitando a molti giovani di seconda generazione di vivere la disorientante esperienza di scoprirsi stranieri nel luogo dove si è cresciuti. Inoltre, a fronte di proposte di legge ispirate a una maggiore inclusività, mai approvate, non si può tacere che negli ultimi anni gli interventi legislativi, ad esclusione di qualche rara eccezione, sono andati quasi tutti nel senso di rafforzare il primato dello ius sanguinis e di aumentare complessità, tempi e costi della domanda di cittadinanza. Tali scelte hanno avuto ricadute inevitabilmente negative nei percorsi di inclusione di ragazze e ragazzi che lo Stato italiano educa e forma a proprie spese e che poi, sempre più frequentemente, proprio per le difficoltà sperimentate nel percorso di accesso alla cittadinanza, maturano la scelta di lasciare l’Italia, con un risultato che appare doppiamente paradossale per una Nazione come la nostra che presenta problemi molto seri di denatalità e di debito pubblico. A proposito, sia sufficiente solo riflettere sul fatto che facilitare l’inclusione di famiglie straniere e dei loro figli rappresenta attualmente l’unico modo per contrastare il consistente fenomeno di spopolamento dei quasi quattromila comuni delle aree interne del Paese (si veda: rapporto Censis 2023); la presenza di minori stranieri, in questi comuni, inoltre, rappresenta spesso lo strumento per evitare la chiusura delle scuole primarie.
Rispetto alle problematiche di cui si è detto, l’iniziativa referendaria assume il valore di una risposta solo parziale e indiretta, ma comunque positiva. Va innanzitutto sottolineato che il referendum abrogativo proposto da + Europa ha come obiettivo la riduzione da 10 a 5 degli anni di residenza legale nel nostro Paese per fare domanda di cittadinanza per naturalizzazione degli stranieri extracomunitari maggiorenni; a tal fine il quesito, con un intervento di tipo manipolativo, chiede l’abrogazione dell’articolo 9, co 1, lett. b), limitatamente alle parole “ adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione” e lett. f) della l. n. 91/1992, recante nuove norme sulla cittadinanza. L’intervento sull’articolo 9 mira, dunque, a eliminare le differenze, oggi previste ai fini della domanda di cittadinanza, fra straniero extracomunitario maggiorenne “adottato da cittadino italiano” e lo straniero extracomunitario legalmente residente in Italia. L’approvazione del quesito, fra l’altro, ripristinerebbe il periodo di residenza legale già previsto dalla vecchia legge sulla cittadinanza del 1912, sulla quale era poi intervenuta la legge del 1992, differenziando fra stranieri comunitari, per i quali il periodo il tempo si è abbassato a 4 anni, e stranieri extracomunitari per i quali gli anni sono stati portati a 10. Il ritorno al termine di 5 anni, inoltre, avvicinerebbe la legislazione italiana alle normative oggi vigenti in molti altri Stati dell’UE, quali: Francia, Germania, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Lussemburgo, Svezia. Appare evidente, tuttavia, che il quesito non andrebbe ad incidere sui criteri di acquisto della cittadinanza e neppure sulle modalità della domanda per naturalizzazione, la cui natura rimane sempre concessoria e affidata alla discrezionalità dell’amministrazione. Invariati resterebbero anche i requisiti reddituali, linguistici e penalistici previsti (P. Bonetti); in altri termini, l’accoglimento della domanda resterebbe ancora caratterizzata dal coincidere con uno dei procedimenti amministrativi più lunghi e complessi della nostra amministrazione pubblica. Ciò nondimeno, l’abrogazione proposta permetterebbe di dimezzare i tempi di accesso alla cittadinanza e di trasmetterla direttamente ai figli minori. Inoltre, l’esito positivo del referendum, ancorché limitato, potrebbe indurre il legislatore finalmente a rivedere l’intera normativa, intervenendo auspicabilmente sui criteri di acquisto della cittadinanza e accogliendo aperture coerenti con l’espressione del voto referendario; aperture capaci di eliminare quelle incomprensibili differenze nella condizione giuridica di tanti neodiciottenni che popolano le nostre scuole, fra studenti cittadini, studenti stranieri nati in Italia, studenti stranieri nati in un paese UE e studenti nati in un paese extraeuropeo, differenze che spesso ci fanno dimenticare la sostanza della loro condizione, quella che ci appare chiaramente quando li guardiamo da vicino e cioè che si tratta in ogni caso di “studenti italiani” che animano le strade del nostro Paese e del nostro futuro.